in

Cantare l'amore in quartine - II centuria - Patrizia Valduga

- -
Quartine. Seconda centuria
di Patrizia Valduga
Einaudi, Torino 2001

€ 11




Centoquartine e altre storie d'amore (1997) non resta un’opera conclusa: trova seguito nel 2001 con Quartine. Seconda centuria. La coesione progettuale è attestata già a livello paratestuale: dal titolo della raccolta, all’epigrafe belliana [1] e alla numerazione progressiva dalla quartina 101 in poi. L’orizzonte comunicativo appare da subito evidentemente cambiato: l’attacco dantesco «Per me si va da un niente a un altro niente/ a dar l’assalto alla mortalità» (3) rileva la prima posizione dell’io-lirico, che infatti resta in soliloquio per trenta quartine. Torna l’obiettivo della fuga dalla precarietà della vita grazie all’«ardore ancora ardente», che tuttavia non realizza una vera vita (ib.). La condizione dell’io-lirico è diversa da quella del mondo, sostanzialmente ignaro della transitorietà, e così si giustifica la «voglia sanguinaria» (6) di tornare a sventare i pensieri sull’effimero intraprendendo di nuovo il viaggio del piacere, espresso con la metafora nautica di Cento quartine. Contrariamente all’altra raccolta, le quartine non appaiono profondamente coese, ma vi è un procedere per strappi ragionativi e sillogistici (107), con domande esistenziali da autobiografia poetica («Mettiamo un poco in ordine la mente,/ ripassiamo la parte della vita», 23), alternate all’invasione intermittente del corpo, con memorie o con ruvido materialismo presente (26). Il grande quesito inevaso è se l’amore possa qualcosa contro la solitudine della morte: 
Lui o un altro che differenza fa
Se poi ho da sentirmi sempre sola?
Sola con la mia moribilità…
se esistesse questa bella parola… (24) 
In questa quartina 122, il “lui” che apre la strofa non è più il referente diretto delle Cento quartine: l’io-lirico non ha interlocutori, medita sulla favola d’amore terminata almeno razionalmente, mentre perdura l’emozione (25). Solo alla quartina 131, fa la sua comparsa l’amante, che richiama la donna alla realtà: si scopre così che l’io-lirico ha intrapreso le sue riflessioni in bagno, con dissacrante demistificazione del momento speculativo. Non a caso l’uomo è fuori dalla porta, estromesso dai pensieri ragionativi, e non interloquisce, ma interrompe semplicemente il “flusso di coscienza” poetico, che riprende faticosamente dalla quartina 132 con sequenze sulla prossimità dell’oblio. «E se stramazzo giù nei miei inizi?/ Sola con me è peggio che con lui» (41): la riflessione lungo le vie inconoscibili e impervie della mente è più rischiosa del «serraglio di assonnate lascivie» (43) entro cui tornare. Più che l’amplesso, in questa Seconda centuria si focalizzano i postumi dell’amore, gli umori rappresi e i tremiti passati, in piena coerenza con il vanitas vanitatum e il desiderio vitalistico (51).
Da qui il desiderio rabbioso di condividere tutto con Giovanni Raboni (apostrofato a 50), non solo il sentimento o il sesso; la coppia è, riprendendo la metafora nautica valdughiana, porto sicuro (53-54-55), anche e soprattutto in previsione della morte: «Vuoi morire con me, testa di cazzo?/ Scavare nel mio cuore con la vanga?» (56). Matura il sentimento di non desiderare più l’invasione dell’usurpatore o il vuoto dell’assente: l’unico conforto rimasto è nelle parole («sono loro il mio solo grande amore», 67). Nuovamente, un richiamo bestemmiante dell’amante interviene a «sabotare» le «ispirazioni» della donna (78): colta dal furor, l’io-lirico maledice l’uomo, in un violento climax di predicati che invitano alla sparizione (il tutto con la martellante iterazione del pronome enclitico di seconda persona):
Bestemmiatore! pàrtiti, sparisci.
Ovvero: involati, volatilizzati,
dilèguati, disgrègati, svanisci,
nebulizzati, evapora, atomizzati. (79) 
Tuttavia, l’ira si placa delle quartine successive, in cui ci si immagina cosa dire prima all’amante («Prendimi e mangiami: questo è il mio corpo./ Bevi tutto il mio sangue: sia il tuo vino», di biblica memoria, 81), e poi si parcellizzano i messaggi al proprio cuore (83), al proprio corpo (con l’invito ad accontentarsi, 84) e alla propria mente (85). Si slitta quindi al ricordo di esperienze passate e alla riflessione su di sé, sfuggendo sempre al presente frustrante, fino a un’abbozzata idea di suicidio (92), poi ritrattata, per un singolare e atavico attaccamento alla vita (99). Solo da ultimo (100), torna il pensiero dell’amante, definito «quell’estraneo», in attesa di risposte impossibili e di un «piccolo amore tranquillante» (che può rimandare all’avverbio contratto, ma anche al sostantivo, alludendo quindi alla funzione placebo del sentimento). Il rientro è salutato dall’amante che, ancora una volta, ha il compito di chiudere la centuria; tornano l’offerta e il verbo volitivo: 
“Bentornata tra i vivi!” Io non parlo
con un pezzo di porco come te.
Che il diavolo ti porti! “Sta per farlo.
Intanto non vorresti del caffè?” (102) 
Questa duecentesima quartina, perfettamente conscio della precarietà della vita e dell’approssimarsi della morte, l’uomo non fa niente per sottrarsi al destino, se non ingannare l’attesa condividendo piccoli e grandi piaceri.

Gloria M. Ghioni



[1] «sicutèra in principio e nnunche e peggio. G. G. Belli».