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#CritiCINEMA: Educazione siberiana di Gabriele Salvatores

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Educazione siberiana
di Gabriele Salvatores

con Arnas Fedaravicius, Villius Tumalavicius, Eleanor Tomilson, Jonas Trukanas, Vitalji Poršnev, Peter Stormare e John Malkovich, prod. Cattleya e Rai Cinema, 2013

Leggi anche la recensione al libro

È difficile sfuggire alla sensazione immediata che, rispetto al romanzo di riferimento, la sceneggiatura scritta dallo stesso regista e da Stefano Rulli e Sandro Petraglia abbia profondamente e inopportunamente stravolto, addirittura invertito in molti casi, i dati più vistosi della traccia narrativa del testo letterario. Ma bisogna anche aggiungere che un film non è costituito solo dalla sceneggiatura e che la costruzione delle immagini, il ritmo del montaggio, l’approntamento delle scene, la direzione della recitazione – elementi sui quali un regista, pur sempre coadiuvato da altri tecnici o artisti (un film è opera tecnicamente e artisticamente complessa e plurivoca, che spesso con troppa disinvoltura si fa passare come il risultato di un solo fare) può esercitare una maggiore discrezionalità, mettendo la sua firma stilistica – si allontanano molto meno dal testo letterario ispiratore. Per semplificare, si potrebbe dire che Salvatores e tutti i suoi collaborati hanno scelto di privilegiare certi aspetti del romanzo di Lilin a scapito di altri.

Sul piano dell’espressione (in particolare dell’elocutio e della compositio) il libro di Lilin, al di là di un incerto e, a volte, inelegante uso di una lingua acquisita, l’italiano, non cercava particolari effetti stilistici e lo svolgimento cronologico, racchiuso tra un prologo e un epilogo che di per sé costituivano il racconto come esperienza chiusa e superata, era grosso modo lineare. E da questo punto di vista il film è decisamente fedele: il regista costruisce una narrazione “contenente” (il contrastato rapporto d’amicizia e di competizione tra il protagonista e il deuteragonista) che ingloba l’ambiente e le altre, minori, narrazioni che vi si svolgono; e lo fa tenendosi in spalle una macchina da presa sempre esterna, pulita, immediatamente comunicativa. Me è soprattutto sull’uso, la funzione e la posizione della macchina da presa (che è ciò che in letteratura è grosso modo il punto di vista) e sulla preparazione del set, insomma sul piano della costruzione dell’immagine, che Salvatores mette la sua firma originale e reinterpreta a suo modo il testo di partenza. Salvatore dà vita ad una dialettica esterno/interno non solo sul piano narrativo e concettuale, ma la rinforza sul piano espressivo: da un lato le scene in esterno, con i loro colori molto accessi, spesso monocromatiche (il bianco della neve), con linee, disegni e contrasti ben definiti (chi ha già visto Mediterraneo o Io non ho paura può farsi un’idea di cosa intendo), e che si potrebbe sbrigativamente definire il versante Van Gogh dello stile di Salvatores; dall’altro le scene in interno (in particolare le case dei siberiani e il carcere minorile dove Kolima è rinchiuso per qualche tempo) che sono pervase da una luce soffusa, dorata che “scontorna” le linee, e che, simmetricamente, potremmo definire il versante Rubens. In più, proprio all’interno del carcere minorile entra dall’alto una luce accecante che si manifesta in scaglie polverizzate: come se la comunicazione tra i due mondi non potesse essere che impossibile o distruttiva. E in effetti nel film, come nel libro, la comunità chiusa, tradizionalista, eticamente fondata dei “criminali onesti” siberiani non può che polverizzarsi al contatto del nuovo mondo globalizzato.


L’infedeltà narrativa più evidente e che più ha creato disagio tra i lettori del libro che hanno visto il film è sul rapporto tra Kolima e Gagarin. Nel libro si parla sempre di comunità, di logiche di gruppo e non si costituisce mai questa forte individualizzazione dei rapporti personali. Si è detto, credo a ragione, che nel rapporto tra Kolima e Gagarin, la sceneggiatura ha voluto sovrapporre alla traccia narrativa originaria un ricordo e un omaggio al C’era una volta in america di Sergio Leone. Sovrapposizione non del tutto gratuita se si tiene conto che nel film di Sergio Leone il contrasto tra i due personaggi trova origine nella megalomania di Max (James Woods) che vorrebbe rapinare niente meno che il deposito aurifero degli Stati Uniti e che nel libro di Lilin, Gagarin, appunto, ha un piano per rubare la stella d’oro della cupola del Cremlino. Ma anche in questa fragorosa infedeltà, in questa occidentalizzazione individualistica si può leggere tra le righe una fedeltà e una reinterpretazione personale plausibile del libro. Leggendo il quale, si ha spesso la sensazione che alcuni dati antropologici che risultano dalle descrizioni dei riti, dei costumi e delle regole della chiusa comunità siberiana siano comuni anche ad altre comunità altrettante chiuse e geograficamente e storicamente lontane le une dalle altre. Il rispetto per la natura, la percezione ciclica e non lineare del tempo, l’uso e non l’abuso delle risorse che essa mette a disposizione dell’umanità, ricorda, ad esempio, tra le altre, le comunità degli indiani d’America; la religiosità esteriore, “iconica” (e i tatuaggi ne sono parte integrante), specifica della comunità, fanno pensare a quel misto di ferocia e credenza religiosa di alcune cosche mafiose; l’ostinata resistenza politica della comunità siberiana alla normalizzazione staliniana (al progresso e alla pianificazione collettivistica) a loro volta fanno pensare al nostro brigantaggio postunitario. Credo che gli esempi si potrebbero moltiplicare, ma per quello che voglio dire possono bastare. In questa prospettiva, dunque, sovrapporre il comunitarismo siberiano all’individualismo occidentale potrebbe anche essere inteso come una fedeltà potenziata, come una reinterpretazione personale che supera l’opera in sé e per sé, trascinandola più avanti e più nel profondo di ogni singolo fruitore. Che è poi l’essenza di ogni rapporto che si istituisce tra opera d’arte e destinatario.