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Pillole d'Autore: La poesia "ancestrale" di Goliarda Sapienza

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Le poesie di Goliarda Sapienza, rimaste inedite per oltre sessant’anni, sono state pubblicate di recente in un volumetto dal titolo particolarmente evocativo, Ancestrale (La vita felice, 2013). La raccolta – composta di versi “privati”, che la scrittrice siciliana fece leggere negli anni agli amici senza però progettarne mai la pubblicazione – si apre con dei versi che non si svolgono nel teatro riarso di Goliarda, ma, si direbbe, in una pittura vascolare. L’io lirico, in questi versi d’apertura, invita il compagno Aiace a giocare ancora a dadi nell’attesa che l’assedio finisca: l’intera raccolta potrebbe leggersi proprio come un gioco a dadi, in cui ricorrono e si rincorrono motivi che a loro volta s’intrecciano tra loro, e rimandano senz’altro alle altre prove letterarie di Goliarda, prima fra tutte L’arte della gioia. L'esempio più pregnante, a mio avviso, è il legame tra il tema della violazione del corpo (il proprio, quello altrui) e quello dell’opposizione tra dentro (lo spazio uterino) e fuori (lo spazio dell’ignoto, della mutilazione), declinato in modo vario e sottile, che si materializza con insistenza nel motivo dell’«uscio» e della «soglia». L’ancestralità della poesia di Goliarda Sapienza s’inscrive proprio in questa semplicità fatta di emblemi e ritualità tematiche, svolti in una sintassi minima, che si concede piccole stravaganze solo nell’uso dei segni interpuntivi o, tutt’al più, in un paio di dativi etici (il ricorrente «mi muore»). Pare, nei versi migliori, d’imbattersi in una Saffo bruciata dal sole di Sicilia.

Assediati giochiamo ai dati
assediati posiamo le armi
e aspettiamo
L'assedio finirà
giochiamo Aiace
l'assedio finirà



Ti lascerò andare
solo quando
vedrò le tue mani
mozzate nel mio grembo


Non scherzare di notte fuori dall’uscio
il vento di scirocco porta profumo
di zagara e di mosto, fa cadere
le ragazze ferendole alle cosce.
E il sentore di mosto spiaccicato
sulle carni richiama cento cani
Cento cani ti mordono se cadi
e una cagna sarai sola additata.


Cadendo sulla soglia della tua porta
in ginocchio rimasi
coi polsi recisi


Porto in me morta una pena
e puntuale il sole morde
la calce lungo il muro
E puntuale
la lucertola torna alla mia soglia


La muffa del silenzio germina ombre
fra i tuoi e i miei capelli.
Schiude i tuoi polsi
al buio delle mie palme. Alla finestra
la notte gira su cardini di stelle.


Un'altra fiaba
I corpi disseccati dei defunti
s'aggirano intorno a noi. Nelle sere 
ci camminano a fianco per la strada
si piegano su noi quando leggiamo
ci guardano da lontano se parliamo 
con l'amica, sedute fuori dall'uscio.
Hai paura del loro
sguardo d'un tempo?
Anch'io ho paura ma temo 
anche di respirare nel sonno
per non disperdere
all'aria la carta velina dei loro
visi intenti al nostro sostare
fra l'alba e il giorno di questa
ora carnale.

introduzione e selezione a cura di Laura Ingallinella