#paginedigrazia - “Canne al vento”: il romanzo più celebre di una scrittrice premio Nobel assente dal canone letterario





Canne al vento 
di Grazia Deledda 
Ilisso, Nuoro, 2005 

prefazione di Paola Pittalis 

pp. 217 

cartaceo € 11 
ebook €4,90 

Canne al vento è un romanzo appartenente alla fase matura della produzione letteraria di Grazia Deledda. Pubblicato originariamente a puntate nel 1913 sulla rivista L’illustrazione italiana, esce nello stesso anno anche per Treves, che all’epoca era in uno dei suoi periodi di più intensa attività editoriale. Così anche per Deledda, che pubblica quasi un romanzo ogni anno

I temi principali della scrittura di Deledda, già sperimentati nei lavori precedenti, convergono in Canne al vento, considerato notoriamente la sua opera più celebre. La storia è ambientata a Galte (Galtellì nella realtà), dove le tre sorelle Pintor – Ruth, Ester e Noemi – vivono nel palazzo della loro nobile famiglia ormai in declino. La quarta sorella, Lia, si ribella alle rigide regole imposte dal padre, fugge, sposa un forestiero da cui ha un figlio e muore. Il padre, Don Zame, muore anch’egli nel vano tentativo di inseguire la figlia Lia e riparare allo scandalo. Sulle tre sorelle, sempre più vecchie e sempre più povere ma orgogliosamente aggrappate al ricordo della loro antica nobiltà, veglia Efix, loro devotissimo servo. Fulcro del romanzo è l’arrivo del figlio di Lia, Giacinto, l’avvenimento che sconvolge lo status quo e muove tutta la trama del romanzo. Giacinto, infatti, – giovane che arriva dal continente e che conosce il mondo – riaccende le speranze di un nuovo rifiorire della famiglia, soprattutto in Efix. Speranze che si rivelano presto vane, perché Giacinto non è meno disgraziato degli altri personaggi: si innamora di Grixenda, una povera contadina, è a sua volta amato dalla zia Noemi, gioca d’azzardo, si indebita, ed è costretto alla fuga per non subire ulteriori umiliazioni in paese. Lo scioglimento degli intrecci della trama arriva alla fine: i vecchi – Ruth ed Efix – muoiono, e l’amore ristabilisce l’ordine naturale delle cose. Giacinto sposa Grixenda e Noemi, comprendendo che non può avere il nipote, sposa il ricco Don Predu, che garantisce una nuova agiatezza a quello che rimane della famiglia Pintor.

Come scrive Paola Pittalis nella prefazione all’edizione Ilisso di Canne al vento, “Efix e Giacinto sono i personaggi risolutivi del romanzo” (p. 17). Dalle loro scelte e dalle loro azioni muovono, infatti, tutti i temi principali del romanzo, che poi sono anche i temi dell’intera opera di Deledda. In primis, il tema della colpa e del peccato, che è tutto concentrato sul personaggio di Efix. Quando Efix cerca di imporsi sul destino, anche con le migliori intenzioni, viene immancabilmente punito. Spinto da un affetto talmente intenso per Lia da essere quasi (impossibile) amore, la aiuta a fuggire, e nel farlo uccide involontariamente il padrone Don Zame. La colpa di quest’azione sarà la cifra stessa della sua vita, che trascorrerà nel tentativo di fare ammenda. Promuove poi la venuta di Giacinto agli occhi delle sorelle Pintor, sperando per loro in un futuro migliore grazie al giovane nipote, ma mette in casa delle sue padrone uno sciagurato scialacquatore. Perfino la fuga non risolve nessun problema: Efix è un pastore errante, ma del personaggio leopardiano non ha la consapevolezza e la profondità. Il viaggio di Efix è inutile, quando torna non sa perché sia andato via e le cose al paese si risolvono comunque in sua assenza. L’unico effetto della fuga di Efix è farlo diventare ultimo tra gli ultimi: lontano da casa si ritrova a mendicare insieme ad altri disgraziati e sperimenta la scompostezza della povertà di fronte alla bellezza, alla giovinezza e alla ricchezza, e la crudeltà nella miseria, descritte magistralmente da Deledda:
C’erano due giovani nuoresi bellissimi che per farsi notare dalle fanciulle cominciarono a buttar soldi al cieco, mirando da lontano al petto, e ridendo ogni volta che colpivano giusto. Poi s’avvicinarono e presero di mira Efix, divertendosi come al bersaglio. Efix trasaliva tutto ad ogni colpo e gli pareva lo lapidassero, ma raccoglieva le monete con una certa avidità, e in ultimo, finito il giuoco, di nuovo si pentì e si vergognò (pp. 175-176).
L’altro personaggio risolutivo del romanzo, Giacinto, è il centro del rapporto di causa e conseguenza che porterà alla risoluzione della trama: se Giacinto sposa Grixenda allora Noemi sposerà Don Pedru. Giacinto ricorda molto ‘Ntoni dei Malavoglia, non solo perché – come ricorda Pittalis – entrambi i ritorni a casa sono senza idillio, ma anche perché nessuno dei due può dirsi veramente protagonista della storia. Alla fine dei Malavoglia, ‘Ntoni vede il sorgere del giorno ma parte, ha sbagliato, e Rocco Spatu merita più di lui di chiudere il romanzo. E in Canne al Vento Giacinto viene sì reintegrato nella società, ma a patto di scendere nella scala sociale: “anche io volevo andarmene lontano, al di là del mare” (p. 95) dice Giacinto, che è di nobile discendenza e vorrebbe fare fortuna, ma che poi è costretto a un lavoro umile e sposa Grixenda, una poverella che va scalza a lavare i panni al fiume. 

Deledda non distingue i personaggi in buoni e cattivi: appartengono tutti a un unico insieme umano, in cui non ci sono eroi o eroine, ma solo uomini e donne in balia del vento. Grande topos deleddiano, il vento è forse l’unico vero protagonista del romanzo, che inizia proprio con la metafora degli uomini sbattuti come canne al vento: 
star vigili come le canne sopra il ciglione che ad ogni soffio di vento si battono l'una all'altra le foglie come per avvertirsi del pericolo (p. 27) 
e finisce con la consapevolezza che a nulla vale il potere dell’uomo sulla sorte, che è appunto come il vento: 
perché la sorte ci stronca così, come canne? Siamo canne e la sorte è il vento (p. 200).
In questo romanzo circolare, il vento non è solo cornice della storia, ma rappresenta il disorientamento dei personaggi che vivono al confine tra il vecchio e il nuovo. Deledda, e qui sta la sua grandezza, non si limita a cantare una Sardegna arcaica – come potrebbe sembrare a una prima lettura –, ma la pone in relazione problematica con la modernità, e cioè con la fine del mondo agricolo, con l’ascesa della borghesia, – rappresentata dal Milese, il commerciante arricchito di Galte (si veda Pittalis, p. 10) – con la consapevolezza di un mondo al di là del mare a cui i giovani guardano. 

L’influenza del Verismo è chiara in Canne al Vento, così come nelle altre opere di Deledda, ed è già stata evidenziata e studiata dalla critica. L’osservazione della natura è all’origine della scrittura deleddiana, come la scrittrice stessa ha confermato. Sandra Petrignani, nel suo libro La scrittrice abita qui (Neri Pozza, 2002), riporta infatti come a una signora che, una sera a Galtellì, invitava “Grazietta” a tornare a casa poiché era ormai tardi, la scrittrice rispose “No, non ci vado a casa. Devo osservare il tramonto del sole e come la luna illumina il monte: è il mio lavoro”. Eppure, l’osservazione e la descrizione del paesaggio – agricolo e aspro – non bastano a fare di Deledda una scrittrice verista. Come hanno già notato, tra gli altri, Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, il lirismo e il ricorso al fiabesco differenziano intrinsecamente le opere di Deledda da quelle di Verga o Capuana. In Canne al vento, ad esempio, fin dal primo capitolo la descrizione delle fasi della giornata e della natura che circonda Efix e l’umanità tutta è intrecciata con elementi fantastici e misteriosi
La luna saliva davanti a lui, e le voci della sera avvertivano l'uomo che la sua giornata era finita. Era il grido cadenzato del cuculo, il zirlio dei grilli precoci, qualche gemito d'uccello; era il sospiro delle canne e la voce sempre più chiara del fiume: ma era soprattutto un soffio, un ansito misterioso che pareva uscire dalla terra stessa; sě, la giornata dell'uomo lavoratore era finita, ma cominciava la vita fantastica dei folletti, delle fate, degli spiriti erranti. I fantasmi degli antichi Baroni scendevano dalle rovine del castello sopra il paese di Galte, su, all'orizzonte a sinistra di Efix, e percorrevano le sponde del fiume alla caccia dei cinghiali e delle volpi: le loro armi scintillavano in mezzo ai bassi ontani della riva, e l'abbaiar fioco dei cani in lontananza indicava il loro passaggio (p. 28).
Questa particolarissima commistione tra naturale e soprannaturale è uno degli elementi che rende chiaro come sia meglio non racchiudere Deledda entro i confini di nessuna etichetta o esperienza letteraria perché, comunque la si voglia guardare, la sua scrittura si pone sempre in una posizione liminare

Isolana, fa della sardità il perno delle sue opere pur mettendosi sempre in relazione e in tensione col globale. Non è un caso che la sua scrittura, più che assomigliare ai siciliani veristi celebri durante i suoi stessi anni, ricorda i poeti di un’altra isola e di altri tempi: W.B. Yeats e Seamus Heaney, e l’Irlanda mistica del primo e fangosa del secondo.
Non è poi da trascurare un particolare non scontato: Grazia Deledda è una donna che in Canne al vento scrive di altre donne. Inserisce i suoi personaggi femminili all’interno di un mondo estremamente patriarcale, in cui non hanno nessuna possibilità di scelta. Ricordano le sorelle Malfenti della Coscienza di Zeno, come scrive Pittalis nella prefazione (p. 11), ma le Pittor hanno un di più di tragicità che è assente nel romanzo di Svevo. Sono quattro sorelle che vivono secondo i rigidi dettami paterni: tre di loro sono zitelle, la quarta disobbedisce alla regola, fugge e muore. Ancora una volta non c’è scampo dalla punizione per le proprie colpe nell’universo deleddiano e, anche se nel romanzo è intravista una possibilità per le donne di deviare l’intreccio ed inserirsi nel corso degli eventi, è in realtà solo un non agire. Così per donna Ruth, che al momento in cui le cose volgono al peggio sente “il bisogno di muoversi, di fare qualche cosa per aiutare la famiglia” (p. 123). Ed è esattamente l’assenza di movimento, la morte, l’unico modo per Ruth di cambiare gli eventi ed essere protagonista di almeno un pezzettino della storia che circonda anche lei. 

Alla luce della rappresentazione delle sue donne, l’esperienza letteraria di Grazia Deledda splende con ancora più intensità. Autrice particolarissima, riesce a farsi spazio nell’universo letterario italiano di primo Novecento dominato dalle voci maschili, e giunge perfino a vincere il Nobel per la letteratura nel 1926, unico caso tra le scrittrici italiane. Eppure, Deledda e la sua opera sono assenti dalla dalla maggior parte dei manuali scolastici e dei corsi universitari di letteratura italiana contemporanea. Uno studio condotto dalla dottoressa Alberica Bazzoni dell’Università di Oxford (e qui consultabile) riporta come su tredici manuali scolastici presi in esame – scelti tra i più adottati in Italia – la scrittrice sarda sia completamente assente in otto di questi, e come sia possibile laurearsi nella maggior parte dei corsi in Lettere moderne in Italia senza aver mai sentito a lezione il nome di Grazia Deledda (e di Sibilla Aleramo, di Anna Maria Ortese, di Natalia Ginzburg, eccetera eccetera). Un fatto assurdo, che conferma come scrivere e aggiornare il canone letterario sia ancora oggi un gesto politico di appannaggio maschile. La speranza è che l’occasione dei due anniversari che ricorrono nel 2016 – novant’anni dall’assegnazione del Nobel e ottanta dalla morte –, e i molti eventi legati a queste ricorrenze, tra cui il nostro #paginedigrazia e il lavoro di editori come Ilisso – che negli anni ha ripubblicato l’intero corpus deleddiano in splendide edizioni – siano da stimolo a molti per riscoprire l’opera di Grazia Deledda. 

Serena Alessi