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#CriticaNera - La verità della sofferenza: dialogo con Alessandro Bastasi

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Alessandro Bastasi, veneto di nascita e milanese di adozione, mi "accoglie" nella sua quotidianità un pomeriggio d'inizio primavera. La distanza Barcellona-Milano viene magistralmente colmata da Skype, che ci regala l'illusione di stare nella stessa stanza. Con Alessandro condividiamo l'editore e forse per questo l'atmosfera è quella di una chiacchierata informale tra colleghi. Autore di diversi romanzi noir e racconti, con un passato di attore teatrale, Bastasi è in libreria da qualche mese con Morte a S. Siro, seconda pubblicazione personale per i tipi della F.lli Frilli Editori, che atterra negli scaffali italiani a un anno circa di distanza da Era la Milano da bere (F.lli Frilli Ed., 2016).




Alessio Piras: Parto dalla recensione di Satisfiction, dove di Morte a S. Siro dicono che è «metafora dei misfatti italiani». Sono d’accordo, è vero, ma secondo me era più vero per Era la Milano da bere, che ho trovato più cattivo, più crudo, più noir di Morte a S. Siro.
Alessandro Bastasi: In effetti Era la Milano da bere è una fotografia di quella che io vedevo essere l’Italia di due, tre anni fa e che in gran parte tutt’ora continua ad essere. Morte a S. Siro invece è un’altra cosa: il romanzo viene da molti considerato come un noir sociale, un noir che vuole raccontare soprattutto la realtà di una città, e più in generale della società, ma questo è solo un aspetto. Da un altro punto di vista, Morte a S. Siro è il processo a una generazione, la mia. Voglio dire, Morte a S. Siro, racconta il cambiamento di Milano da città industriale a città di servizi, finanziaria, multietnica, a fronte del quale persone della mia generazione, come il protagonista, Guido Barbieri, uomo di sinistra, si trovano improvvisamente spiazzate, essendo rimaste ancorate a modelli interpretativi che non hanno più un’aderenza a quello che è stato il divenire dei rapporti di classe, chiamiamoli ancora così se vogliamo e se ha ancora senso parlarne. E quindi, diciamo, uno dei focus su cui ho voluto concentrarmi era proprio questo: il dilemma personale di un uomo di 68 anni che ha fatto il ’68 e che si trova di fronte una figlia cui evidentemente non ha trasmesso, forse perché non era possibile trasmetterlo, quel pathos per cui tutto è politico e niente privato; Laura Barbieri è di una generazione di mezzo: da un lato è stata bombardata dai messaggi di questi padri, dall’altra vede che i ventenni, i millenials, i nativi digitali, hanno la “fortuna” di non subire la presenza così pressante e potente di padri ex sessantottini. Questo è uno dei temi su cui volevo riflettere e sul quale mi piacerebbe che chi legge si soffermasse un attimo.

AP: Diciamo che quello che si genera tra padre e figlia, tra Guido e Laura, è uno scontro generazionale. È un po’ lo stesso forse che si generò negli anni ’60, portando poi al ’68, tra la generazione che aveva vissuto le pene della guerra e quella che era nata subito dopo la fine del conflitto. Ecco, io vedo dei parallelismi tra la Milano degli anni ’60 e quella contemporanea: lo scontro generazionale, una società in cambiamento, un città che sta cambiando, per motivi e verso mete diverse. La Milano degli anni ’60 è la Milano del boom economico, quella del 2015 è una Milano molto diversa, ma rimane una città che cambia costantemente. Un parallelismo, quello dello scontro generazionale, che era già presente anche in Era la Milano da bere, e che quindi ritorna nei tuoi ultimi romanzi.
AB: Sì, certo, anche se qui è visto da un altro punto di vista, più approfondito nelle sue tematiche specifiche: il bisogno d’amore che c’è in una società come la nostra. In fondo questo è un romanzo d’amore; qualcuno l’ha notato e mi ha fatto piacere. Non sto parlando dell’amore classico, come quello tra Laura e il commissario Ferrazza, ma dell’amore in generale, l’amore per l’altro, l’amore per le persone che incontri, contrapposto tutto sommato all’egoismo tipico di chi un tempo vedeva la realtà soltanto da un punto di vista politico, non considerando l’aspetto del singolo, l’aspetto umano, il sentimento. Questo quindi è anche un romanzo di sentimenti, di ricerca d’amore. Guido alla fine cerca proprio questo, quando dice a Laura che lei e il nipote, Michele, sono la sua gioia e la sua energia. Lo riconosce però alla fine, dopo che nel corso del romanzo ha affrontato una fase di passaggio importante: trovandosi improvvisamente in pensione, quindi privo di una vita lavorativa che era un po’ la sua identità, ora deve ritrovare un senso alla sua esistenza, soprattutto in un momento nel quale teme di perdere anche la sua autonomia fisica, a causa del dolore al ginocchio, e sente avvicinarsi l’ora della morte. È un romanzo di sentimenti non detti, il cui bisogno traspare dalla scrittura, dal ritmo lento del tempo che passa, dalla minuzia dei particolari. È per questo che ho inserito all’inizio la citazione di Erri De Luca che dice: “Fai come il lanciatore di coltelli, che tira intorno al corpo. Scrivi di amore senza nominarlo, la precisione sta nell’evitare”. Cioè non parlarne direttamente, ma cerca di disegnarne il contorno, ed è quello che ho cercato di fare. Ho parlato d’amore senza infilarcelo dentro: è il lettore che alla fine vede il contorno e capisce che in questo romanzo uno dei temi è proprio l’amore.

AP: Anche se io credo che in pochi lo riescano a cogliere perché come dici bene tu questa non è una storia d’amore, non è l’amore come siamo abituati a vederlo noi in narrativa, al cinema, in generale. Come ben dici ci giri intorno e forse girandoci intorno ne mostri l’essenza più profonda, più intima. Oltre alla citazione di De Luca, dedichi questo libro a tua moglie Laura, a cui dai tra l’altro il nome del personaggio principale. È bello che il noir, la letteratura criminale, sfondi la porta di questo campo in maniera originale, come lo fai tu, senza mostrare l’amore violento e passionale, ma neanche quello sdolcinato e ultra romantico del genere rosa, per intenderci.
La Milano degli anni ’60 in cui Guido era un ragazzo impegnato politicamente è la stessa Milano degli anni ’60 del grande maestro Scerbanenco. Ho notato qualche analogia, ho rivisto un po’ di Scerbanenco in questo tuo libro e, nonostante le differenze tra i due testi, ho ripensato a Venere Privata, la prima indagine di Dante Lamberti, con questa bellezza femminile strabordante. Scerbanenco è un punto di riferimento?
AB: Ma, guarda, non lo so. A me piace molto Scerbanenco, ma così come mi piacciono Chandler o Massimo Carlotto. Sicuramente a livello inconscio ho pescato un po’ dagli autori che amo, e non sono solo questi tre, anche se non vi è un riferimento preciso e consapevole a qualcuno di ben identificato.

AP: È innegabile, però, che la tua Milano contemporanea, che descrivi qui e in Era la Milano da bere, assomiglia ed è in parallelo con la Milano degli anni ’60 un po’ truce di Scerbanenco.
AB: Sì, è così. Adesso che me lo dici, hai ragione, c’è effettivamente qualcosa di Scerbanenco e della sua Milano anni ‘60, e la cosa mi gratifica.

AP: Una cosa mi ha colpito e colpisce il lettore a mio avviso, ed è la centralità della televisione. L’inchiesta giornalistica, di una giornalista televisiva, si sostituisce a quella poliziesca perché pare che la polizia non abbia tempo da dedicare a questo caso.
AB: Sì, questo infatti, dopo l’aspetto sociale e il conflitto generazionale, è il terzo filone del romanzo. Ho voluto portare un po’ all’eccesso quella che è la spettacolarizzazione della giustizia alla Bruno Vespa, che ti fa i modellini della casa in cui avviene il delitto e sembra che sia lui a dover indagare per trovare sia l’assassino sia il movente. Se questo è l’andazzo, allora perché non raccontarlo? Nel romanzo la polizia non ha né il tempo né le risorse per affrontare un caso di cinquant’anni fa, e si mette in moto solo nel momento in cui avviene un nuovo delitto, ma prima del commissario Ferrazza a risolvere il caso arriva Guido Barbieri e arriva soprattutto la televisione. C’è quindi un motivo preciso per cui ho voluto che l’omicida confessasse la propria colpevolezza di fronte a una telecamera, ed è denunciare il ruolo, e nel contempo l’ambiguità, del mezzo televisivo. È l’omicida stesso che lo dice: chissà in quale modo distorto la vicenda sarebbe stata raccontata dagli stessi media - attraverso i quali sta confessando in diretta, raggiungendo un vastissimo uditorio – se la confessione fosse avvenuta al chiuso, nelle stanze di un commissariato? Mettendo così in evidenza una duplice caratteristica del mezzo televisivo: da un lato strumento per metterti in contatto in maniera populista (passami il termine) direttamente con l’opinione pubblica, dall’altro uno strumento per manipolare la verità in funzione di esigenze mediatiche o d’interessi altri.

AP: Credo anche che sia la prima volta che un noir si risolve in televisione, che si spettacolarizza il finale di un poliziesco, credo che arrivi per primo. La cosa curiosa di questa tua operazione che hai definito un portare all’estremo è che sembra pure verosimile. Alla fine, leggendo la scena e il capitolo dello show, si ha l’impressione che questa roba possa succedere, non è campata in aria. Come lettore non si percepisce questo estremismo.
AB: Possiamo dire che questo è un elemento dell’analisi sociale contenuta nel romanzo. In fondo il ruolo della televisione, la trasformazione della società dagli anni ’60 in poi, la conflittualità tra generazioni, eccetera, sono tutti aspetti per i quali alcuni parlano di Morte a S. Siro come di un vero e proprio noir sociale.

AP: Ciò che mi colpisce dei tuoi libri e di te come scrittore è che, a differenza di molti autori noir, tra i quali il sottoscritto, è che non costruisci serie: non prendi un commissario e lo fai lavorare come un mulo cinquant’anni su casi intricati trasformandolo in un sociologo, gastronomo e donnaiolo. Non affezioni il lettore a un personaggio o a un gruppo di personaggi.
AB: Hai ragione, anche se il mio, anzi il nostro, editore gradirebbe che io costruissi una serie ad esempio inserendo personaggi di Morte a S. Siro anche nei prossimi romanzi.

AP: Ti prego non farlo. È una preghiera da lettore, perché è bello che i personaggi vivano lo spazio di un romanzo.
AB: Il mio timore, in realtà, è che non so se sarei capace di reggere un personaggio seriale, come lo sono invece altri autori. Vedremo…

AP: Anche perché i tuoi personaggi sono molto completi. Un Guido ci ha detto quasi tutto. Hai un modo di caratterizzare i personaggi che dà loro una forma completa e finita. Sinceramente non so che altro possa aggiungere Guido Barbieri.
AB: In realtà un personaggio che potrebbe ricomparire è il commissario Ferrazza, perché qui, in Morte a S. Siro, poverino, è poco più di una comparsa. Chissà se il vero Daniele Ferrazza, il mio amico giornalista di Treviso che mi presenterà alla libreria Feltrinelli della città veneta il 14 di aprile, sarà rimasto entusiasta di come tratto nel romanzo il personaggio che porta il suo nome. Glielo chiederò. Sì, Daniele Ferrazza è un personaggio che può crescere.

AP: Nonostante non sia presente la serialità, vi sono almeno due tipologie di personaggi che ritornano. Per esempio Pozzi in Morte a S. Siro e Gerosa in Era la Milano da bere; oppure Laura in quest’ultimo e Cristina nel precedente. Nomi e storie diverse, ma il tipo, il modello è lo stesso. E a me pare che ti piaccia ritornare su certe personalità.
AB: Hai colto un punto importante. In fondo, come penso capiti un po’ a tutti gli autori, tendo a scrivere sempre lo stesso libro. È come vedere la stessa cosa da punti di vista diversi. Un effetto voluto. D’altronde sono tanti gli aspetti da scandagliare di questa nostra società, no?

AP: Anche se focalizzi su Milano, mi pare che quella milanese diventi una società paradigma, una lente che puntata sul sistema Italia.
AB: Sì, l’obiettivo era proprio quello. Ho scelto Milano come ambientazione non solo perché la conosco bene, ma anche perché è l’emblema, è l’icona di questa Italia. Pensa che nella prima versione avevo ambientato questo romanzo a Treviso, la mia città natale. Poi ho pensato che ne stava uscendo un ritratto limitato alle peculiarità della provincia veneta, senza una prospettiva più ampia, tale da costituire un paradigma più generale. E l’ho completamente riscritto.

AP: Ritornando alla questione della serialità. Cosa ne pensi?
AB: Come ti dicevo bisogna saperla reggere, riuscire a far crescere un personaggio romanzo dopo romanzo senza essere ripetitivi. E non è facile, non so se saprei farlo così bene come altri colleghi (non tutti, eh?). Ci penserò. Ci possono essere ragioni editoriali cui andare incontro, a patto però di non scendere a compromessi con la scrittura, lo stile e i contenuti che voglio veicolare attraverso le trame dei miei romanzi.

AP: A pagina 272 scrivi una frase che riassume e va al cuore della questione narrativa noir: «La verità è sofferenza». In questa frase c’è tutto perché la narrativa criminale scandaglia le piaghe più dolorose dell’animo umano, ma poi molti investigatori, tra cui Guido, sono ossessionati dalla verità, cosa che fa passare in secondo piano la cattura vera e propria.
AB: Questo è chiaramente il cuore del noir contemporaneo e non solo dei miei romanzi. Per ciò che mi riguarda da La gabbia criminale, Città contro e via salendo è presente dappertutto. Anche perché, come giustamente dici, è questo che lo differenzia dal giallo, un genere che racconta la rottura di un ordine sociale (l’omicidio, un bubbone su una società comunque sana) e fa in modo, attraverso l’indagine, che questa rottura si sani e si ritorni all’ordine. Nel noir no, non esiste l’ordine, esiste solo disordine, sofferenza, la distinzione tra colpevoli e innocenti, se c’è, è molto labile. Anche in Morte a S. Siro l’omicida è sì colpevole sul piano della giustizia dei tribunali, certo, ma è anche in qualche modo innocente, tanti sono i “colpevoli”, è colpevole anche Guido, nella sua sindrome dell’onnipotenza, nella sua presunzione di dover risolvere lui i mali del mondo. Non ci sono buoni e cattivi, c’è disordine e il noir scandaglia questo disordine doloroso.

AP: Ho notato, infine, la centralità della politica. Guido era un militante di Lotta Continua e in Era la Milano da bere Gerosa, pur non essendo politicamente impegnato, finisce con l’unirsi a un gruppo di estrema destra. Ecco la politica: la mantieni a margine.
AB: È come per l’amore. Non voglio scrivere un romanzo in cui racconto direttamente la politica, in cui quindi espongo direttamente idee politiche. Parlo di politica, però sempre al contorno. Raccontando situazioni, ambienti, ricordi, dialoghi. E tutti insieme questi elementi dovrebbero far percepire al lettore temi politici molto concreti sui quali non mi voglio esprimere ma che pongo come problemi. In Era la Milano da bere, per esempio, ponevo la questione di tutte quelle persone che perdono il lavoro e che, in assenza di una sinistra forte, diventano oggetto di conquista da parte di una destra che parla loro di immigrati che “portano via il lavoro”, delle colpe dell’Euro e dell’Europa. Ma l’ho fatto “al contorno”, il cuore della questione dovrebbe scaturire dalla struttura narrativa e dalla scrittura.

AP: In tutto ciò rimani sullo schema destra/sinistra. Non entra quello che è, se vogliamo molto schematicamente, l’antipolitica.
AB: Secondo me in Morte a S. Siro si parla di destra/sinistra in una visione legata al passato, quando aveva un senso legato a paradigmi ben precisi. In realtà, se ci pensi bene, un cenno a delle fiamme di novità che prescindono dal binomio destra/sinistra traspare da un dialogo tra Guido e sua figlia, quando questa dice al padre che avere speranza nel futuro non ha alcun senso, perché siamo in un “periodo cambriano”. Ah, per capire cosa intendo per “periodo cambriano” dovete però leggere il romanzo. Quello è uno spunto tra l’altro che mi sta dando materia per il mio prossimo lavoro.

AP: Prossimo romanzo che…
AB: …che?

AP: Che stai scrivendo? Che stai pensando? Che!
AB: Adesso l’ho impostato, e il tema è proprio questo: la messa in discussione del binomio destra/sinistra. E lo faccio attraverso l’espediente del doppio. Hai presente La donna che visse due volte di Hitchcock, vero? Ecco, non dico altro.