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“I bambini sardi non piangono mai”: una scrittura alla ricerca della libertà

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I bambini sardi non piangono mai
di Gesuino Némus
Elliot, 2016

pp 192
€ 17,50 (cartaceo)





Mentre i fermenti indipendentisti trovano nuovo vigore in giro per il continente, Matteo Locci, in arte Gesuino Nemus, ha voluto affrontare il tema parlando della sua isola natale: la Sardegna. Nemus aveva stupito positivamente, ma forse non convinto, con il pluripremiato La filosofia del cinghiale (la recensione qui): ora, con I bambini sardi non piangono mai, stupore e convinzione aumentano. Se l’esordio era costruito con quella curata e cauta scrittura un po’ espressiva un po’ puramente narrativa, la seconda opera evidenzia il superamento di alcune barriere di etichetta romanzesca. Il divertimento dello scrittore si percepisce ed è anche contagioso: cambi di prospettiva, affabulazione estrosa, ironia e umorismo mescolati a ragionamenti seri ora sono più liberi. Un romanzo dall’esordio tradizionale che lentamente diventa un gioco pirotecnico, capace forse di superare il semplice racconto di una storia.

Il libro è un azzardo: eclettico nello stile, con molti piani e tempi della narrazione, molto godibile ma con un tema storico e politico impegnativo. La struttura è l’elemento più rischioso: le vicende del presente e del passato si accostano; il punto di vista è sfuggente e passa spesso – soprattutto all’inizio – da una classica terza persona ad una prima di un testimone diretto, per poi trasformarsi, nella conclusione, in un narratore onnisciente; infine, con lo sviluppo del racconto, si fa sempre più rilevante la nota metaletteraria. Una matassa però che non si ingarbuglia mai fino all’inestricabile, ma che si complica gradualmente con il procedere delle pagine evitando di spezzare il famoso patto con il lettore. Il tema dell’indipendentismo, inoltre, è davvero poco o nulla battuto in precedenza, ma non certo privo di sensibilità ed è per questo che si presentano ulteriori insidie: il tono potrebbe sminuirlo e il titolo potrebbe essere frainteso, per non dire del pericolo di annoiare. Eppure proprio la trama, che sembrava così controversa nel primo romanzo, qui aiuta a tenere desta la curiosità e svelare le tensioni e il rimosso di una segreta fantasia mai seriamente perseguita.

Siamo di nuovo a Televras – il paesino della Filosofia del cinghiale – dove, al ritrovamento del corpo di un uomo ucciso da una fucilata in faccia, fa seguito quello di uno scheletro in un grotta: una concatenazione che sembra casuale, ma che invece mostrerà lentamente tutti i legami con vecchie faccende isolane. Sulle due morti misteriose indagherà il capitano dei Carabinieri, di origini settentrionali, Marino Terevazzi, che eviterà i facili stereotipi della vendetta e del rapimento finito in tragedia, dando subito prova di acume e apertura mentale valutando i dettagli e ascoltando i racconti a prima vista meno affidabili. Terevazzi inoltre si pone come unico teorico indipendentista del romanzo: i militanti sono entità sibilline, mentre gli altri sardi snobbano queste idee o ne parlano confusamente e con imbarazzo. Il capitano invece riconosce specificità e possibilità del territorio, e ne ammette le caratteristiche storiche e politiche. Potrebbe sembrare un assurdo, e invece è l’opposto, perché mostra un meccanismo molto diffuso in Sardegna: gli isolani riconoscono la propria particolarità, con un forte orgoglio identitario, che però non si concretizza neanche in un buon governo autonomistico; chi invece viene da oltre mare si rende conto che questo potrebbe far scaturire persino una lecita aspirazione all’autodeterminazione.

I bambini sardi non piangono mai è un libro più riuscito e più sciolto rispetto alla prova d’esordio. Per certi versi più appassionante e concreto e di certo più estroso. Capace di parlare di un argomento in parte tabù, con ironia e autocritica, dove anche lo scrittore abbandona la pura finzione lanciandosi in un gioco di specchi e prese in giro di sé stesso. C’è da chiedersi se alcuni elementi siano puramente incidentali: c’è una correlazione tra questo moto di liberazione stilistica e l’indipendentismo? L’uso della metaletteratura ha qualcosa a che fare con la narrazione di un intero popolo? Il cambio di punto di vista, fino ad arrivare ad un autore totalmente padrone del racconto, è esclusivamente un vezzo tecnico? Non mi sento di poter dare una risposta definitiva, ma già il dubbio è un segno che oltre ad una bella storia potrebbe esserci qualcosa di più.

Gabriele Tanda