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La sintassi di una preghiera impossibile: "Una ragazza lasciata a metà" di Eimear McBride

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Una ragazza lasciata a metà
(A Girl is a Half-formed Thing)
di Eimear McBride

trad. italiana di Riccardo Duranti

Safarà, 2016



L'esordio dell'irlandese Eimear McBride, Una ragazza lasciata a metà, arriva nelle librerie italiane con un resumé di tutto rispetto. Il romanzo ha vinto in Irlanda e Regno Unito numerosi e prestigiosissimi premi (il Goldsmiths Prize nel 2013, il Bailey Women’s Prize for Fiction, il Kerry Group Irish Novel of the Year Award e il Desmond Elliott Prize nel 2014) ed è stato accolto con grande entusiasmo in tutto il mondo anglofono. Ma ve lo dico subito: se siete in cerca di un libro che vi metta a vostro agio, questo romanzo non fa per voi.

Immaginate Effy Stonem, uno dei personaggi principali della serie tv inglese Skins, raccontata dal James Joyce di Finnegan's Wake. (Il riferimento a Joyce non è un caso: l'autrice ha dichiarato che l'ispirazione per la sua scrittura nasce proprio dalla lettura dell'Ulysses.) C'è una ragazza, la narratrice, e c'è suo fratello, il suo interlocutore - il suo "tu". Sono i due poli di una galassia famigliare sospesa tra salvezza e perdizione: lui condannato da un tumore al cervello, lei vittima di una continua violenza tra le mura domestiche che trova sfogo solo in una nevrotica espressione della sessualità, anche incestuosa.


Il continuo flusso di coscienza della narratrice, attraverso cui percepiamo tutto il suo mondo, i personaggi che lo popolano, le confessioni e le amare rivelazioni, parte dalla sua primissima infanzia e si sviluppa, crescendo con lei. Una ragazza lasciata a metà è un romanzo brutale, di una brutalità che si permea sin nella forma linguistica, nel lessico e soprattutto nella sintassi. La sintassi di questo romanzo è una cosa meravigliosa, e la traduzione di Riccardo Duranti è pienamente consapevole delle originali intenzioni di McBride: non soltanto la ragazza-narratrice di questo romanzo è una cosa lasciata a metà, ma lo è anche il suo linguaggio, il modo in cui esprime fatti minimi, con pronomi relativi a cui non segue una frase, con preposizioni a cui non segue un complemento. 
Potrei essere una persona. Sotto la. Dove l’orribile può essere un buon atto di contrizione. 
In questo romanzo nessuno dei dialoghi è marcato, chiuso tra virgolette o introdotto da qualsivoglia segnale tipografico: tutto è filtrato e rivomitato dalla coscienza della narratrice. Man mano che bambina-ragazza-donna cresce le sue frasi si fanno più compiute, meno fitte di mamma mammina, ma non per questo smettono di pulsare come una ferita aperta. In questa brutalità però si trovano anche fulgidi momenti di poesia: quei tipici momenti in cui un lettore deve per un attimo interrompere la lettura, perché nel suo flusso di coscienza la narratrice ha detto qualcosa che, scavando nella rabbia e nel caos, parla anche di noi. E si trova preghiera. Il romanzo è fittissimo di preghiere che s'intrufolano nel discorso della narratrice: preghiere abbozzate, preghiere interrotte, preghiere originali o citate di peso (appare spesso il Salve, Regina). La madre della narratrice, d'altronde, è una cattolica osservante. Ma mi spingo ancora oltre, e vi dico che questo libro intero è il tentativo di tessere una preghiera. Non verso il Dio cristiano, questo è ovvio, ma verso quel "tu" minuscolo, il fratello sull'orlo del precipizio, il suo spettro, lo spettro della colpa e della degradazione del Sé.
Nella cappella. M’inginocchio. O dio Gesù. Ti supplico. T’imploro. Vedi. T’imploro. Ma ho i sassi in bocca. Piombo sulla lingua. Tu non sei il tipo che prega. Però io. Tu no. Tu no. Dopo tutto quello che hai fatto. Le persone buone pregano e i peccatori vanno a. L’inferno. Grazie, Gesù. Amen.

Laura Ingallinella
@lauraingalli