The bastard of Istanbul


The bastard of Istanbul
- Elif Shafak -

Nel lasso di tempo tra l’edizione turca e quella inglese del suo romanzo, Elif Shafak, è stata messa sotto processo per aver infranto l’articolo 301 del codice penale turco e per aver denigrato, secondo le autorità, “l’essenza della sua nazionalità”. L’ autrice, che in realtà non ha mai oltraggiato la mezzaluna bianca in campo rosso, ha rischiato tre anni di prigione nel tentativo di portare avanti caparbiamente una serie di interviste a famiglie turche ed armene. Ha viaggiato instancabilmente tra Arizona, New York ed Istanbul al fine di tratteggiare, per scorci ed allusioni, la diaspora armena che seguì la fondazione della repubblica islamica nella Turchia dei primi decenni del XX secolo con le conseguenti epurazioni della minoranza cattolica.
La storia ruota attorno all’amicizia tra due ragazze costrette a vivere a cavallo tra un mondo islamico che si apre all’Occidente ( nel caso di Asya che vive ad Istanbul) ed un’ America che in certi angoli mantiene le prerogative, i sapori, gli odori, le tradizioni di un Oriente costretto all’esilio ( la vicenda di Armanoush e della sua famiglia). Eppure il loro legame non è che un pretesto per parlare di identità, censura, coesistenza di culture in un mondo essenzialmente pluralista che cerca le sue origini e che pure non vuole sentirsi vincolato, confinato entro gli orizzonti angusti di un’unica patria e di cui diventa emblema il tatuaggio di cui parla la ribelle Zeliha: un albero capovolto con le radici piantate nel cielo…
Le prospettive sono molteplici ma prevalentemente femminili: spesso gli uomini sono marchiati da destini infami, rivestono ruoli marginali o vengono messi a tacere… altre volte le loro figure prendono forma proprio perché collocate accanto ad una donna.
L’ironia pervade il romanzo sconfinando in sarcasmo nei momenti di maggiore tensione nello sforzo di recuperare uno sguardo distaccato in una città con tante contraddizioni quanti sono gli aromi che la attraversano… Proprio le spezie ed i frutti del bazar titolano i singoli capitoli ed assumono nell’ economia del racconto una funzione determinante e fatale che finisce per lasciare di stucco il lettore. Così cannella, vaniglia, pistacchi, mandorle, semi di melograno e scorze d’ arancia diventano i correlativi oggettivi di ricordi, profezie, leggende che si aggrovigliano inestricabilmente in continui slittamenti spazio- temporali… E’ una scrittura varia che passa dal lirismo di certe aurore sul corno d’oro, all’ intima familiarità dei dialoghi, dalla sentenziosità dei manifesti nichilisti di Asya alla colloquialità della chat virtuale o dalla pragmaticità di semplici, eppure invariabilmente infrante, regole della prudenza all’ aura remota che avvolge i racconti delle generazioni passate, generazioni che hanno vissuto la violenza su di sé ed il cui ricordo sembra impedire il perdono… almeno finchè la denuncia non sfocia nella morale di una favola per bambini: “Once there was; once there wasn’t. God’s creatures were as plentiful as grains and talking too much was a sin.”

Esposto Ultimo Eva Maria

La verità è nelle parole piccole - Convegno di Studi



Cari amici, ho il piacere di invitarvi all'importante e stuzzicante convegno di studi dedicato a Giovannino Guareschi, in data


1 dicembre
presso il Collegio S. Caterina da Siena
(PV)


a partire dalle ore 17.00.

Per ulteriori informazioni e per il programma, vi rimando a questo link:
http://www-1.unipv.it/SantaCaterina/pdf/guareschi.pdf

Vi aspettiamo numerosi!

Nella tana dell'orco e altre storie



Nella tana dell’orco e altre storie
di Susanna Trossero
Firenze, MEF, 2008

pp. 114
€ 10,30

L’atmosfera permeata di misteri inspiegabili è palese prima ancora di avventurarsi nella prima pagina: sarà l’immagine del Tio Paquete di Goya in copertina o, molto più probabilmente, la didascalia che riporta “fiabe cattive”, da leggere in un bosco tra ammalianti profumi, ma guardandosi le spalle.
Così si apre questa discontinua e singolare raccolta narrativa, composta da storie di diversissima lunghezza (il primo racconto occupa ben 70 pagine e le restanti sono invece suddivise in ben tre racconti) e tematica. Infatti, la prima vicenda, che dà il titolo al libro, porta i protagonisti in una selvaggia Sardegna, alla ricerca di una donna scomparsa da anni: non meraviglia che si mescolino in un connubio quanto mai tipico, tra nuraghi ancora avvolti da poteri sconosciuti e miracolose apparizioni. All’avventura si unisce l’amore tra i due protagonisti, sentimento non veramente affrontato o esplorato dall’autrice, ma più che altro narrato tangenzialmente. Qualche pagina ancora e, sullo sfondo d’eccellenza di un arido entroterra sardo, si concretizza una leggenda che ha tratti di verosimiglianza molto labili, ma fascinosi.
Si passa poi al Dio degli alberi, racconto composito, in cui la narrazione è preceduta da una documentazione cronachistica e medica di fatti realmente accaduti. Viene qui ripreso il tema tradizionale della natura che si ribella e si vendica degli uomini che la sfruttano. Non si tratta di una rivincita diretta, ma di qualcosa di più subdolo e apparentemente impercettibile, qualcosa che scava nella psiche umana, distruggendola.
Nella successiva storia, Il fiore, la natura diventa invece movente per un atto sconsiderato, che riesce a sconvolgere il lettore in poche pagine, ben tratteggiate, perché enigmatiche e con un retrogusto di inspiegabilità.
Più diretto e ancor più inquietante è il racconto finale, Gli scarafaggi, che mantiene un’atmosfera di dramma psicologico e thriller molto alla Dario Argento.

Non è dunque difficile notare come l’autrice attribuisca un ruolo primario alla natura, mai a fondo indagata, ma motore dell’azione e, quindi, della narrazione stessa. È proprio questo aspetto insondabile a suscitare nel lettore un moto di riflessione, non senza qualche brivido. Emergono infatti considerazioni poco fiduciose nei confronti del genere umano, colto nel suo lato di normalità solo apparente, subito contraddetto da reazioni che denunciano l’egoismo e la sordità dei più.
La scrittrice, già premiata in importanti concorsi letterari, non manca di rimarcare nella sua prosa l’importanza della descrizione, fondamentale per ricreare un’atmosfera misteriosa, per quanto mai nebulosa. Proprio la chiarezza espositiva è un punto di forza di quest’opera, senza giri frasali imbarazzanti o lungaggini: una prosa che mira alla sintesi – a volte un po’ troppo – e che ha ben chiaro il suo obiettivo di turbare e ispirare.

GMG

Il Circolo Pickwick

Il Circolo Pickwick
Charles Dickens
Mondadori 1997

Edgar Allan Poe dichiarò di avere una grande ammirazione per Charles Dickens. Secondo lo scrittore americano, il collega inglese sapeva raccontare storie che accontentavano il pubblico dai gusti più sofisticati, compiacevano i critici e allo stesso tempo conquistavano la grande massa di lettori che, mese dopo mese, seguivano le puntate delle avventure degli improbabili personaggi dickensiani. Se oggi, infatti, l'edizione del libro conta poco più di mille pagine, nel 1836 iniziò a essere pubblicato in due, tre o quattro capitoli al mese, per arrivare alla conclusione soltanto un anno e mezzo dopo. La perfetta sintesi delle qualità di un romanzo a puntate fatta dal commediografo Charles Reade "Make them laugh, make them cry, make them wait" si adatta precisamente a ciò che Dickens è riuscito a creare in tutta la sua carriera. Il Circolo Pickwick è una saga costruita intorno al personaggio di Samuel Pickwick, uomo anziano e benestante, fondatore e presidente del circolo omonimo, che parte per un viaggio nell'Inghilterra rurale inseguendo il suo ideale filantropico di 'ricerca'. Accompagnato da tre fedeli giovani affiliati al circolo, Snodgrass, Winkle e Tupman, Pickwick si immerge nella campagna, ben presto trascinato in un'infinità di guai e imprevisti.

La descrizione del variopinto patchwork di personaggi è l'aspetto a prima vista più raffinato di questo affollato romanzo, tanto zeppo da convincere Dickens a stilare un vero e proprio elenco di nomi a inizio libro, chissà, forse anche per rendere subito visibile la mole della sua fatica. Al di là del sottile umorismo trascinante e paradossale che caratterizza ogni pagina, il sostrato d'ironia pungente emerge soprattutto quando i pickwickiani si trovano coinvolti in un processo giudiziario e vengono sballottati dalle grinfie di astuti azzeccagarbugli nelle desolate celle della prigione di Fleet Street. I trascorsi famigliari di Dickens hanno di certo preso il sopravvento in questa narrazione dal sapore persecutorio. 

M'immagino Dickens intento a forgiare le sagome dei personaggi, una a una, nel suo laboratorio, sogghignando nell'aggiungere un naso sporgente qua, una pancia esagerata là, preso talvolta da un sadismo sistematico, talvolta da piglio paterno. Poche volte capita di sentire la mancanza dei protagonisti di un libro quando se n'è terminata la lettura. Di certo questo è unanimemente un caso in cui ciò accade. 

Le città invisibili


Le città invisibili
di Italo Calvino
Milano, Mondadori, 1972

“Un poema d’amore alle città”: così Calvino definisce il suo romanzo e, non a caso, ogni città assume il nome (e con esso il volto) di una donna, il suo calore accogliente, la sua morbida e sinuosa sensualità, il mistero di una figura appena sbozzata… così sono descritte Ipazia, Dorotea, Despina, Isidora, le città che non sono più, quelle che non sono ancora e quelle che, come Utopia o Atlantide, non saranno mai per il semplice fatto che l’inconsistenza è la loro calce.
La trama è frammentata, quasi un mosaico che si compone nella mente dell’avventuriero Marco Polo, mercante in realtà poco attento alla ragion di stato e più avvinto dall’ onirismo, dalle mille possibili strade che la città offre come percorsi alternativi, e dai molti “futuri non realizzati” che essa permette di sognare facendoci nostalgicamente volgere indietro per capire “il poco che abbiamo avuto” dal “molto che non avremo mai”…
Far propria la logica di una città non equivale a fare i turisti: si entra in contatto con un mondo “altro” di cui si rischia di non trovare più la via d’uscita, perduti come novelli Tesei in cerca del filo d’Arianna…
Ci si ferma ad osservare un bambino, un uomo, un vecchio ed ecco che, come direbbe Lynch, la città cambia le sue forme, i suoi colori, i suoi fini a seconda di chi la percepisce sviluppandone l’immagine in ogni suo angolo, via o incrocio mentre la clessidra lascia scivolare i suoi grani fini come cipria.
“Ogni città riceve la sua forma dal deserto a cui si oppone”, ognuna rappresenta un “check point”, uno scalo in cui sostare prima di giungere a quella meta che Kublai Khan, da sovrano e saggio orientale, sa coincidere con il punto di partenza poiché ogni percorso compiuto si dipana circolarmente… per questo la meta di Polo non può che essere Venezia.
Così davanti alla “Serenissima”, quasi una nuova agognata Itaca, le altre città divengono invisibili.
Forse lo sono davvero. Forse sono solo un’invenzione di Polo davanti alla volontà espansionistica, ai capricci del Khan… o forse sono allucinazioni dovute all’oppio ed alle lunghe pipe fumate sui balconi di un palazzo di “un impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie” e si scopre essere “uno sfacelo senza né fine né forma” poiché “solo nei resoconti di Marco Polo, Kublai Khan riusciva a discernere, attraverso le torri e le muraglie destinate a crollare, la filigrana d’un disegno così sottile da sfuggire al morso delle termiti”.

Esposto Ultimo Eva Maria

Conoscenza e possesso della vita in un’opera da (ri)scoprire

Titolo: Il giudizio della sera
Autore: Sebastiano Addamo
Curatore: Sarah Zappulla Muscarà
Editore: Bompiani
Dati: XIV, 160 pp.
Prezzo: 8,60 €

Il romanzo è un’architettura composita, che consente diversi livelli di analisi: una vera avventura letteraria che è tanto più una conquista quanto è autoconsapevole, onesta, libera da pregiudizi. Superata la separazione manualistica tra Contenuto, Poetica e Stile, il lettore attento si renderà conto quanto i famosi “livelli di analisi” si compenetrino in una sintesi ricca, esplosiva: le simbologie si nutrono di parole, le idee sono dialoghi o lunghe digressioni – e mai entità avulse dal testo, estranee ed autosufficienti.

Questa riflessione è d’obbligo, prima di parlare de Il giudizio della sera (1974). Primo romanzo del catanese Sebastiano Addamo, dopo la prova narrativa con i racconti di Violetta (1963), riprende la lunga tradizione del Bildungsroman, tanto cara agli scrittori siciliani del ‘900. L’adolescenza e il suo carico di emozioni e contraddizioni, infatti, diventa il punto privilegiato per fotografare un’epoca intera, nel suo ribollire convulso e dialettico di opposti.

La Catania che ci offre Addamo nel suo romanzo prende corpo, così, come una creatura immensa, come la padrona dell’appartamento in cui Gino e i suoi amici si trasferiranno per frequentare il liceo, sordida e “meravigliosa” della meraviglia composita – orrore ed estasi – che è propria della vita. Una Catania bifronte, dunque. L’attenzione di Addamo, infatti, non si ferma ai quartieri “asettici” della Catania bene: l’autore indaga soprattutto il “rumore pulsante della vita” proprio di strade come via delle Finanze, via Rapisarda, via Maddem, via Di Sangiuliano. Su queste strade, popolate di prostitute, si riversa l’entusiasmo dei giovani protagonisti, che nell’autunno del 1940 intraprendono un processo di crescita attraverso questo intrico di vicoli e di vita “che si avviluppava intorno a noi, che le nostre veglie e l’attesa ampliavano e trasformavano fino a crearne una nuova, fantastica e reale soltanto per noi”.

La crescita di Gino e i suoi amici si realizza in concomitanza alla seconda guerra mondiale, al suo riversarsi sulle strade e insozzare, letteralmente, una città prima “tenera e profonda”. Della meraviglia resta l’abisso, e la crescita non può che avvenire scavando nei bassifondi della città, e nei primordi della sensibilità umana. L’arrivo dei ragazzi in via delle Finanze, durante il primo bombardamento, ha tutto il sapore di un’iniziazione rituale, come una discesa agli inferi.
Crescere, per i ragazzi di Addamo – e per Addamo stesso, come vedremo poi – significa conoscere, e attraverso la conoscenza possedere. Questi due concetti sono fondamentali, e non soltanto perché si tratta di un romanzo di formazione: come ne Il bell’Antonio di Vitaliano Brancati, la società in cui si muovono i ragazzi è una società (apparentemente) virile in cui “noi non pensavamo, non agivamo, e il pensiero e l’azione si concretavano nel sesso, o nel suo mito”. Possedere, dominare è l’ossessione dell’uomo che non domina, non possiede sé stesso.

Per Addamo la conoscenza è un processo, prima che cognitivo, sensoriale. Ogni entità – che sia un uomo o un luogo, la guerra o la propria casa – è identificata attraverso un odore particolare e inconfondibile: “assorbivamo l’odore della casa e del vicolo e del quartiere come se il naso, che è veicolo o tramite si fosse per noi tramutato in mezzo di possesso e di dominio”. Un indizio: la stessa parola “odore” compare nel testo 48 volte, senza contare tutto ciò che appartiene all’area semantica dell’olfatto. Sentore, lezzo, puzzo, fetore: i termini ricorrono ossessivamente, e gli odori stessi si caricano di arcani simbolismi. L’abbrutimento della guerra, ad esempio, è l’odore di escrementi umani che si addensa per le strade, che invade le anime cancellando qualsiasi speranza.

Il nucleo del romanzo risale al 1968, anno in cui Addamo lo inviò – si sarebbe trattato di un racconto lungo – a Einaudi, che rifiutò di curarne la pubblicazione. Tra il 1968 e il 1974 Addamo apportò delle modifiche sostanziali all’opera, che ne cambiarono la prospettiva e il significato: trasformò il narratore conferendogli la maturità di un adulto che osserva (e giudica) il proprio passato, e aggiunse delle importanti digressioni tra parentesi che assestarono la narrazione in un nuovo equilibrio, più riflessivo e consapevole. Consapevolezza che si concreta nel riferimento finale alla “età del parricidio”, passaggio crudele ma necessario per la crescita.

Dopo il discreto successo del 1974, dopo quasi trentacinque anni si è ritenuto necessario riportare sugli scaffali delle librerie Il giudizio della sera. Il romanzo è stato ripubblicato dalla Bompiani, nel 2008, in un’edizione a cura della prof.ssa Zappulla Muscarà, ordinaria di Letteratura Italiana dell’Università di Catania. Qui, nell’Auditorium De Carlo presso la facoltà di Lettere e Filosofia, l’11/11/2008 si è tenuta la presentazione del romanzo, con interventi del Preside Enrico Iachello e del prof. Salvatore Nigro, ordinario di Letteratura Italiana moderna e contemporanea presso la Scuola Normale Superiore di Pisa e la lettura di alcuni passi da parte dell’attore Pippo Pattavina.

Un'opera da (ri)scoprire, dunque, finalmente riconosciua come quadro rappresentativo di un’epoca (il fascismo e la seconda guerra mondiale in Sicilia), di determinate fette sociali (la piccola borghesia lentinese, l’ambiente popolare catanese) e, in genere, di una inconfondibile sicilianità ripresa con romantica nostalgia.

Laura Ingallinella
in foto: (1) l'edizione Bompiani del 2008, (2) l'edizione Garzanti del 1974

Demiurgo dei giorni nostri


Gocce dall’Infinito
di Vito junior Ceravolo
Empoli, Ibiskos Editrice, 2005

pp. 69
€ 10.00

Anche l’Infinito si veste di risoluzione… Con queste parole, explicit della poesia prefatoria, il giovane poeta (1978) permette di accostarsi subito alla propria poesia, strumento per raggiungere l’inconoscibile e tramutarlo in verso. Siamo davanti a una poesia che non ha paura di definire, né di caricarsi di quel ruolo demiurgico a cui allude anche l’introduzione di Monia B. Balsamello. Il poeta, entusiasta scopritore del mondo e oltre, offre il risultato dei propri voli - pindarici o meno – al lettore, a cui dedica l’opera. È infatti tutto un tendersi verso, un desiderio di arrivare, e di non esaurire la comunicazione con il termine del componimento.

Grandi sentimenti d’eternità e il desiderio di valicare i limiti del conosciuto, il contrasto rappacificato tra vita e morte sembrano riportare alle tradizioni orientali dei saggi zen: non mancano pertanto parecchie allusioni alla luce, che non si stempera, ma illumina con un particolare gusto coloristico, come nella poesia Mediterraneo:

Sopra la luna
rischiara le stelle
come il gran sole
d’un rosso splendente

Sotto il blu mare
riflette il colore
d’un giorno finito
infinito d’amore


Amore. Amore che spesso compare, ma senza angoscia, nonostante la donna ritratta sia una presenza evanescente, mai raggiungibile, ora perché rifugge il sentimento, ora perché è assente. Non sembra però bloccare l’itinerario del poeta: è compagna, non signora, e per questo è presenza desiderata, non Musa fondamentale al canto. Anche davanti alla delusione, il poeta non s’arrende. E, allo stesso modo, non c’è timore nell’affrontare la vita, né insicurezza: pochi sono gli aggettivi qualificativi, tante le poesie scevre da immagini. Spesso invece sono gli aforismi a farsi spazio, smontando paradossi o appoggiandosi ad antitesi o a giochi di parole. Vi propongo a questo proposito l’Aforisma (del volo):

Tutto è eterno.
Niente è mai esistito

ogni cosa è materiale
ogni cosa è astratta

ogni Dio è vero
ogni dio è pura fantasia

E’ solo il nostro cuore e la nostra mente
A farci decidere quale,
fra tutte queste, è la nostra verità.


Questo componimento semplifica alcuni caratteri costanti nella poetica di Ceravolo: è evidente la tendenza al minimalismo verbale, l’assenza di aggettivazione e un certo andamento iterativo e definitorio. Ma è qui che ci si sbaglia: il poeta non impone una realtà, ma anzi invita attraverso queste incalzanti antitesi (sottolineate dall’anafora martellante di “ogni”) a scegliere la propria verità, attraverso sentimento e ragione.
Troviamo inoltre un’altra componente fondamentale: l’uso o meno della maiuscola e delle parentesi per il titolo. Vito Ceravolo sperimenta senza timore di violare gli usi più tradizionali: spesso sono proprio le maiuscole a creare giochi linguistici, come in estrapolando La nota, di cui leggiamo l’inizio:

SIlenzio in arsura
da sinuSOidaLe sFerA
satura isotropica
battuta

curva sgorgante
il nettaRe sonoro
di-vino


Per quanto riguarda il sopraccennato uso della parentesi, basta consultare l’indice per accorgersi di quanto siano sfruttate per adombrare i titoli. Ma risultano così davvero adombrati? Sappiamo che nel corso del Novecento, la parentesi, come gli altri segni di interpunzione, è stata investita di un nuovo ruolo: provocatoriamente, Vito sembra qui suggerire tra parentesi una possibile chiave di lettura della poesia a venire, ma senza volerla imporre con la prepotenza di un normale titolo. Lo stesso spazio bianco del foglio viene gestito come una realtà da possedere, dividendo la silloge in sezioni che andrebbero tutte indagate.

Gloria M. Ghioni

Il Salotto: intervista ad Angelo Ricci

Ciao Angelo,
grazie per aver accettato questa intervista informale sul tuo Notte di nebbia in pianura, che abbiamo recentemente recensito.

Grazie a voi per l’ospitalità.

Perché non ci spieghi un po’ più diffusamente rispetto al retrocopertina chi è Angelo Ricci?
È una domanda apparentemente molto semplice, che però apre in me un mare di interrogativi. Questo perché ci sono due Angelo Ricci. Il primo è un uomo ordinario, al limite della banalità, che conduce una vita come tante. Il secondo è l’Angelo Ricci che scrive. Che scrive con piacere, ma anche con sofferenza. E che trova forse nello scrivere il modo per nascondersi ancora di più. Non a caso un personaggio letterario che ho sempre amato (anche in questo caso con piacere, ma anche con sofferenza) è stato Agilulfo Emo Bertrandino dei Guildiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez.
In parole povere, il Cavaliere Inesistente di Calvino.

Quando ci siamo incontrati, mi hai raccontato della tua professione di avvocato. Come convive la scrittura con la tua base di giurisprudenza? Trovi che lo stile ne risulti influenzato?
È una convivenza conflittuale. Probabilmente sono affascinato dalla presunta anarchia (tuttavia molto ordinata) della parola scritta, proprio per reazione al presunto ordine (in realtà del tutto anarchico e casuale) della norma giuridica e della legge.
Se il mio stile ne risulta influenzato? Mi piacerebbe rispondere di no. Devo invece confessare che è estremamente debitore della mia formazione giuridica.

E ora passiamo al libro. Notte di nebbia in pianura: titolo più che emblematico di quella realtà lombarda che noi ci troviamo a condividere. Per quegli amici che non hanno la “fortuna” di vivere nella nostra zona, come potresti descrivere questa realtà biancastra?
Mi piace molto la nebbia, come mi piacciono il freddo, la pioggia e l’inverno. Sono convinto che la pianura (in particolare la Lomellina, che è la mia terra d’origine) sia un luogo affascinante e nel contempo terribilmente inquietante. Se dici a un bambino di disegnarti una collina o una montagna, si metterà subito a fare dei segni sulla carta. Ma se gli dici di disegnarti la pianura, non saprà che cosa fare. Penso che la pianura sia il luogo letterario per eccellenza, perché ci può accadere di tutto. Perché lo puoi riempire con tutto. Nel bene e nel male. E non è detto che poi, di quello che ci metti dentro, se ne possa mantenere il controllo. Anche con la mia terra ho un rapporto conflittuale. La amo profondamente perché rappresenta le mie radici dalle quali non posso (e soprattutto non devo) fuggire, ma la odio altrettanto profondamente perché ne sono, in qualche modo, prigioniero.

Come abbiamo detto, ci sono più storie che vengono ad intrecciarsi qua e là, con punti di tangenza e non solo. Come sono nate? Tutte insieme, o hai ritenuto opportuno aggiungere altre vicende e personaggi in un secondo momento?
Quando invento una storia non scrivo mai nulla, finché la trama non ha completamente preso forma nella mia testa. Solo allora passo alla fase della scrittura. In “Fine di una storia” Graham Greene fa dire a Maurice Bendrix che uno scrittore lavora sempre, anche quando sta facendo un’altra cosa. Per me è lo stesso. Tutte le storie sono nate insieme. Tutti i personaggi hanno cominciato a muoversi insieme. Quando il tutto si è armonizzato, l’ho scritto.

Tra le altre vicende, figura anche un io-narrante che, molto casualmente, era avvocato e si distacca dalla sua precedente professione. Quanto c’è di autobiografico?
Quando terminai il manoscritto di “Notte di nebbia in pianura”, lo diedi in lettura a Mino Milani per sapere che cosa ne pensasse. Ricordo che gli dissi: “Non sono riuscito a nascondermi completamente”. E lui mi rispose: “Non è necessario che l’autore si nasconda e forse non è nemmeno giusto.” Tu mi chiedi correttamente quanto ci sia di autobiografico in quel personaggio. Contraddicendo quasi completamente ciò che ho detto prima (ma non siamo tutti pieni di contraddizioni?) sul fatto dello scrivere per nascondersi ancora di più, ti rispondo che si, c’è molto di autobiografico. E ti dirò di più. Quel personaggio incarna proprio il rapporto conflittuale fra le mie due anime: quella ordinaria del laureato in Giurisprudenza e quella fortemente (e, oserei dire, quasi follemente) eterodossa del narratore di storie.
Ernest Jones, che fu allievo e biografo di Freud, disse che, nella sua vita, due cose avevano occupato troppo posto: la Scozia e la facoltà di Medicina.
Nel mio piccolo posso altrettanto affermare che, nella mia vita, due cose hanno occupato troppo posto: la mia terra e la facoltà di Giurisprudenza.

Una sezione del tutto imprevista e imprevedibile è quella dedicata al personaggio di “Sticazzi”, e troviamo pagine colme di improperi di una certa originalità. A quale scopo tanta violenza verbale, se vogliamo, spesso gratuita?
Sticazzi altri non è se non una delle tante incarnazioni del male. Ma non rappresenta, facendo riferimento ai tanti esempi letterari, il male demoniaco, che ha comunque una sua grandezza, pur se perniciosa, deprecabile, orribile. Sticazzi è il male ordinario e meschino, quello che incontriamo tutti i giorni attorno a noi e anche in noi. Un esempio varrà più di mille parole. Un giorno vidi in televisione un’intervista ad un individuo al quale era appena stata ritirata la patente per la terza volta, perché per ben tre volte aveva investito e ucciso dei pedoni. L’individuo in questione si lamentava perché, rimasto senza patente, non poteva lavorare, ovviamente glissando sui tre omicidi. Ecco il male quotidiano, ordinario e meschino. Ecco il male “normale”, contro il quale forse non c’è rimedio.
Perché Sticazzi si esprime con una così forte violenza verbale? Un pittore, per tratteggiare i suoi personaggi, ha a disposizione i colori. Chi scrive ha “solo” le parole. La violenza verbale di Sticazzi è stato lo strumento che ho utilizzato per descriverne, per mezzo delle parole, la proterva, totale e ignobile mancanza di empatia.

Anche se non vorrei addentrarmi in domande azzardate, non posso fare a meno di notare che nel tuo libro la Giustizia manca, e non mi riferisco solo alla giustizia dei tribunali, ma alla giustizia delle coscienze. Mi pare che si possa far emergere un messaggio disilluso, ben chiaro, tutt’altro che annebbiato: ne vuoi parlare?
Premetto che non sono un moralista. Chi scrive non può, e soprattutto non deve, esserlo. Il moralismo è soltanto un alibi per i censori; si comincia con il sequestro di una rivista porno e si finisce col dire ai giornalisti e agli scrittori quello che devono o non devono scrivere. Questo almeno secondo un modello che, per quanto detestabile, a rigor di logica dovrebbe essere automatico.
Tuttavia noto intorno a noi tutta una serie di avvenimenti che stanno connotando la nostra realtà in modo molto postmoderno. A volte mi pare che accadano (nella gestione dei rapporti politici, sociali, nella nostra vita quotidiana) cose che avrebbero piena cittadinanza in un romanzo di Gore Vidal o di Thomas Pynchon o di Robert Coover o di Kurt Vonnegut. Il censore che vuole proibire il tal libro o mettere al bando il tal giornalista, può darsi lo vada a dire in televisione e proprio a braccetto con una pornostar; può succedere che un partito xenofobo ed omofobo, che vuole legge, ordine, Dio, patria e famiglia, possa magari essere guidato da un leader che, nei suoi comportamenti privati, contraddice quello che propaganda in pubblico; che il derubato, che ammazza a sprangate un ladruncolo, sia stato a sua volta in galera per reati contro il patrimonio; che il politico che parla in difesa della famiglia, ne abbia avute almeno due o tre. Il risultato che ne consegue è quello di una collettività dove le stesse persone che rivendicano un deciso permissivismo privato, chiedono a gran voce che questo venga tutelato da istituzioni sempre più autoritarie. Tutto ciò non è precisamente un modello di logica. E degno di attenzione è poi il fatto che tale stato di cose venga accettato con indifferenza. D’altra parte l’ho già detto prima: chi di noi è senza contraddizioni?
Pertanto non mi scandalizzo affatto e, anzi, trovo tutto questo decisamente molto interessante dal punto di vista letterario. Per parte mia, me ne sto buono buono a guardare. Però rivendicando con forza il mio sacrosanto diritto di registrare quello che succede.

Per quanto riguarda lo stile, si fa prepotente l’iterazione, spesso gustata e riproposta per connotare i singoli personaggi o rimarcare le situazioni in corso. Ti sei rifatto a qualche modello in particolare?
Nella mia vita ho letto e leggo molto. Credo che leggere sia l’unico modo per imparare a scrivere. Un musicista deve esercitarsi tutti i giorni. Analogamente, chi scrive deve leggere almeno un po’ tutti i giorni. Modelli ai quali mi sia rifatto direttamente non ne ho. Tuttavia, fra le tante cose che mi hanno influenzato, posso senz’altro citare il ritmo febbrile e ossessivo di Dostojevski, il disincanto barocco di De Roberto, la lucida sovversione di Dürrenmatt, la sensualità carnale dei personaggi femminili di Nadine Gordimer, l’asciutto voyeurismo di Don De Lillo e la geniale follia sintattica di Henry Miller e di Frédéric Dard.

Nuovi progetti?
Sono molto scaramantico. Parafrasando indegnamente Bartleby lo scrivano, preferirei non dire nulla.

Si legge dietro al tuo libro che sei anche operatore culturale e hai fondato premi letterari quali Tracce di Territorio e Tracce di Territorio – Pubblicare la Storia: in cosa consistono?
Il premio “Tracce di Territorio” esiste dal 2005. Si articola in tre sezioni dedicate alla narrativa, alla saggistica storica e al libro fotografico. La particolarità è che i romanzi, i saggi storici e i libri fotografici che partecipano devono fare riferimento ad una della tante realtà territoriali italiane. Ha due giurie: una è presieduta da Mino Milani e formata da addetti ai lavori, l’altra è formata da studenti delle superiori.
Il premio “Tracce di Territorio- Pubblicare la Storia” è nato l’anno scorso. Ha una giuria formata da docenti universitari di materie storiche e si rivolge agli autori di saggi storici inediti. Il saggio vincitore viene pubblicato da una casa editrice.

Molte grazie per la tua cortesia. Buona fortuna e a presto!
Gloria M. Ghioni

Pagine di insostenibile meraviglia


Titolo: L'insostenibile leggerezza dell'essere
Autore: Milan Kundera
Anno di pubblicazione: 1985
Casa editrice: Adelphi
Pagine: 328
Prezzo: 10,00 €

Partendo da una riflessione su Friedrich Nietzsche e la sua teoria dell'eterno ritorno (l’incipit del romanzo è un vero capolavoro che fonde filosofia e prosa lirica), in questo splendido romanzo del 1985 Milan Kundera crea una dimensione spazio-temporale incerta e ripetitiva. Il narratore ricorre spesso a flashback, sogni e viaggi nel passato con l’intimo approccio, tutto novecentesco, di una Virginia Woolf.

Eterno ritorno, dicevamo. Il narratore – un narratore “forte”, profondo conoscitore dell’animo umano e delicatissimo ritrattista – ci comunica più volte, nel corso del romanzo, quale sarà la fine della storia. Non rimane quindi al lettore neanche una briciola di suspense, di attesa; e neanche di catarsi, poiché l’eterno ritorno non è un cerchio, ma un’ellissi schiacciata dal peso dell’unicità della vita. Come nella Danza di Matisse, ciò che i personaggi - Tomáš, Tereza, Sabina, Franz – descrivono con la loro esistenza non è un cerchio, emblema della perfezione, ma un’ellissi di figure grette e trasfigurate, che paiono nude nella loro danza al cospetto dell'incedere del tempo. Tra Nietzsche e Kundera, difatti, c’è una differenza: per il filosofo tedesco l'eterno ritorno, in prospettiva superomistica, diventa nuova occasione per ribadire l'attaccamento dionisiaco alla terra. Kundera, invece, rimane "dalla parte dell'uomo", che inserito nell'infinita spirale dell'eterno ritorno non riesce a sperimentare altro che la propria limitatezza. "L'uomo,” ci dice Kundera, “vivendo una sola vita, non ha alcuna possibilità di verificare un'ipotesi mediante un esperimento, e perciò non saprà mai se avrebbe dovuto o no dare ascolto al proprio sentimento."

Ma non si tratta nemmeno di un tempo regolare, ma contorto e filato sulla scia dell'Odissea con la differenza che L'insostenibile leggerezza dell'essere è un testo pensato per una lettura raccolta, un tu-per-tu tra narratore e lettore: e del poema omerico, dunque, non riprende i toni forti e teatrali. E la danza, le parole, il pensiero sono tutte ordinate secondo musiche, ritmi, temi che si incrociano e si tessono insieme come in una sonata di Beethoven secondo variazioni non troppo rigide. In questa organizzazione schematica prendono vita le coppie antitetiche Tomàs/Tereza e Sabina/Franz, riassumibili nell’ormai arcinoto contrasto leggero/pesante.

Il rapporto di coppia che si realizza tra individualità antitetiche dà vita a una serie ricchissima di riflessioni. I personaggi sono dichiaratamente frutto dell'immaginazione (Kundera lo sottolinea più volte): non c'è alcuna pretesa di verosimiglianza, ma nonostante questo Tomáš, Tereza, Sabina, Franz sembrano vivere anche al di là del testo. Kundera ci parla del loro passato, ci spiega le loro ossessioni del presente con elementi della loro infanzia, del loro vissuto precedente. E' una grande costruzione illusoria volta alla creazione di figure tridimensionali, che indagano le contraddizioni di fondo della condizione umana, ma sono comunque circondati da un velo di 'letterarietà'. Personaggi letterari, dunque, con una psiche dilatabile all’infinito. Infatti, Kundera ci offre una analisi-psicanalisi dei nostri personaggi: i sogni di Tereza, infatti, sono incredibilmente freudiani, anche se si tratta sempre di un freudismo consapevole, a volte quasi didascalico.

Il finale del romanzo non fa che confermare ciò che Kundera ci aveva detto nell’incipit del romanzo, parlando di Nietzsche e dell’eterno ritorno. La morte di Karenin, la sua eutanasia, non è altro che l'eutanasia della leggerezza, di cui la cagna era diventata il smbolo. Con lei muore il desiderio, l'aspirazione ad una vita che si possa librare in volo. Fuori dal mondo, fuori dagli impegni, fuori dalle mondanità si è solamente aquiloni in balìa del vento.

Come ci ricorda il titolo questa situazione – una situazione metafisica, che si è dimostrata immutabile – è semplicemente insostenibile. Ed ecco il popolo ceco allo sbando alla ricerca del proprio volto in uno specchio sporco di sangue. La pesantezza, l'impegno politico se vogliamo intenderlo alla latina, restituisce un'identità perduta, un'ancora nelle correnti della guerra e dell'odio, in quei tempi difficili; e per quanto la gente vi si opponga con la forza delle braccia a frenare le onde e i venti è solo fatica sprecata, privi di un proprio peso si potrà solo ballare nudi (ossia privi di identità) in un quadro di Matisse: ecco, l'insostenibile leggerezza dell'essere.


Laura Ingallinella & Adriano Morea

Storie che dalla nebbia riemergono chiare


Notte di nebbia in pianura
di Angelo Ricci
Lecce, Manni Editore, 2008

€ 11.00
pp. 118

Potremmo parlare di una raccolta di racconti o, meglio, di storie che si aprono in medias res e in media verba (cioè nel corso dello svolgersi dell’azione e delle parole). Il lettore, per reazione, resta disorientato proprio come se si fosse immerso nella nebbia del titolo, e non può che osservare gli sprazzi di realtà che gli si offrono.
Un esempio? Il lettore fa appena in tempo ad abituarsi all’ansia per i preparativi di un ex-avvocato che è diventato banditore d’aste di quadri di poco valore, quando finisce nel gorgo di parole distorte dagli improperi dell’ubriaco “Sticazzi”. E quando abbandona il turpiloquio, partecipa alla commovente storia di un bonario ragazzone di centoventi chili, orfano di madre. Dopo la sua catena di riflessioni domestiche, ecco il passaggio brusco in un Ufficio Matricola dove si discute del trasferimento di una detenuta, accusata di complicità in atti terroristici. Infine, ci si chiude in una stanza dove amici e soci giocano a poker, mentre le loro compagne russe masticano un faticoso italiano.
Dunque, cinque situazioni totalmente diverse che si avvicendano, dopo essersi interrotte nei momenti di maggiore pathos. Non difficile immaginare che le tante figure tratteggiate perderanno a poco a poco il velo di nebbia che le avvolge, per arrivare a incontrarsi, intrecciarsi o scontrarsi.

Non mi sembra il caso di addentrarmi oltre nella trama, ma è necessario notare che la Giustizia manca, e non mi riferisco solo alla giustizia dei tribunali, ma alla giustizia delle coscienze. Ci sono immigrate russe che cercano la stabilità economica e un riscatto dalla strada, la donna accusata di terrorismo ha in realtà solo consegnato pacchi di cui ignorava il contenuto, per assecondare il compagno, l’ex-avvocato ha abbandonato la professione in seguito a un lavoro poco pulito, i giocatori di poker discutono di riciclo di soldi sporchi. Persino l’inoffensivo e ingenuo orfano finisce per lavorare per una piccola società che gira film porno: niente si salva dal turbine della corruzione, sociale, economica, etica.

Al di là della trama, di per sé già interessante, mi sembra giusto sottolineare che le scelte stilistiche di Angelo Ricci non sono affatto scontate: la narrazione è ritmata da iterazioni martellanti di frasi, dettagli o stralci di dialoghi. Non di rado sono questi a rimarcare il carattere dei singoli personaggi, o l’eccezionalità della situazione. Generalmente, siamo in presenza di una paratassi nervosa, disinteressata a descrizioni tradizionali, ma pronta a ritagliare dettagli e umori. Il risultato è senza dubbio degno di lettura, e per questo non mi resta che rimandare le curiosità all’intervista che Angelo presto ci rilascerà.

GMG

Inès del alma mìa


Inès del alma mìa
di Isabel Allende
Milano, Feltrinelli, 2006


Le “Cronache del regno del Cile”, lo “Studio sulla conquista dell’America”, “Conquistatori spagnoli del secolo XVI”, “Gli araucani”, “Mapuche, gente della terra”, “Pedro de Valdivia, capitano conquistato” sono solo alcune del carico di opere utilizzate da Isabel Allende come fonti bibliografiche per la storia della sua eroina: Inès Suarez. Questa figura, avvolta nella patina dorata della legenda, fu, nella realtà storica, una sarta spagnola, abile cuoca di “empanadas” ed “infermiera” che, partecipando alla conquista del Cile nel 1537, fondò, assieme a pochi altri soldati al servizio di Carlo V, la città di Santiago.
In questo diario, scritto in prima persona dall’anziana Inès sotto forma di confidenza alla figlia adottiva, Isabel, (l’omonimia della ragazza con la scrittrice del libro crea l’effetto di una confessione diretta dal personaggio all’autore legando con un filo sottile due donne al di là dei secoli), la verità storica è inscindibile dal mito ed intervallata dalle strofe del poeta Alonso de Ercilla, il quale esalta le conquiste castigliane a discapito delle popolazioni autoctone, e dalle illustrazioni tratte dal poema epico “La Araucana”.
Ad occupare una parte consistente dei capitoli più cruenti sono le descrizioni di tattica militare e balistica e le riflessioni sul confronto impari tra l’esercito munito di cavalli, spade, archibugi, cannoni di una delle più ricche tra le monarchie europee del 1500 e le schiere ben disciplinate, numerose come sciami di insetti, di aborigeni preparati alla morte ma non alle malattie diffuse dall’arrivo dei conquistatori, all’infingardaggine di chi infrange il codice di guerra venendo meno alla parola data, alla viltà delle incursioni nei villaggi al fine di violentare le donne e schiavizzare i bambini costringendoli al lavoro estenuante nelle miniere d’argento. A scrivere la cronaca delle violenze inutili che impregnano la terra del sangue di entrambe le parti è proprio Inès che, pur tentando di apprendere la lingua mapudungu sa che intendersi con i mapuche “è una fantasia, non ci intenderemo mai, sono troppi i rancori accumulati”.
L’immagine di Inès è quella dell’ amante passionale, della semplice e pratica donna del popolo ritenuta astuta manovratrice politica da chi la vede assurgere alla carica di “gobernadora” a fianco del conquistador Pedro de Valdivia. E per il popolo mapuche, che nulla sa della sua complicità con una principessa inca o della sua disponibilità ad accogliere in casa propria il futuro nemico Lautaro, è una crudele cacciatrice di teste, una “bruja”, (“strega”), spietata e disumana. Per il clero degli anni dell’Inquisizione è motivo di scandalo; per i soldati ed i poveri chi cura le loro ferite e provvede che le scorte di cibo siano sufficienti alla sopravvivenza anche durante la carestia degli “anni tragici” (1543- 1549). E per Valdivia? Inès, come già altre eroine dei romanzi dell’ Allende, sembra disincarnarsi nella relazione col guerriero spagnolo per diventare la proiezione del suo spirito: “la sua stella si è levata quando mi ha conosciuto ed ha cominciato a declinare quando si è separato da me” ripete Inès non credendo alle parole della sua confidente, Cecilia. E alla morte di Pedro, lontano da Santiago, anche Inès, come per empatia, è indebolita dalla malattia… e nel delirio della febbre ode distintamente il grido di Pedro de Valdivia nel suo ultimo congedo: “Adiòs Inès del alma mìa…”.

Esposto Ultimo Eva Maria

La giornata d'uno scrutatore


La giornata d'uno scrutatore
di Italo Calvino

Prima edizione: 1963


In un’ intervista sul “Corriere della sera” del 10 marzo 1963 I. Calvino parla di un “groppo lirico- morale” che va formandosi ed imponendosi nella mente e nella coscienza di ogni scrittore costituendo una sorta di filtro, “ciò che decide, nel mare delle cose che si possono scrivere, quelle che è impossibile non scrivere”.
“La giornata d’ uno scrutatore” è un racconto di riflessioni più che di fatti e prende spunto dall’ esperienza autobiografica dell’autore incaricato di scrutinio al Cottolengo durante le elezioni del 1961.
Il racconto si carica di valenze universali mentre il pensiero del protagonista si dilata superando gli angusti confini delle cabine elettorali, dietro la cui asetticità si cela la democrazia; confini asfittici di corsie d’ ospedale, di sale gremite di storpi e dementi, accuditi da monache avvolte nel loro “alone di santità” ed a cui lo scrutatore comunista vorrebbe parlare di una società non ultraterrena in cui “vivere per uno scopo universale sarebbe stato più naturale che vivere per qualsiasi scopo particolare”.
L’unità “classica” di tempo, spazio ed azione si sfrangia in una molteplicità di pensieri utili a controbilanciare l’horror vacui da cui Amerigo Ormea viene assalito riflettendo sulla possibilità di un disastro atomico capace di cancellare la Bellezza dal nostro pianeta. Ma i giovani ebeti e malformati che gli stanno intorno non sanno di essere “diversi”… e se anche noi che ci reputiamo “normali” fossimo gli inconsapevoli storpi discendenti da una specie superiore? Se fossimo l’unica evoluzione possibile di una razza scampata ad un disastro apocalittico?
La fantascienza si mescola qui ad interrogativi etici, politici e filosofici perché se Amerigo arrivando al Cottolengo si chiede se sia giusto concedere il diritto di voto a persone a mala pena in grado di intendere e di volere, di esprimere una volontà politica, alla fine della giornata la domanda non avrà più significato. Le domande più assillanti diventano altre: “è più caritatevole far vivere o lasciar morire?”, “fino a dove un essere umano può dirsi umano?” ed ancora, dopo la telefonata della compagna- personificazione della Bellezza, cosa significa procreazione responsabile? Può un deciso sostenitore del birth- control accettare un figlio concepito per errore?
Una risposta per tutte Amerigo la formula osservando un contadino accanto al figlio idiota: il primo gli sguscia delle mandorle, il secondo lo ricambia sorridendo… “Ecco, pensò Amerigo, quei due così come sono, sono reciprocamente necessari. E pensò: ecco, questo modo d’essere è l’amore. E poi: l’ umano arriva dove arriva l’amore; non ha confini se non quelli che gli diamo”.

Esposto Ultimo Eva Maria

Il Salotto: intervista a Omar Gamba

Ciao Omar,
grazie per questa nostra chiacchierata virtuale. Vediamo di approfondire qualche aspetto della tua opera, I Mascalzoni, e di lasciarci andare a qualche curiosità tra amici letterati.



Come è nata l’idea di ambientare il libro a Cantù?Cantù è la città dove vivo, dove sono cresciuto, dove ho avuto le mie prime esperienze amorose, la città che più amo (al pari di Como). A Cantù ho conosciuto la vita di strada e per questo ho avuto modo di prender spunto per il titolo del romanzo. Nonostante questo tengo a ribadire che in quanto a ordine e brave persone, Cantù è una città modello.

Scrivi in apertura che è tutto frutto di fantasia: neanche un fatto di cronaca o un racconto di amici ha aiutato la storia a nascere?
La storia nasce da vari spunti, la mia vita in strada è uno spunto, il mondo dell’alta finanza che per me è assolutamente marcio è un altro spunto. Effettivamente gli spunti sono reali ma la storia è frutto della mia fantasia. Ho un pallino però, un’utopia che è quella di poter svelare i retroscena di ciò che sta dietro al denaro e il potere, per questo la seconda metà del libro ha questo risvolto.

Come consideri la figura del Grosso: è portavoce delle cattiverie che hai già trovato in letteratura o nella cronaca, o è un unicum davvero solo narrativo?
Il Grosso è la sagoma che abbiamo davanti tutti i giorni e che ci fa venir rabbia solo a guardarlo. A però un lato onesto: Melissa.

E la dolce Melissa? È spettatrice incredula o davvero ingenua davanti ai crimini del compagno?
Melissa è la ragazza dei miei sogni e l’ho inserita per un mio scrupolo rendendo un po’ inverosimile la storia d’amore tra lui e lei. Come si suol dire “a fianco di un grande uomo c’è sempre una grande donna”. Melissa è innamorata ciecamente del Grosso.

Ho più volte sottolineato nella mia recensione che il tema sociale è decisamente padrone della narrazione: trovi che la letteratura abbia anche al giorno d’oggi un compito di denuncia? E, soprattutto, come si pone Omar davanti alla cronaca desolante che ascoltiamo giornalmente in tv?
La letteratura deve esser concepita dall’ispirazione dell’autore e non mancheranno di certo scrittori che denunciano i fatti di cronaca nei loro libri. La tv non la guardo neanche più, è solo uno spettacolo macabro che non vale la pena di osservare. Purtroppo non è solo spettacolo ma anche realtà, quindi si diventa più guardinghi, si ha paura ma si ha anche l’occasione di difendersi e reagire a questi fatti.

Credi che la letteratura possa riscoprire addirittura una funzione didascalica?
Sicuramente si, spesso abbiamo già tutto sotto agli occhi, non resta che descrivere.

Visto che ci siamo conosciuti a Belgioioso, in occasione della mostra Parole nel tempo, qual è il tuo rapporto con le fiere librarie?
Era la prima volta che ne vedevo una, devo dire che è stata però un’esperienza magnifica ed utile. Mi ha aiutato a capire quanta mole di libri vengano pubblicati e anche quante persone amino gli stessi libri.

Bene, domanda di rito che rivolgo a tutti i nostri autori: hai un nuovo romanzo in fase d’elaborazione? Vuoi anticiparci qualcosa?
Ho più di un lavoro nel cassetto, però non voglio anticipare nulla.

Che cosa vuoi aggiungere?
Voglio ringraziare Gloria per il suo lavoro e per l’occasione che mi ha dato per esprimermi ancora una volta. Purtroppo alcune situazioni provocano ingiuste discriminazioni.

Grazie mille per la collaborazione, e a presto. Buona fortuna.
Gloria M. Ghioni

Da mascalzoni a veri e propri criminali


I mascalzoni
di Omar Gamba
Gerenzano, Runde Taarn, 2008

pp. 139
€ 12.00
ISBN: 978-88-6120-063-0

Non è casuale che il libro si apra con l'epigrafe: Contro ogni ingiusta discriminazione. Omar Gamba, giovanissimo autore, tenta qui con la sua seconda pubblicazione di raccontare una storia amara, iniziata con un fenomeno di bullismo giovanile, poi sfociato in episodi di vero e proprio stampo mafioso. Il pluri-bocciato Piero Grazioli (o anzi, Grazioli Piero, come scrive l'autore, riprendendo l'abitudine scolastica di anteporre il cognome) approfitta della propria stazza fisica e del suo carisma sui più deboli per creare la gang dei Mascalzoni, prima impensabile nella zona della tranquilla Cantù. Il suo ruolo di leader viene prepotentemente riaffermato attraverso angherie verso gli indifesi, come l'occhialuto compagno di classe Massimiliano, e addirittura verso il padre di Massimiliano. Lentamente, anche l'assistente sociale, dott. Rossi, assiste al progressivo potenziamento del Grazioli, soprannominato il Grosso, e ogni tentativo di ridimensionarlo si rivela inutile. Solo l'amore per una ragazzina, Melissa, sembra creare un dissesto nel cuore del Grosso, ma non riduce i suoi atti vandalici. Non è dunque impossibile immaginare che, dopo poco tempo, i ragazzi si trasformino in elementi sempre più pericolosi, entrando chi nel giro della droga, chi nel dramma della prostituzione.

I deboli, sempre, soccombono, sembra suggerire Omar Gamba, con un'amarezza che traspare spesso dalla sua prosa. Perché, in fondo, è proprio l'autore a stringere con forza la storia tra le mani e a come distribuirla, come un cantastorie d'altri tempi, che seleziona liberamente quanto e cosa raccontare, quanto tempo far passare, quali cambiamenti registrare.

Si ha molto spesso l'impressione che la storia stia tanto a cuore all'autore, da scivolare via, portando un po' di inverosimiglianza nei dialoghi (troppi termini retrò in bocca ai ragazzotti della banda, nonché passaggi un po' stentati). Ma non è questo, a mio parere, un problema invalidante: ci sono libri che nascono per lo stile, altri che nascono per il contenuto. E, sebbene la perfezione derivi dal pacifico connubio di entrambe le componenti, un libro come questo (opera giovanile, non dimentichiamolo!) si fa carico con grande maturità di uno scottante tema sociale. Il lettore arriva infatti a parteggiare senza mezzi termini per la giustizia, a sperare che il Grosso venga fermato e che la sua facciata pubblica di imprenditore immobiliare venga disgregata, per mostrare tutti i suoi traffici loschi. Eppure... Eppure anche l'autore sembra scuotere la testa davanti ai tanti veli della società, ai sotterfugi del Grosso, ormai quasi intoccabile. E il tutto conduce a una fine davvero inaspettata.

Sarà dunque interessante avere dallo stesso Omar alcuni chiarimenti e curiosità: per questo, aspettate la nostra prossima intervista!

Gloria M. Ghioni