Amorizzazioni: una falsa vie en rose...




Amorizzazioni
di SUSE VETTERLEIN
Verbavolant edizioni, 2012

Con prefazione di ALDO NOVE
pp. 232

Si può essere anche spietati con una risata. Non è questo il caso di Suse Vetterlein, ma il suo Amorizzazioni è senza dubbio meno leggero di quella patina svolazzante che lo farebbe sembrare una lettura semplice. Oserei dire che, nel suo disimpegno apparente, ingaggia una critica sociale dissimulata, acuta e, a tratti, acuminata. E non si direbbe, non si direbbe proprio, perché il romanzo sembrerebbe un divertissement un po' folle di una linguista impazzita, che vuole giocare estremizzando l'uso della lingua popolare, fino a raggiungere quel che Aldo Nove, nella prefazione, definisce "iper-pop". Allora si incontrano luoghi comuni portati al parossismo, giochi di parole che potrebbero spingere Suse Vetterlein nel terreno scivoloso del già detto, e invece... Invece, l'autrice - traduttrice e collaboratrice per una casa editrice - sa bene come riscattarsi da qualsiasi dubbio: il mondo che descrive, falsamente favolistico e ingenuo, è uno specchio imbellettato della nostra società, e i meccanismi di potere non sono che fili mossi da un grande burattinaio...
Non c'è pesantezza, questo possiamo affermarlo con certezza.

Ehi, prof!

 
Ehi, prof!
di Frank McCourt

Adelphi 2008 

 pp. 309
€ 11,00


Una lettura particolare. Solo chi ha sperimentato e continua a sperimentare l'esperienza lavorativa dell'insegnamento, ed in particolare dell'insegnamento rivolto agli adolescenti, è in grado di cogliere a fondo questo libro.
Frank McCourt, irlandese trapiantato in America, è un professore nelle scuole superiori di New York. In questo suo testo autobiografico il lettore fa un viaggio particolarissimo all'interno della mente dell'educatore, del formatore, del comunicatore, dell'insegnante che continuamente viene messo dinnanzi alla realtà delle sue classi. Fallimento e gioia, senso di inadeguatezza ed inquietudine di fronte ai ragazzi della scuola sono il leitmotiv di questo testo.
Pochi sono i voli accademici, misere le possibilità di elevazione nelle classi della scuola. Chi insegna sa perfettamente quale grosso rischio si annida tra i banchi della scuola: quello dell'imbrutimento. Incredibile dictu! Passare le proprie giornate a far ragionare, lavorare ed impegnare gli alunni nel momento delicato della loro formazione intellettuale rischia di essere per l'insegnante la tomba della curiosità intellettuale, dell'apprendimento, come afferma l'Autore descrivendo il senso di spossatezza che prende dopo le ore trascorse in classe, con il chiacchiericcio dei ragazzi che accompagna il docente fino alle soglie del sonno e che quasi impedisce qualsiasi altro sforzo intellettuale.

Kakuzo Okakura, "Lo zen e l'arte della cerimonia del tè"

Lo zen e l’arte della cerimonia del tè
di Kakuzo Okakura

Feltrinelli 1998 (1964)

99 pp.
7,00 euro


In origine il tè fu medicina, per poi trasformarsi in bevanda. Nella Cina dell’VIII secolo entrò a far parte del regno della poesia, come uno dei passatempi raffinati. Nel XV secolo il Giappone lo elevò a religione estetica - il teismo.

Il popolo occidentale, anzi ormai mondiale, si divide in due categorie: chi a colazione beve il caffè e chi preferisce il tè. Mauriel Barbery li definisce come “l’incanto e l’eleganza contro la cattiveria e i giochi di potere degli adulti”. Questo libello è per il “popolo del tè”.

Manuel Giovannelli, XXII




Manuel Giovannelli
XXII
Montecovello editore

pp. 276, € 16.

Inserito dall’editore nella collana Fantasy, il bel romanzo di Manuel Giovannelli, XXII, non ha, a mio parere, nessuno dei tratti distintivi che definiscono il genere. Si tratta di un romanzo che, in uno scenario geo-politico futuribile, quello appunto del ventiduesimo secolo, narra le vicende, più o meno intrecciate tra loro, di un gruppo di personaggi la cui vita è pesantemente influenzata dalla situazione storico-sociale nella quale si trovano a vivere. Protagonisti del romanzo sono dunque i personaggi, la vicenda narrata e, forse più ancor di più, la situazione politica, sociale ed economica che, nella fantasia dell’autore, si sarebbe venuta determinando dei due secoli che ci separano dal tempo presente. Situazione che Giovannelli descrive riannodando i fili della Storia che dall’oggi (tempo della scrittura) arriva fino al ventiduesimo secolo (tempo narrativo). Nel solco di questa affabile e plausibile ricostruzione, l’autore traccia le vicende individuali di un padre che da tempo non ha più notizie del figlio, di un poliziotto arruolato in corpi speciali per la difesa della Federazione (l’insieme di stati europei e mediterranei) governata, sotto le apparenti spoglie della democrazia, con metodi militari e fascisti, di un’avvenente ventenne che “fa carriera” e di altre vicende ora più, ora meno marginali rispetto all’intreccio principale.

L’impianto ideologico generale è piuttosto chiaro: le vite individuali non possono essere considerate come monadi autonome rispetto alla Storia e alla situazione politica, economica e sociale entro cui si svolgono. Gli individui di fronte a una realtà che assume l’aspetto potente e opprimente della immodificabilità ne sono talmente condizionati che, acquiescenti o ribelli, con essa devono fare i conti. A sua volta, la realtà data non è ontologicamente immodificabile, bensì storicamente determinata e politicamente modificabile (e il finale aperto del romanzo, né utopico né distopico, ne è una ragionevole testimonianza). Insomma, in tempi bui e “senza futuro” come i nostri, una non disprezzabile lezione di senso storico.

"Amore cieco" o cieco amore?


Amore cieco
di Victor Sawdon Pritchett

Adelphi, 1998
74 pp.


La scoperta di piccoli gioielli nascosti non è mai razionale, il più delle volte è casuale e inaspettata. È stato questo il caso, per il vostro recensore, di questo piccolo capolavoro. Un racconto godibile da qualsiasi punto di vista: il contenuto, la trama, lo stile e la cultura letteraria.
La storia inizialmente sembrerebbe scontata e già sentita: quella di un ricco (molto ricco) signore inglese, Mr. Armitage, che essendo cieco viene accudito dalla sua fedele segretaria, Mrs. Johnson.
Lui era sempre molto elegante e toccava a Mrs Johnson controllare che i suoi abiti fossero a posto. Per una persona metodica e pratica come lei, l'ordine in cui viveva era un piacere nuovo. Vivevano sotto leggi stabilite: non una sedia, né un tavolo, neppure un portacenere doveva essere mosso. Non dovevano esserci rischi. Era comprensibile: la facilità con cui lui si muoveva senza incidenti in casa o in giardino dipendeva da questo. 
Ecco che, a questo punto del racconto, vi una rivelazione insospettata sulla natura di Mrs. Johnson (i bravi critici letterari la chiamerebbero anagnorisi). Mrs Johnson non è la brava segretaria che, per compassione o dedizione, è rimasta tanti anni accanto al "povero cieco". Mrs Johnson ha un segreto da nascondere, che aveva evitato di dire anche al marito prima di sposarsi.
Come aveva potuto essere così sciocca da ingannare suo marito? Non l'aveva fatto per cattiveria. Era stata accecata anche lei - accecata dall'amore; in un certo senso, l'amore l'aveva resa così piena di sé che, forse, non aveva mai visto lui. E i sotterfugi a cui era ricorsa... non poteva trattenersi dal sorriderne, ma erano davvero patetici: aveva tanta paura di perderlo e, perdendolo, avrebbe perso quella nuova donna così piena di illusioni. Avrebbe dovuto dirglielo. Le occasioni non erano mancate. Per esempio, nell'appartamento di lui su quel divano grigio con la molla che ti pungeva il sedere cigolando a ogni bacio, quando lui si era lamentato di quei suoi vestiti in cui un uomo non riusciva a infilare le mani. Lui sapeva benissimo che era stata con altri uomini, ma allora perché, quando si erano 'riscaldati' tutti e due, non voleva spogliarsi e andare in camera da letto? Il divano era troppo corto. Si ricordò della faccia scandalizzata che aveva fatto quando si era tirata su le sottane e si era sdraiata sul pavimento. Lei diceva di non aver nulla contro il sesso prima del matrimonio, ma pensava che per certe cose fosse meglio aspettare: sarebbe stato sconveniente se lui l'avesse vista nuda prima del giorno delle nozze. E per dimostrargli che non era una santarellina, ci fu quella volta che finsero di guardare una partita di cricket dalla finestra; o i venerdì nell'ufficio di lui quando gli impiegati se ne erano andati e gli addetti alle pulizie erano in fondo al corridoio. «Hai un neo sul collo» le disse un giorno. «Mia madre andava pazza per le prugne mentre mi aspettava. È una voglia». «È carina» disse lui e baciò la voglia. L'aveva baciata. L'aveva baciata. Si aggrappò a questo pensiero quando, dopo il matrimonio, andarono in albergo e lei nascose la faccia sulla sua spalla e gli permise di tirarle giù la cerniera del vestito. Poi si allontanò e fingendosi timida, si spogliò da sotto la sottoveste. Alla fine si sfilò dalla testa anche quella. Si guardarono, lei con sfrontato terrore e lui... non avrebbe mai dimenticato la sua faccia sconvolta e disgustata.
La storia prende, dunque, una svolta radicale. Non si tratta della tipica storia a metà fra amore e complicità tra un personaggio con un handicap e il suo salvatore. Mrs Johnson, così come Mr Armitage non può vedere, non si vuole far vedere a causa di una voglia che le copre interamente il corpo e, dunque, la storia si fa molto più interessante. A un certo punto, infatti, esplode l'amore tra i due personaggi ma Mrs Johnson, per paura di subire lo stesso trattamento che aveva avuto dal marito, gli nasconde la verità: il loro è dunque un amore difficile, mai dichiarato da parte di lei, pieno di furori e di gelosie incomprensibili da parte di lui, che arriva sempre al limite della rottura.
Verso la conclusione del racconto, però, arriva un incontro con un personaggio decisivo e risolutivo, quello con Mr Smith, un cinico imbroglione che convince Mr Armitage di poterlo curare dalla cecità e gli svelerà il segreto di Mrs Johnson. Proprio quella verità, nascosta per paura da Mrs Johnson, trasformerà quel rapporto in una vera storia d'amore anche se
Mrs Johnson cercava di scacciare l'umiliante sospetto che quel viscido ficcanaso avesse rivelato il suo segreto ad Armitage prima di lei. Ma Armitage disse: «L'ho sempre saputo. Fin dall'inizio. Sapevo tutto di te». Lei non sa ancora se credergli o meno. Quando gli crede, prova più soggezione che vergogna; quando non gli crede si sente spensieratamente felice. Qui lui dipende completamente da lei.
Il romanzo è scritto in terza persona, con la tipica tecnica del narratore onnisciente (di cui maestri nella letteratura italiana furono Manzoni e il Verga del Mastro Don Gesualdo), con pochissime descrizioni e numerosi dialoghi diretti. Questa scelta di tecnica narrativa è abbastanza significativa. Pritchett, infatti, attraverso l'utilizzo di questa tecnica narrativa non esprime giudizi o opinioni di merito (e non li lascia neanche trasparire durante la sua narrazione), ma vuole dare libero e totale sfogo ai suoi personaggi, ai loro pregi e ai loro difetti, e far esprimere direttamente da loro, attraverso i loro dialoghi, il vero cuore della storia.
Il cuore della storia, la seconda lettura di questo racconto, non è rappresentata soltanto dalla storia d'amore tra Mr Armitage e Mrs Johnson. Dovremmo chiederci: che cosa ci vuole dire Pritchett? Indubbiamente, i due personaggi sono un'allegoria della società borghese del primo Novecento e dello scontro dialettico tra i principali difetti di quel tipo di società.
Il vero protagonista di questa storia è infatti la cecità che accomuna i due personaggi: da una parte, la cecità fisica di Mr Armitage e, dall'altra, la cecità interiore di Mrs Johnson che è tanto presa nella sua autocommiserazione che non riesce, neanche lei, a vedere e condividere l'amore reale di Mr Armitage. Non è un caso dunque che, paradossalmente grazie a un imbroglio e a un inganno, cancellata la cecità interiore di Mrs Johnson anche il dolore di Mr Armitage per la sua cecità fisica non sarà più causa del suo dolore e del suo sentimento di inadeguatezza.
Un pomeriggio, mentre se ne stava alla finestra della loro stanza, guardando la gente che attraversava la piazza nella luce color limone, a un tratto gli disse: «Ti amo. Mi sento uno splendore!». Ha notato che l'unica cosa che non gli piace è sentire un uomo che le parla.

Rodolfo Monacelli

Pillole d'autore: RAINER MARIA RILKE: I QUADERNI DI MALTE LAURIDS BRIGGE




Rainer Maria Rilke, illustre poeta tedesco, nacque a Praga nel 1875 da una famiglia cattolica e borghese che con difficoltà appoggiò il suo precoce desiderio di diventare scrittore. Dopo aver frequentato la scuola militare, per ordine del padre, riuscì a diplomarsi e lasciò Praga, città che aveva sempre considerato provinciale. Iniziò allora a viaggiare per l’Europa, prima trasferendosi a Monaco, poi visitando l’Italia e la Russia, grazie all’amicizia stretta con la scrittrice Lou Andreas-Salomè. Inaugurò il nuovo secolo, invece, a Berlino dove conobbe la scultrice Clara Westhoff, allieva di Auguste Rodin e sua futura moglie. Il loro matrimonio fallì poco dopo la nascita della figlia Ruth, e Rilke, scrittore ancora alle prime armi, si trasferì a Parigi divenendo segretario di Rodin. In questo periodo nacquero le opere che segnarono l’inizio della sua carriera, da Storie del Buon Dio a Libro di figure.

Die Aufzeichungen des Malte Laurids Brigge, o Quaderni di Malte Laurids Brigge, sono l’ultima opera, pubblicata nel 1910, dopo la quale Rilke visse un periodo di siccità artistica. Le Elegie duinesi, la sua raccolta poetica più importante, vennero scritte lentamente, a scaglioni, tra un viaggio e un altro, quindi concluse nel 1822. Morì pochi anni dopo di leucemia e fors’anche di solitudine.

La critica ha riconosciuto in Rilke da una parte il poeta orfico e inquieto, e dall’altra, per dirla con Gyorgy Lukacs, il poeta della “sicurezza”, che sappia trasformare i propri pensieri e quindi i propri versi in uno specchio da offrire agli uomini, in un mezzo per conoscere tanto sé stessi, quanto una realtà circostante orrida, impossibile da trasfigurare e addolcire. E il Malte sicuramente mette in risalto orrori e inquietudini, ma attraverso il pensiero di un giovane abbattuto dal male di vivere, dall’inquietudine dell’artista che capisce, in fondo, quanta parte dell’esistenza sia spesa a cercare l’impossibile. Il romanzo, strutturato come un diario, ma senza date puntuali né riferimenti geografici precisi (si capisce, leggendolo, che è ambientato a Parigi), è una lunghissima descrizione di fatti, ricordi - in particolar modo materni - emozioni, paure tradotte in oggetti e persone. Malte è Rilke, è il suo viaggiare con la mente, il suo trovare ristoro nella fede e nella preghiera, il suo trasferire amori e passioni in scolorite memorie d’infanzia; è il suo riflettere continuo sulla morte. Malte non ha una famiglia vicina, un vero e proprio lavoro, un obiettivo. Eppure non se ne lamenta, racconta e non chiede riscontri né risposte. Racconta come se non gli restasse altro, quasi per ricordarsi di essere vivo.
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“Io imparo a vedere. Non so perché tutto penetra in me più profondo e non rimane là dove, prima, sempre aveva fine e svaniva. Ho un luogo interno che non conoscevo. Ora tutto va a finire là. Non so che cosa vi accada.”
“E non si ha più nulla e nessuno e si viaggia per il mondo con un baule e una cassa di libri e di fatto senza curiosità. Di fatto, senza casa, senza cose ereditate, senza cani, che vita è mai questa?”
“...è sempre lo stesso. Tutti avevano una propria morte. Gli uomini che la portavano nell’armatura, dentro, come un prigioniero, le donne che divenivano vecchissime e piccole, e poi in un letto enorme morivano come su un palcoscenico, dinanzi all’intera famiglia [...]. E quale bellezza malinconica nelle donne, quand’erano gravide e si reggevano in piedi, e nel loro grosso ventre, su cui giacevano d’istinto le mani esili, c’erano due frutti: un bambino e una morte. Il loro sorriso denso e quasi nutriente nel volto svuotato non scaturiva forse dal loro capire, talvolta, che i due frutti crescevano insieme?”

CriticaLibera: Le interviste all’inquieto Pasolini


Esistono diverse interviste, vere e presunte, rilasciate da Pier Paolo Pasolini. Il motivo è ampiamente comprensibile: chi lo conosce, anche superficialmente, si rende subito conto della grande capacità critica e soprattutto autocritica che lo contraddistingueva, capace com’era di esprimere in maniera immediata dei concetti complessi, frutto di meditate riflessioni e spesso sorprendentemente previgenti, soprattutto in ambito storico-sociale.
Una di queste interviste per esempio è di Furio Colombo (diventata poi anche libro), “ultima” nel senso temporale del termine, perché rilasciata poche ore prima che fosse barbaramente assassinato in circostanze tuttora non chiarite; ce ne sono poi altre, altrettanto interessanti di Enzo Biagi, Dacia Maraini e così via.
In ognuna c’è una caratteristica specifica, perché Pasolini comunicava sempre con lucidità, e con altrettanta lucidità riusciva a guardarsi dentro.
Il miglior critico di Pasolini era, infatti, Pasolini stesso: con il suo sguardo poetico, artistico, politico, sociologico, psicologico era in grado di estraniarsi dal suo personale contesto, individuando sfumature e complessità, dove gli altri ingenuamente semplificano.
E per naturale conseguenza, fu intellettuale scomodo: marxista ma espulso dal Partito Comunista per “indegnità morale e politica”; ribelle ma critico verso il movimento di contestazione del Sessantotto (critica che destò particolare scalpore con la poesia “Il PCI ai giovani!”); omosessuale quando era un delitto morale esserlo; sempre e comunque contro il potere, l’oppressione, la massificazione.
In un commento al film “Teorema”, il regista Jean Renoir (figlio del celebre pittore) affermerà:
“A’ chaque image, à chaque plan, on sent le trouble d'un artiste”
(Ad ogni immagine, ad ogni piano, si sente il turbamento di un artista).
La grande e multiforme capacità di Pasolini di essere artista si risolve tutta in questo “turbamento”, un’inquietudine di fondo che si percepisce anche nell’intervista su cui ci soffermeremo (diventata anche libro: “Pasolini rilegge Pasolini” con cd audio annesso), destinata a “uso degli studenti e dei professori di letteratura italiana delle università italiane”, curata da Giuseppe Cardillo, direttore dell’Istituto Italiano di Cultura di New York, (città di cui si dichiarerà affascinato) dove si era recato per qualche giorno Pasolini.
Sollecitato nel ricostruire il proprio mondo (poetico, cinematografico, politico, personale) Pasolini esordisce con un paragone – direi quasi poetico – con il cinema (riferendosi in realtà a un suo recente e breve saggio di linguistica e semiologia “Osservazioni sul piano sequenza”).
La realtà, dice, è come un infinito piano sequenza. Anche il cinema, di fronte a questo svolgersi continuo di avvenimenti, è di conseguenza teoricamente un piano-sequenza infinito.
In concreto si esprime però per segmenti ovvero come l’interruzione non naturale di un flusso continuo.

Il peso delle parole nei racconti di Marco Valenti

Quel colore delle foglie in autunno (Quando stanno per cadere)
di Marco Valenti

Le parole possono salvare una vita o distruggerla, confortare o gettare nella disperazione. E tacere - a volte - è la strada migliore. Gioca con questa idea di fondo la raccolta di racconti "Quel colore delle foglie in autunno (Quando stanno per cadere)" in cui Marco Valenti propone storie molto diverse tra loro sia come concezione che come scrittura, ma che si interrogano - appunto - sull'opportunità o meno di aggiungere una parola o tacere.
Fino a che punto ci si può spingere con le parole quando si sta trattando per il pagamento degli alimenti?

L'aumento impossibile di George Perec


L'arte e la maniera di affrontare il proprio capo per chiedergli un aumento
di George Perec
Einaudi, 2011

69 pp., 9 euro.

In tempi di crisi è normale che si faccia molta satira sui temi che si trovano sotto gli occhi di tutti: l'incombere di nuove tasse, l'abbassamento delle pensioni, la difficoltà di trovare un lavoro e l'aumento del costo della vita. Quando però la satira arriva da un libro di cinquant'anni fa, leggera e quasi disinteressata, eppure attuale e pungente come non mai, allora la cosa non solo sorprende, ma fa riflettere su ciò che cambia e ciò che soprattutto non cambia nella nostra società.
Eppure questo libro di Perec, scritto nel 1968 e ripubblicato in Francia solo tre anni fa, non è ciò che si intende normalmente per satira. Forse non lo è addirittura in nessun senso, ed è piuttosto un libro colmo di ironia, come la maggior parte dei lavori dello scrittore francese, ma interessato ad altro, proiettato su un piano che permette di sfiorare certi argomenti ma non di afferrarli. E non è detto che ciò sia meno utile per quegli argomenti stessi.

Diecipercento e la gran Signora dei tonti di Antonella Di Martino


Diecipercento e la gran Signora dei tonti
di Antonella Di Martino
Autodafè Edizioni, 2011

pp. 124
€ 13,00

Diecipercento è il soprannome di uno spregiudicato politico. Ha passato la maggior parte delle propria vita a costruire una posizione sociale di uomo ricco e furbo che frega sempre gli altri sul tempo e gestisce i problemi con pragmatica superficialità. Margherita è un’insegnante che crede nella propria professione, ha un marito che ama profondamente e ha improntato la propria esistenza alla massima sincerità e onestà intellettuale perché ferita da un passato e da legami deludenti. Questi due personaggi non potrebbero sembrare più lontani, ma in realtà li lega un passato e un rapporto familiare: sono zio e nipote. Diecipercento è morto e osserva le persone che hanno fatto parte della sua vita mentre si affannano a rimettere insieme i pezzi che il suo vuoto a creato, a fare supposizioni, a dare interpretazioni. 
Il potente uomo d’affari è stato ucciso o si è suicidato? Ma perché avrebbe dovuto farlo?

Editori in ascolto: Samuele Editore – intervista ad Alessandro Canzian


www.samueleeditore.it
Stasera, giovedì 24 maggio 2012, alle ore 21:00, presso la Palazzina Liberty della Casa della poesia di Milano (Largo Marinai d'Italia, 1), l'editore Alessandro Canzian presenterà il suo lavoro attraverso le sue collane a alcuni dei suoi autori. L'evento è curato da Amos Mattio, segretario della Casa della Poesia, poeta, narratore e critico.


Approfittiamo dell'occasione per intervistare Alessandro Canzian in anteprima e parlare un po' della sua editrice e del mondo della poesia contemporanea.

Samuele Editore nasce nel 2008 in territorio pordenonese. Il logo riprende il glorioso marchio storico della Tipografia di Alvisopoli fondata nel 1810 da Nicolò Bettoni per onorare Alvise Mocenigo (da cui la denominazione di Alvisopoli) proprietario di un importante podere (il Molinat) in quel territorio. La Tipografia pubblicò fra l'altro Le Api panacridi di Alvisopoli di Vincenzo Monti, in lode al neonato figlio di Napoleone. L'attività della Tipografia, che aveva per logo un'ape cerchiata da un tondo con il motto Utile Dulci, operò in quella località fino al 1812 per poi trasferirsi a Venezia e riprendere l'attività dal 1814 al 1852, anno in cui cessò le sue pubblicazioni.

Con l'obiettivo di fare arte con l'arte Samuele Editore si propone una scelta di titoli dallo spessore storico-letterario importante, intendendo la scrittura come un'esperienza intellettuale ed esistenziale che insegna, tramanda, attraverso la ricchezza della parola la ricchezza della vita.

Da questo la poesia manifesto scelta a presentazione dell'editore: 
«D'accordo, non vale niente. / È meno del fumo, / assai meno del vino. / Ma uno non può morire / senza un briciolo di poesia: / è come pulire un vetro / e vedi cose sapute, / ora più esatte e nuove.» (P. Marasi, 1932 – 1986)



Come nasce l'idea di fondare Samuele Editore?
AC: Per quanto possa sembrare banale dopo 4 anni che la ripetiamo (io e i miei collaboratori), la motivazione è questa: appena ho saputo che da lì a nove mesi (circa) sarebbe nato mio figlio (Samuele), ho deciso di avviare un'attività editoriale nell'ambito a me più consono: la poesia. Già da anni mi interessavo di poesia locale (del pordenonese) e il materiale per creare una collana c'era ed era molto (quello che poi sarebbe diventato la collana I Poeti di Pordenone, Poesia del Novecento a cura di Ludovica Cantarutti). Poi quando abbiamo saputo il sesso del nascituro ho deciso (io, un po' tiranno nella cosa) il nome del bambino e di conseguenza della Casa Editrice: Samuele. Così ho iniziato un'attività che riportava il medesimo amore di un padre per il figlio dentro l'arte poetica, ed editoriale. Poi, nel tempo, si sono avvicinate le altre indispensabili figure che compongono la Samuele Editore di oggi.

#SalTo12: una critica per crescere! (un'ultima riflessione)



Era la mia seconda presenza al Salone di Torino. L'anno scorso ero stato al Salone durante tutta la settimana, lavorando per la Bottega Editoriale. Quest'anno mi sono recato soltanto come visitatore e ho potuto maggiormente visitare il Salone, presenziando anche ad alcune conferenze e presentazioni (tra cui quella della nostra Laura Ingallinella).
Purtroppo, sono potuto rimanere soltanto un giorno e dunque il mio giudizio sarà obbligatoriamente limitato e parziale.
La mia critica, non potendo avere una visione globale degli eventi svolti durante il Salone, sarà dunque di costume.
Diamo immediatamente il nostro giudizio. Il Salone è un bene che esista. Resta, probabilmente, l'unico evento culturale a livello nazionale del nostro Paese. L'unico evento in cui la maggior parte delle case editrici, grandi e piccole, possono essere presenti; in cui è possibile un incontro tra autori e lettori; in cui si può assistere, da parte di grandi masse di persone, a conferenze ed eventi non considerati dai grandi media nazionali.
Detto questo bisogna, però, iniziare a fare una riflessione seria sul Salone del Libro.
Ha senso un evento, come quello di Torino, in cui con un biglietto di 10 euro per l'ingresso non vi è, in cambio nessuno sconto significativo? Ha senso un evento in cui gli spazi maggiori sono assegnati alle grandi case editrici? Ha senso dove il maggior battage pubblicitario viene dato ad eventi in cui sono presenti personaggi noti mediaticamente, ma insignificanti da un punto di vista culturale (Concita de Gregorio, Alessandro Del Piero, ecc)?
Bisogna, insomma, iniziare a domandarci: che cosa vogliamo fare del Salone del Libro?

Antonella Anedda, "Salva con nome"

Salva con nome
di Antonella Anedda
Mondadori, 2012

119 pp.
16,00 €


La poesia di Antonella Anedda affonda le sue radici nella tradizione del Novecento italiano. La specificazione “lirica”, per questo tipo di scrittura, sembrerebbe più che appropriata: infatti, anche laddove essa si apre o addirittura sfocia nella prosa tout court, non perde mai di mira un’idea alta, sublime della poesia (e, dunque, della parola) che non di rado dà luogo a esiti che si potrebbero definire chiaroscurali per non dire propriamente “ermetici”.
L’ultima fatica della poetessa romana (ma di origini sarde), Salva con nome, conferma in un certo senso questa ipotesi. Il sintagma del titolo genera una velata e apparente polisemia che si ritrova poi nei singoli testi che compongono la raccolta: come è noto, nel linguaggio informatico-digitale esso designa la possibilità di archiviare i files (documenti, si noti bene, immateriali, composti da sequenze alfanumeriche di bit e non di atomi) in uno spazio altrettanto virtuale che, per analogia, chiamiamo “memoria”; tuttavia, in senso lato, questa “salvezza” allude alle proprietà specifiche del secondo termine del sintagma, al «nome», cioè alla parola che crea mondi dal nulla e che preserva dalla dispersione o, se si vuole, dalla distruzione del tempo. I due sensi, come si vede, non si escludono a vicenda, anzi si intersecano continuamente nella trama di versi e prosa “cucita” dalla Anedda:
Cuci una foglia vicino alle parole, cuci le parole tra loro, guarda una foglia come viene soffiata lontano.

Giacomo Debenedetti scrittore: Amedeo

Amedeo
di Giacomo Debenedetti
Vanni Schewiller, 1967


Poche pagine - una trentina - lunghi periodi, introspezioni, immagini scolpite da parole convolute, ricercate, di foggia antica, e la storia di un uomo che aspira ad essere un artista, forse la vita di Giacomo Debenedetti stesso. Amedeo è un racconto giovanile del professore e critico letterario che trovò facilmente spazio nell'ambiente degli intellettuali del secolo scorso, per acume e per quella dose di passione con cui raccontò dei protagonisti della nostra letteratura. Scritto nel 1923 e conservato in quel cassetto in cui gli scrittori gettano via tutte le opere che non ritengono destinate ad avere, letteralmente, più di 25 lettori, venne pubblicato nel 1926 sotto suggerimento di un amico, come primo di una serie di racconti. Divisa in appena quattro capitoli, simili a respiri, a pause, la vita di Amedeo ci viene descritta come un percorso battuto in solitudine, nella severità delle idee e nella speranza di un'ascesi, di un riscatto. Ascesi apparentemente difficile quando il nemico contro cui il giovane combatte è il mondo, la famiglia, una madre affettuosa quanto ansiosa, e un gruppo di compagni bulli e facili all'irrisione.
Si restrinse pertanto in se medesimo, sordo a ogni fresca voce che gli venisse di fuori; né poté acquistare, per via d'alcuni scambi, alcuna novità d'intrusioni: il suo patrimonio fu quello dell'avaro esoso, che non s'accresce: Amedeo non conobbe l'esigenza di comunicare se stessi agli altri.
Amedeo non era il comune bambino vivace, pronto al gioco, che si diletti "fingendo in cortile una guerra, o il naufragio di un bastimento fabbricato con due sedie"; ai discorsi degli altri, soprattutto dei suoi coetanei, rispondeva abbarbicandosi in cima ad un silenzio e ad un'indifferenza sdegnosi, riflesso di un'idea di superiorità. Idea che gli veniva dal credersi diverso, disinteressato alle cose più comuni, agli argomenti che definiva frivoli e leggeri. In realtà, non pensava né faceva nulla che potesse giustificare quel suo sentimento, quel suo essere speciale e quel disprezzare tanto le idee altrui quanto i cambiamenti del fisico e le pulsioni che per un certo periodo lo avevano quasi reso fiero e fortificato nell'animo. Col passare degli anni, Amedeo si era scoperto vuoto e inattivo.

#CritiCOMICS: Ultimate Spider-Man, da un grande potere derivano grandi responsabilità

Ultimate Spider-Man
Testi: Brian Michael Bendis
Disegni: Mark Bagley, Stuart Immonen, Mark Brooks, David Lafuente
Editore: Marvel Comics – Ultimate Marvel
Editore it.: Panini Comics
Numero Albi Italiani: 71
Prezzo (per albo): 2,50 €

Senza ombra di dubbio tutti hanno almeno sentito nominare l'Uomo-Ragno, se non altro per la famosissima canzone degli 883. Da piccolo mi capitava di ascoltarla spesso, praticamente per un certo periodo in radio non passava altro, tuttavia non avevo la più pallida idea di chi o cosa fosse questo “Uomo-Ragno”, sapevo solo che evidentemente aveva fatto qualche sgarbo a una o più industrie di caffè.
Solo anni dopo avrei scoperto che Max Pezzali aveva dedicato una delle sue canzoni ad uno dei super-eroi Marvel più famosi di tutti i tempi: Spider-Man!
Il personaggio vede i suoi albori nel 1963, concepito dalla mente di Stan Lee e disegnato dalla mano di Steve Ditko, ringraziando Jack Kirby per il concept-design del suo costume. Debutta su Amazing Fantasy n°15 e prosegue le sue avventure sulla testata a lui dedicata: Amazing Spider-Man.
Ma chi c'è dietro la maschera di questo eroe rosso-blu che si arrampica sui grattacieli di New York City? Sarà un mutante? Un alieno? Un pazzo con indosso un costume ridicolo?
Niente di tutto ciò, Spider-Man è semplicemente Peter Parker, uno studente agli ultimi anni del liceo che ha avuto la (s)fortuna di essere stato morso da un ragno radioattivo. Grazie al morso del suddetto ragno Peter acquisisce la forza e l'agilità proporzionale di un aracnide, il suo senso di ragno (una specie di sesto senso che lo avverte dei pericoli imminenti) e la capacità di aderire alle superfici. Peter è uno studente intelligente e geniale, ed è proprio grazie al suo ingegno che crea i bracciali lancia-ragnatele che gli permettono di spruzzare una ragnatela sintetica che ha le funzioni principali di aiutarlo a svolazzare tra i grattacieli e accecare o immobilizzare i suoi nemici.
L'eroe ha avuto così tanto successo da diventare in poco tempo uno dei personaggi più amati della Marvel Comics, e ancora oggi cavalca la cresta dell'onda con tre film a vederlo protagonista e un quarto di prossima uscita, senza contare le varie testate a fumetti dove prosegue le sue peripezie, i cartoni animati e il merchandising vario a lui dedicato. La domanda è: dove risiede il motivo del successo e della popolarità di Spider-Man?

Il Salotto: Parla il creatore del Commissario Arrigoni

Dario Crapanzano (Milano, 1939) è l'autore de Il giallo di via Tadino e La bella del Chiaravalle. Entrambi editi da Fratelli Frilli Editore tra il 2011 e il 2012, hanno riscosso un ottimo successo di pubblico soprattutto nelle librerie meneghine. I due romanzi hanno come protagonista Mario Arrigoni, commissario capo del commissariato milanese di Porta Venezia, coadiuvato dal suo vice Mastrantonio e dall'agente Di Pasquale. Le vicende si svolgono negli anni '50, recuperano la memoria di una città che negli ultimi decenni sembrava perduta.



Prima de Il giallo di via Tadino lei scrisse un piccolo testo nel 1970 e uno nel 2008. Lei quindi esordisce piuttosto tardi. Perché?
Scrivere richiede mente sgombra, concentrazione e tempo a disposizione. Non a caso, il primo libello, “A Milano con la ragazza… e no”, l’ho scritto in un periodo di disoccupazione giovanile, e il secondo dopo aver terminato l’attività lavorativa. Attività che mi ha impegnato molto per più di trentacinque anni, impedendomi praticamente di dedicarmi ad altro.

Presentando il suo ultimo libro, La bella del Chiaravalle, lei ha confessato che il giallo le dà l'opportunità di parlare della Milano di un tempo. Un'operazione ben diversa da quella apertamente nostalgica, ad esempio, di Francesco Guccini con il Dizionario delle cose perdute. Ce ne può parlare?

Quando si ospitano le proprie paure...


L'ospite
di Lalla Romano
Oscar Mondadori, 2000

prima edizione: 1973

Cosa accade quando si scopre una "felicità molto più grave, appassionata e complessa di quella che mi ero figurata"? E se è seguita da "quella sorda sofferenza, o smarrimento, e un senso di prigionia, di soffocamento, per la mutilazione: per essermi tagliata fuori dalla mia stessa vita (e modo di vivere)"? (p. 27) 
Sono i dettagli di quella che l'io narrante definisce "un'avventura estrema" (p. 127), nonché gli effetti di una passione dirompente, contro cui l'anziana protagonista cerca di erigere tutte le barricate del cinismo, della freddezza e dello straniamento. Invano. Chi sia l'oggetto di questa passione, poi, è del tutto inaspettato: è l'ospite del titolo, Emiliano, il nipotino poco più che neonato che viene affidato alle cure della nonna, malgrado i tanti dubbi della stessa. Troppo rigida per sapere come fare con un bambino, e soprattutto, troppo provata dall'esperienza fallimentare col suo stesso figlio Piero, la donna osserva con invidia malcelata come tutti gli altri - dal marito Innocenzo alla bambinaia Rachele, ma anche amici di famiglia e conoscenti - siano più bravi di lei nel gestire Emiliano.

Pillole d'autore: André Breton, "Nadja"




André Breton ( 1896 –  1966), saggista e critico d'arte francese, noto come poeta e teorico 
del surrealismo, scrisse un racconto autobiografico, Nadja, uscito presso Gallimard nel 1928,
e in edizione rivista dall'autore nel 1963. In italiano nella traduzione di Giordano Falzoni 
e con una nota di Lino Gabellone, è uscito nella collana "Einaudi Letteratura" nel 1972, 
quindi nella "Nuovi coralli" nel 1977, e nella "Letture", con prefazione di Domenico Scarpa 
nel 2007, presso Einaudi. Un estratto.

Chi eravamo noi di fronte alla realtà, a questa realtà che ora so accucciata come un cane sornione ai piedi di Nadja? A quale latitudine potevamo mai trovarci, in preda a tal punto al furore dei simboli, in preda al demone dell’analogia, fatti segno visibilmente a interventi esterni, a singolari, a speciali attenzioni? Come si spiega che proiettati insieme, una volta per tutte, così lontano dalla terra, nelle brevi tregue che ci lasciava il nostro meraviglioso stupore, abbiamo potuto scambiarci vedute incredibilmente concordi da sopra le macerie fumose del vecchio pensiero e della sempiterna vita? Dal primo all’ultimo giorno, ho considerato Nadja un genio libero, qualcosa come uno di quegli spiriti dell’aria che certe pratiche di magia consentono di legare momentaneamente a sé ma che è impensabile sottomettere. Quanto a lei, so che le è accaduto nel pieno senso della parola di prendermi per un dio, di credere che fossi il sole. Mi ricordo anche – niente in quell’istante avrebbe potuto essere ad un tempo più bello e tragico – mi ricordo d’esserle apparso nero e freddo come un uomo folgorato ai piedi della Sfinge. Ho visto i suoi occhi di felce aprirsi al mattino su un mondo in cui il palpito d’ali della speranza immensa si distingue appena dagli altri rumori che sono quelli del terrore e, su quel mondo, non avevo ancora visto, fino allora, se non degli occhi che si chiudevano.

F. Fiorletta

CriticaLibera. «In Italia non si legge». «La letteratura è moribonda». Riflessione sui luoghi comuni


Qualche settimana fa, in una libreria di Genova, ho acquistato un libretto, in offerta speciale: Dieci domande sui libri, di Herbert R. Lottman (47 pagine, circa 4 euro, 1993, Sellerio editore Palermo, traduzione di Stefano Mauri). Cito dalla bandella:
 «Dieci domande sui libri è il testo di una lezione tenuta da Herbert R. Lottman (corrispondente per l’estero della rivista specializzata “Publishers Weekly”, esperto di tendenze dell’industria editoriale e consulente internazionale) il 31 gennaio 1992 in un seminario della scuola per librai “Umberto e Elisabetta Mauri”. Una lezione esposta in forma di risposte a domande sul futuro della specie libro […]»
Cosa può dirci un libro di vent’anni fa su libro e letteratura e sul mercato editoriale, considerando che oggi ci sono alcune diversità rispetto all’epoca (basterebbe il solo e-book)? In teoria, se abbiamo pregiudizi che ci fan considerare la nostra epoca come la più disastrata della storia, poco; in pratica, se pensiamo che gli esseri umani alla fin fine sian sempre gli stessi nonostante il tempo che passa, molto.

Nella prima pagina, Lottman dice:
 «Passo gran parte del mio tempo con persone che lavorano nel settore librario […] Vado anche alle Fiere, alle troppe Fiere […]. Professionisti e non, mi fanno spesso domande come: “C’è la crisi del libro in questo o quel Paese?”»
La prima delle dieci domande di questo libretto è dunque: «Il commercio librario è in crisi? È una crisi universale?»
Lottman inizia a rispondere così:
 «Una delle cose che piace ai bambini, a detta degli psicologi, è spaventarsi o essere spaventati dagli altri. C’è una specie di adulto che fa la stessa cosa; è colui che si occupa di libri. Spesso, in Francia o in Spagna o in Italia, guardando i risultati di un’indagine sulla lettura, si scopre che il 50% o 60% della popolazione non legge (o non compra mai) un libro, che il 60 o 70% legge solo un libro all’anno, ecc. – e questo dovrebbe scioccarci. Ma ciò presupporrebbe che noi sapessimo in che percentuale la popolazione leggeva o comprava libri 25 o 50 o 100 anni fa. Se lo sapessimo veramente, ci sentiremmo meglio, perché scopriremmo che le statistiche di oggi sono le più favorevoli che si possano avere. I libri non sono mai stati distribuiti così diffusamente e non sono mai costati meno; sicuramente ci sono più lettori e consumatori di libri oggi che in passato.
Certo, in periodo di recessione, si compra meno di tutto – e di questo ci accorgiamo.»
E, continuando:
 «“Non siete stufi di sentire che la letteratura è in crisi”, ha chiesto l’editore francese Hubert Nyssen di recente, “che gli editori sono matti, che i librai non sanno fare il loro mestiere, che i francesi non leggono?” Nyssen […] aggiunge che è ben stufo di sentire queste lamentele. “A volte penso”, dice, “che se tutta quell’energia venisse spesa per migliorare le cose che vanno male, tutto migliorerebbe. Possiamo negare che vengono pubblicati buoni libri, che i librai se ne occupano, che i critici ne scrivono e che i lettori li leggono?”»

"Quando Dio era un coniglio"

Quando Dio era un coniglio
di Sarah Winman
Strade Blu Mondadori, 2011

€ 17.50


“La mia vita è divisa in due parti. Non esattamente un Prima e un Dopo; è come se fossero, più che altro, due fermalibri che tengono insieme i flaccidi anni delle riflessioni a vuoto, gli anni della tarda adolescenza e dei venti-e-qualcosa, cui la veste di età adulta proprio non si addice. Gli anni dei vagabondaggi che non perdo tempo a ricordare. Guardo le fotografie di quegli anni ed eccomi là, davanti alla Tour Eiffel, magari, o alla Statua della Libertà, o immersa nell’acqua fino alle ginocchia, sorridente mentre saluto qualcuno; ma quelle esperienze, ora lo so, erano velate da un opaco disinteresse che tingeva di grigio perfino gli arcobaleni. In quel periodo lei era del tutto assente, e mi rendo conto, ora, che il colore mancante era proprio lei. Afferrò gli anni che erano alle due estremità di quell’attesa e li sollevò come segnali luminosi, e quando si presentò in classe, quella bigia mattina di gennaio, era lei stessa il nuovo anno; la promessa di qualcosa d’altro. Eppure me ne accorsi solo io. Gli altri, prigionieri delle convenzioni, la trovarono ridicola nel migliore dei casi, un bersaglio da sbeffeggiare nel peggiore. Era di un altro mondo; era diversa. Anche se allora, segretamente, lo ero anch’io. Lei era la mia tessera mancante, quella che serviva a completarmi.”

Inizia così il bellissimo romanzo d’esordio di Sarah Winman, attrice inglese piuttosto affermata, che con “When God was a rabbit” si pone come nuova interessante voce della narrativa contemporanea. Tradotto in italiano per la prima volta nel settembre 2011 – e forse non adeguatamente presentato- cattura il lettore in una storia capace di far ridere, commuovere, arrabbiare, in buona sostanza in grado di coinvolgere e sentirsi parte della vita di quella famiglia inglese un po’ bislacca che ha la fortuna di circondarsi di personaggi unici, a tratti un po’ caratterizzati forse, ma egualmente veri che affollano l’infanzia negli anni Settanta e poi l’età adulta di Elly voce narrante della storia. Come in un circo, le persone che la accompagnano da Londra alla Cornovaglia dove la famiglia si trasferisce per aprire un Bed & Breakfast nella natura – ritrovo ovviamente di altri affascinanti individui- sono un misto di ironia e tristezza, problemi ed eccentricità: a partire dai genitori, sospesi tra anima borghese e cultura moderna che sperimentano nuovi sistemi educativi appresi sui manuali eppure incapaci di leggere tra le righe per interpretare azioni e malumori dei figli; la stravagante zia Nancy un mix ben riuscito tra Mame e una diva d’altri tempi dall’animo cosmopolita e attrice di discreto successo, segretamente – ma neppure troppo- innamorata della cognata; Joe, il fratello maggiore di Elly cui è legata da profondo affetto e complicità, lei sola capace di cogliere nella tristezza di un addio l’omosessualità che a lungo vivrà nel segreto; l’eccentrico Arthur, dapprima ospite del Bed & Breakfast ma che inevitabilmente finisce per divenire parte di quella famiglia allargata, e numerosi altri personaggi sullo sfondo.

«Dove finisce Roma» di Paola Soriga


Dove finisce Roma
di Paola Soriga
Einaudi 2012
pagg. 140, Euro 15,50



Ciò che mi ha spinto a comprare l’esordio di Paola Soriga (per il gossip, sorella minore di Flavio) è stata la curiosità, poiché su internet e sul giornale «La Nuova Sardegna» ho letto recensioni tendenzialmente positive. Pieno di fiducia, spendo i 15,50 euro per 140 pagine (Einaudi Stile Libero Big), e apro il libro.

Si legge la storia di Ida, giovane staffetta partigiana pre-adolescente, sarda spostata a Roma, che passa buona parte delle giornate nascosta in una grotta per paura dei fascisti e dei nazisti che la potrebbero catturare: tra i salti di memoria scopriamo così frammenti della vecchia vita in un paesino sardo, e di quella continentale, con sempre in primo piano i primi vagiti dell’amore: dall’attrazione pura di bambina per il professore di scuola in Sardegna, a quella più consapevole per Antonio, bel ragazzo dai riccioli neri e gli occhi chiari. Questa, all’osso, la trama.

Già da metà lettura, però, ho iniziato a avere perplessità, tanto che ho faticato a concludere il libro, nonostante la sua brevità.

#SalTo12: Il Salone come esperienza entusiasmante






La primissima visita al Salone di Torino è un’esperienza entusiasmante: oltre 1400 editori presenti con i loro stand, incontri con gli autori, convegni e letture ad animare 5 giorni di full immersion nel mondo della carta stampata e la sensazione generale di essere circondati da persone come te giunte a Torino perché spinte dall’amore per la parola scritta e la narrazione, in ogni sua forma. Non essendo possibile per la sottoscritta soggiornare per tutta la durata dell’evento, ho scelto infine di organizzare la visita nella giornata di sabato per incontrare i colleghi redattori presenti e partecipare ad almeno un paio di presentazioni.

Ciò che colpisce innanzitutto entrando al Salone per la prima volta è, come già anticipato, il numero sorprendente di stand che sono stati allestiti nei quattro padiglioni: dalla piccola casa editrice indipendente fino ai grandi nomi dell’editoria, tutte con una cospicua esposizione di libri acquistabili, tra cui in alcuni casi anteprime e vecchie edizioni, e un variegato calendario di eventi. Perdersi tra gli stand curiosando tra i volumi esposti, leggere i cataloghi e scoprire autori è perciò inevitabile, ma riflettendo su questa prima esperienza personalmente mi rendo conto che nonostante la varietà degli espositori presenti e le possibili scoperte, ciò che in fondo rende la fiera di Torino una delle più importanti del settore è appunto il ricchissimo calendario di eventi dentro e fuori il Lingotto. Ciò non toglie l’importanza delle esposizioni e il contatto diretto tra pubblico e case editrici, ma almeno per quel che mi riguarda sono gli incontri con gli autori, le presentazioni, le discussioni e le tavole rotonde intorno a temi di attualità a rendere il Salone un evento imperdibile non soltanto per lettori accaniti, bensì per tutti coloro che si interrogano sulle questioni riguardanti la politica, il lavoro, le dinamiche mondiali, il panorama culturale. 
Innanzitutto quindi la possibilità di incontrare autori affermati sia italiani che internazionali, straordinariamente riuniti in tale occasione, che intervengono presentando le ultime pubblicazioni ma molto spesso anche con dibattiti che esulano in parte dalla loro attività di scrittori e confronti con altri autori e giornalisti, spesso con esiti interessanti. Toni Capuozzo, Christopher Paolini, Marco Travaglio, Concita De Gregorio, Luis Sepùlveda, Elizabeth Strout, sono solo alcuni dei grandi ospiti che hanno animato la recente edizione del Salone, con incontri seguiti da un pubblico numeroso e partecipe. Non sono mancati i temi e i riferimenti all’attualità, forse anche a causa della presenza di ministri ed ex deputati, tra riflessioni e toni polemici, simbolo di una sempre maggiore urgenza di raccontare e capire la complessa realtà odierna. E l’attenzione verso l’attualità che ha caratterizzato il Salone non poteva mancare di dedicare uno spazio anche al mondo dell’editoria digitale, fenomeno in forte crescita raccontato da professionisti del settore e realtà editoriali che su tale sistema hanno deciso di puntare per ritagliarsi una fetta di mercato. Un aspetto che è stato approfondito nell’ambito del Book to the Future con lo scopo di riflettere sul mutato panorama editoriale e di consumo. Uno spazio importante che tuttavia a mio parere è stato in parte sovrastato da interventi di più forte richiamo e allo stesso tempo è apparso come una sorta di vetrina di brand del settore venuti a presentare le novità in commercio nel campo degli e-reader, ma che tuttavia resta forse uno dei punti di forza del Salone. Sempre nell’ambito della riflessione sull’editoria digitale non poteva mancare il dibattito sui recenti metodi di informazione che grazie a Twitter stanno cambiando profondamente l’approccio a diffusione e reperimento delle notizie, un aspetto che tuttavia sarebbe stato interessante approfondire ulteriormente data la vastità del fenomeno e il peso mondiale che di recente ha assunto.
Stefano, Debora e Rodolfo al #SalTo12

In generale quindi dal mio personale punto di vista l’ultima edizione del Salone di Torino si conferma un evento imperdibile, soprattutto come si è detto per la varietà di interventi e temi trattati, che sono in fondo la vera forza dell’evento.
 
Debora Lambruschini