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#ilSalotto: Giulia Caminito, tra memoria del colonialismo italiano e memoria personale

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La grande A
di Giulia Caminito
Giunti, 2016 

pp. 288
€ 14,00 (cartaceo)
€ 1,99 (ebook)


Negli ultimi anni l’interesse degli autori italiani per le tematiche connesse a colonialismo e postcolonialismo è sempre maggiore. Ai titoli di Igiaba Scego, Cristina Ubah Ali Farah, Gabriella Ghermandi (per fare qualche nome di scrittori – in realtà quasi sempre scrittrici - nati nelle ex-colonie italiane in Africa, o comunque culturalmente legati a quei territori) e a quelli di Carlo Lucarelli, Wu Ming, Nicola Labanca (per fare qualche nome di scrittori che invece non lo sono) si sono aggiunti tra il 2016 e il 2017 almeno altri due libri, che sono anche due opere prime: I Fantasmi dell’Impero di Marco Consentino, Domenico Dodaro e Luigi Panella (Sellerio, 2017), e La Grande A di Giulia Caminito, edito da Giunti. Il primo è un romanzo di denuncia vero e proprio, in cui la ricostruzione storica è il vero epicentro della trama. Nel secondo, invece, gli eventi storici sono il contesto (imprescindibile ma non protagonista) della storia di una giovane donna, Giada, alle prese con una madre con molta personalità, un marito con molta poca e un figlio da crescere.
La storia si snoda dalla provincia milanese al Corno d’Africa e poi a Ravenna e a Roma; dall’inizio della seconda guerra mondiale agli anni sessanta. La trama si nutre delle vicende vissute dalla famiglia paterna di Caminito: il personaggio di Giada è ispirato alla nonna, e il padre dell’autrice è realmente nato ad Asmara. I ricordi di famiglia sono quindi stati rivisitati, e poi scritti con una lingua ricca, piena di vita e di personalità, che continua a essere meritatamente premiata dal successo di pubblico e di critica (il romanzo ha vinto a luglio la XXV edizione del premio Berto). 
La grande A rivela la maturità, stilistica e non solo, di Caminito, che va ancora in in giro per l’Italia a presentare il libro a quasi un anno dalla sua pubblicazione. E che contemporaneamente ha anche pubblicato la raccolta Guardavamo gli altri ballare il tango e altri racconti, edita da Elliot, e sta scrivendo un altro romanzo, per Bompiani. 
Una storia così bella e una scrittura così particolare meritavano qualche domanda più approfondita. Siamo quindi andati a conoscere personalmente Giulia Caminito, nel quartiere Testaccio di Roma, che ha gentilmente risposto alle nostre domande. 

Com’è nata La grande A
La grande A è nata quattro-cinque anni fa, quando ho iniziato a lavorare al progetto. Un progetto che parte dalla memoria orale e diventa poi storia romanzata. Ho intervistato mia nonna con regolarità: una volta al mese per un anno. Si ricordava moltissimo, e i suoi ricordi sono stati il materiale su cui ho iniziato a lavorare e a cui poi ho aggiunto dell’altro. Ho seguito due spinte: da un lato la volontà di ricostruzione familiare – dov’è nato mio padre? – dall’altro la ricostruzione politica – cos’era successo in Italia? 

Cos’è per te “la grande A”? 
Il titolo si riferisce a un immaginario, indistinto e favolistico. La “grande A” è tutto un altrove in cui proiettare speranze; un po’ il contrario della “grande E”, l’Europa di oggi. Il libro gioca molto su questi sogni e si muove per mancanze di quello che prima sembrava terribile (anche climaticamente, Giada rimpiange l’odiato freddo quando ha caldo). Ci sono similitudini e divergenze con l’altra “grande A”, l’America. Mi interessava molto capire i movimenti degli italiani al di fuori dell’Italia, noi che siamo molti resistenti al tentare di rendere meticcia la nostra cultura (pensiamo ad esempio al discorso patriottico sul cibo italiano) e che tendiamo sempre a creare una “bolla italiana”, una Little Italy, sia in Italia che fuori. 

Secondo te, quanta consapevolezza c’è del passato coloniale italiano? 
Per me è stato un movente importante, una radice che ha a che fare con me stessa. In genere, in questi anni per fortuna c’è un rinato interesse. La narrativa italiana sull’Africa coloniale è principalmente opera di uomini, pensiamo a Ennio Flaiano, Mario Tobino, Alberto Denti di Pirajno (che fu dottore delle colonie). C’è poi una narrativa della diaspora, soprattutto femminile, e un generale interesse per i temi postcoloniali (penso a Wu Ming, Igiaba Scego, Carlo Lucarelli). I riferimenti cinematografici, invece, sono molto assenti nel discorso culturale italiano. E, complessivamente, non c’è la presa di coscienza del postcoloniale. C’è una grande mancanza di cultura generale e, come dice Lucarelli, di immaginario, una mancanza di riferimenti. Ad esempio, se io dico “scugnizzo”, la gente sa a cosa mi riferisco, riesce subito a inquadrare il termine. Ma se dico “ascaro” no, se faccio un riferimento ad Adua no. È difficile parlare di qualcosa se non si hanno dei riferimenti comuni. Dopo la pubblicazione ho visto che il libro ha catalizzato l’interesse di chi si occupa di postcoloniale, ed è stato bello perché ho imparato molto anche io. Ho avuto mille consigli di lettura del mio stesso romanzo. 

Il personaggio di Giada è costruito molto bene. Si riprende il marito frivolo e superficiale, che l’aveva abbandonata, ma in lei il lettore non vede mai una donna debole o piegata allo stato immodificabile degli eventi. Raccontaci come l’hai costruita
Ho deciso di lasciare le cose come sono state. Non avevo voglia di creare delle eroine che facessero più di quello che le persone a cui sono ispirate hanno realmente fatto. L’unico interesse per Giada, e così per mia nonna, era nei confronti di suoi figlio, che voleva che avesse quel senso di famiglia e di solidità che lei non aveva mai avuto. Mia nonna aveva vissuto povertà, guerra, sradicamento: voleva una serenità, e non è secondo me un’espressione di debolezza. Anche il rapporto tra Giada e sua madre – Adi – volevo che rispecchiasse non la solita dicotomia madre-figlia che porta a drammi, ma uno spalleggiarsi tra due voci femminili diverse. 

Quali sono le tue letture? Chi ha ispirato la tua scrittura? 
Principalmente il Novecento italiano. Mi interessa molto la lingua, l’uso delle parole, delle espressioni. Amo molto la Nuova Enciclopedia di Alberto Savinio e ho letto molte enciclopedie e glossari ad opera di scrittori (non ne ho mai incontrati di scrittrici però). Ho un grande interesse per l’etimologia. Negli anni in cui ho scritto La grande A lavoravo in una casa editrice e – anche per lavoro – ho letto tante scrittrici del secolo scorso, spesso dimenticate: Laudomia Bonanni, Livia De Stefani, Giuliana Ferri, Leda Muccini. E poi Morante, Maraini, Banti, Aleramo, Deledda, con la loro scrittura femminile che ha dato tanto al linguaggio. Le loro opere, in qualche modo, si avvicinano di più all’origine della lingua e allo stesso tempo, se si legge Canne al vento per esempio, quella lingua è sempre attuale. A me piace tornare indietro, alla parte più popolare, al come si formano i proverbi, a un glossario territoriale. La lingua di oggi, piena di calchi dall’inglese, mi sembra più piatta e povera. La lingua popolare si è indebolita, mentre un tempo aveva delle sfumature più forti. 
Ma la mia è solo una prima proposta, so che devo ancora abbandonare dei vezzi, migliorare. Ci devo riprovare, si deve vedere sulla distanza se uno è capace di fare qualcosa.