CriticaLibera: Soggettive analogie


CriticaLibera: Soggettive analogie
di Paolo Mantioni

Quando non ha una funzione specificatamente ecdotica, quando, cioè, non è immediatamente rivolta alla pubblicazione di testi, la filologia si costituisce spesso come metodo critico che aspira a trarre spunti di riflessione esegetici dai documenti e dalle informazioni extratestuali e per questa via dà frequentemente la sensazione di essersi incamminata in maniera del tutto oggettiva e naturale sulla strada giusta, quella che più di altre può assicurare un’interpretazione del testo unanimemente condivisibile. Quella che in Italia è conosciuta come “critica degli scartafacci” (come spesso succede nella storia letteraria una definizione nata come biasimevole finisce per essere rivendicata con orgoglio) che ha avuto illustri fondatori ed interpreti (G. Contini e M. Corti, per citare solo due tra gli indimenticabili) prende in esame il testo letterario come risultato finale di un processo elaborativo la cui ricostruzione, laddove abbia lasciato tracce, è assunta come via maestra per la penetrazione critica del testo stesso. Salvaguardando l’incontestabile valore ermeneutico dei risultati ottenuti per questa via da alcuni studiosi, che spesso hanno abbinato alla competenza filologica, quella storico-critica e stilistica, il metodo filologico suscita spesso nel lettore non occasionale del testo in esame uno stato d’animo di perplessità e insoddisfazione. Dapprima l’insieme dei documenti e delle informazioni elaborate dallo specialista filologo allargano quasi indefinitivamente il campo d’indagine e spiazzano (ovverosia decentralizzano) le competenze generali e i sentimenti soggettivi del lettore (ripeto: non occasionale, quindi nessuna concessione all’impressionismo o alla estemporaneità); poi lo stesso lettore si rende conto che i dati oggettivi discussi dal filologo specialista che sembrano preludere ad un’interpretazione altrettanto oggettiva non possono che essere, a loro volta, il frutto di una selezione e di un’interpretazione che di per sé non può essere oggettiva; infine può svilupparsi nel lettore un rifiuto pregiudiziale del metodo filologico perché la massa di documenti e informazioni spandono uno spesso alone sul testo, lo rendono opaco, e anziché favorirne la penetrazione critica la ostacolano perché diventano troppe, e troppo specialistiche, le cose da dover prendere in considerazione. Eppure questo metodo critico, grazie a personalità eccellenti, Contini, Corti, Segre, Isella e altri, ha saputo leggere come altri mai i testi letterari.

Il metodo filologico, quando non è sorretto da una più generale competenza letteraria e da una forte personalità, offre delusioni analoghe a quelle che offrono la scienza medica e Internet.


Il vertiginoso progresso della scienza medica degli ultimi due secoli non impedisce e non impedirà (quand’anche moltiplicasse pressoché all’infinito le sue conoscenze) che ci si ammali e si muoia. Constatazione banale, se non francamente idiota, ma che può essere riformulata in modo tale da apparire meno banale e non idiota. Il progresso scientifico nel campo dell’arte (non scherziamo, della professione) medica è oggettivo e verificabile. Ha debellato malattie, ha prevenuto epidemie, ha attenuato sofferenze fisiche e ha prodotto mille altri nobili e altruistici avanzamenti. Non mancano, in verità, effetti collaterali regressivi, del tutto marginali, va riconosciuto, e in nessun caso, in ogni modo, ci si dovrebbe mettere di traverso al progresso delle conoscenze mediche. Ma è altrettanto certo che la scienza medica non esaurirà mai la Malattia, perché essa rilancia di continuo, si lega a dinamiche storico-sociali che la scienza medica non solo non può prevedere e prevenire, ma che talvolta addirittura contribuisce a promuovere, (il caso di farmaci cancerogeni è solo un - qualunquistico? – esempio. Meno qualunquistico e più legato a rilievi di carattere storico-sociali è l’esempio dell’abbassamento delle difese immunitarie naturali a causa dei pur indispensabili e benemeriti antibiotici). Inoltre la scienza medica deve poi incarnasi in una figura concreta, il medico, e intervenire su un’altra figura concreta, il malato. Le soggettività del medico e del malato possono trarre gran profitto dalle oggettive conoscenze mediche, ma non possono applicarle astrattamente, come se l’oggetto, la Malattia, fosse lì, fermo e disponibile a farsi curare: medico, malato e malattia devono interagire, amalgamarsi, mescolarsi. Devono diminuirsi: la scienza medica dovrà incarnarsi nella fallibilità e nella sintesi intuitiva del medico (e più approfondita sarà la conoscenza della scienza medica e più efficace e affidabile sarà la sintesi), questi dovrà constatare che la Malattia della quale egli ha conoscenze oggettive non è perfettamente sovrapponibile alla malattia del suo malato, infine, il malato, dovrà aver fiducia che un intervento esterno sul suo corpo potrà ristabilirlo. Ogni medico costituisce une relazione soggettiva con la Medicina e ogni malato costituisce una relazione soggettiva con la malattia. 
La scienza medica non esaurirà mai la Malattia non solo per i regressi connessi al suo stesso progresso, o per le dinamiche storico-sociali che creano nuove malattie, ma soprattutto perché non potrà mai esaurire le soggettività di medico e malato.
Nondimeno la scienza medica progredisce, mai vorremmo rinunciare al suo, pur a volte rischioso e pernicioso, progresso, semmai vorremmo rinunciare al suo assunto positivistico che la conoscenza sia di per sé guarigione.

Così come la conoscenza di un testo letterario (e quella dei suoi paraggi) non è di per sé interpretazione critica.
All’analogia tra filologia e medicina mi pare si possa aggiungere quella delle due nobili pratiche con la grande Rete interconnettiva (analogie del tutto soggettive, per carità, e che probabilmente nessun filologo o medico o internauta sarebbe disposto a sottoscrivere).
Credo sia esperienza comune: si ha bisogno di un’informazione specifica su un nome, un fatto o un argomento, si accede in Internet e ci si ritrova sommersi o smarriti in un tale labirinto di possibilità che la semplice scelta di questa o quella strada ci fa immediatamente rimpiangerne di non aver esplorato altre possibilità, altre strade; spesso l’ansia dell’esplorazione addirittura ci fa perdere di vista l’informazione puntuale che cercavamo e ci fa ritrovare in territori che contengono, sì, quello che cercavamo, ma come avviluppato in una matassa che lo nasconde. Un senso di frustrazione, di spreco, di “troppa grazia, Sant’Anto’”: se siamo bravi, fortunati ed allenati portiamo via l’informazione che ci serviva e fuggiamo trafelati per non essere raggiunti dalla massa di altra varia umanità che l’attorniava. Credo che sia un’esperienza comune a chi ha un retroterra culturale umanistico o libresco: ci muoviamo nel territorio di Internet come “immigrati” (la distinzione tra “nativi” e “immigrati” nell’era telematica non è mia e risponde alla necessità di distinguere le nuove dalle vecchie generazioni). Ne conosciamo per sentito dire o librescamente le grandi potenzialità, ma tra noi e l’utilizzo più efficace delle ricchezze che offre si erge un’enorme nube offuscante che richiede un notevole dispendio di energie per disperderla. C’è da sperare (ma se ne può anche dubitare) che i nativi ci si muovano meglio.
Tutto questo non significa che si debba o si possa rinunciare alle grandi potenzialità culturali offerte dalla rete globale delle informazioni. Insomma, se ho bisogno di una cravatta rossa da abbinare al mio completo blu ed entro in un grande magazzino d’abbigliamento non posso farmi paralizzare dalla grande quantità di fogge e di colori o dalla sinuosità mozzafiato delle commesse o dal rumore musicale che mi assedia o dalla curiosità per i comportamenti degli altri avventori. Può succedere, di tanto in tanto me lo posso concedere, ma se mi serve una cravatta rossa, se mi aspettano nel mio completo blu al matrimonio di mia nipote, devo farmi forza e prendere solo ciò che mi serve (senza perciò aver voglia di invitare le autorità a far chiudere il negozio e rinchiudere le commesse in convento).
Se vorrò dare un giudizio critico su un’opera letteraria che non sia impressionistico o estemporaneo, sentirò il bisogno di avere una buona conoscenza della letteratura filologica, biografica, critica che l’accompagna, ma non sarà necessario esaminare scrupolosamente tutti i documenti e quel giudizio non scaturirà direttamente da quei documenti.
Un’indagine conoscitiva, che sia letteraria, scientifica o di varia umanità, non può risolversi in una verità oggettiva, perché i suoi risultati sono il frutto di una relazione tra oggetto e soggetto ed è sempre una relazione contingente, empirica, perché contingente ed empirico è il soggetto. Una migliore, meglio documentata e informata conoscenza dell’oggetto – testo letterario e annessi, scienza medica, Internet – è indispensabile alla formulazione di un giudizio argomentato e condivisibile. Ma tra conoscenza e giudizio si deve riconoscere una discontinuità, che è lo stesso soggetto contingente ed empirico a produrre e che, per altro, è modulata a seconda della natura dell’oggetto: la discontinuità del letterato rispetto alla letteratura è qualitativamente diversa da quella del medico rispetto alla scienza medica. Non tenere nel giusto conto la fallibilità e la ricchezza intuitiva del soggetto contingente induce l’illusione scientista che la conoscenza sia di per sé giudizio. Viceversa l’intervento del soggetto contingente ed empirico è sempre determinante e verifica sul piano pratico, sul piano, cioè, della condivisibilità, una conoscenza astratta che altrimenti non avrebbe alcun effetto.

In letteratura, è il testo stesso, a sua volta frutto di una relazione contingente ed empirica tra l’autore e le sue intenzioni, a sottrarsi alla compiuta oggettivazione. E tanto più lo si tratta come oggetto, tanto più lo si indaga con fare scientifico, tanto più si nasconde al suo indagatore. Il testo letterario non contiene nessuna Verità, nemmeno quella che l’autore intendeva metterci. La sola verità che può trasmetterci (provvisoria e revocabile come ogni verità umana) è contenuta nella relazione tra il testo e il lettore. No, nessun irrazionalismo spiritualistico, è che la massa di documenti e informazioni e la cultura generale del lettore è costantemente in gioco e contribuisce a formare il giudizio, che, però, non è deterministicamente prodotto dalle sue conoscenze più o meno specialistiche. Alla conoscenza oggettiva vanno amalgamate la sensibilità e la disponibilità all’ascolto del soggetto-lettore. Maggiore sarà la competenza specifica del lettore e maggiore sarà la sua capacità di dar conto ad altri lettori della sua sensibilità e disponibilità all’ascolto, senza le quali sul testo letterario non si può dire altro che esso stesso non abbia già detto.