"L'era del figliarcato" di Ysra: un ritratto della Corea del Sud contemporanea, e non solo

L'era del figliarcato
di Ysra
edizioni e/o, ottobre 2025

Traduzione di Rosanna de Iudicibus

pp. 237
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

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L’era del figliarcato è un libro concreto e astratto al tempo stesso. Una storia vera e socialmente collocata in un qui e ora, ma allo stesso tempo un romanzo che si divora gustandone ogni pagina, finché non ti accorgi che si è sistemato dentro di te come un ricordo familiare che non avevi ancora vissuto. Ed è forse questo che più mi interessa della letteratura coreana contemporanea, che in questo momento, anche grazie alla meritatissima vittoria del Nobel da parte di Han Kang, sta finalmente entrando in Italia: questo modo di affrontare famiglie, aspettative, affetti e fallimenti senza mai alzare il volume, ma scegliendo invece di sgranare i dettagli, lasciando che siano le trame del quotidiano a raccontare tutto il resto.

Sulla vive in una Corea del Sud che invecchia a vista d’occhio. Una società dove i genitori dipendono dai figli con una naturalezza quasi istituzionalizzata, e dove essere giovani significa contemporaneamente essere risorsa, motore, e promessa. La pressione è enorme ma, paradossalmente, quasi tutti continuano a correre: così come corre lei, instancabile scrittrice, editrice, imprenditrice. Scrive, dirige la propria casa editrice, ed è lei ad aver assunto i propri genitori come assistenti, nella casa (comprata da lei) dove tutti e tre vivono e lavorano. 

Leggere questa dinamica da qui, dall’Italia, fa un certo effetto: anche noi stiamo diventando un paese sempre più vecchio, ma l’energia dei giovani, di Sulla, quel senso di slancio, quell’urgenza di “costruire qualcosa”, non è la stessa. Noi siamo cresciuti dentro un rallentamento, loro dentro un’accelerazione. Nel libro questa distanza si sente: la ruota su cui corrono i giovani coreani gira ancora troppo veloce, e intanto noi, mentre i nostri genitori invecchiano e pochi dei nostri coetanei decidono di far figli, rimaniamo a guardare, un po’ stanchi, un po’ fuori tempo massimo.

Eppure, al di là di tutte le cornici sociologiche che si potrebbero tirare fuori (e sarebbe facile farlo, perché il romanzo si presta moltissimo), la cosa più sorprendente è quanto L’era del figliarcato sia un libro… morbido. Non leggero, non semplice, ma morbido. Perché accoglie il lettore, lo lascia stare nel suo mondo, in quella casa-ufficio frenetica e pacifica al tempo stesso, fin quasi a sentirsi parte di quella famiglia di colleghi unica nel suo genere. C’è un tipo di intimità che non è invadenza, ma vera vicinanza, in ogni piatto cucinato dalla madre di Sulla, in ogni gesto del suo papà, e in ogni ricordo della loro storia familiare, dalla nonna contadina che non ha potuto concedere a sua figlia di studiare, al nonno che invece ha preso da parte la sua nipote prediletta da piccolissima per dirle che sì, avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, avrebbe potuto scrivere, ma la cosa più importante sarebbe stata mantenersi facendolo, scrivendo così la propria storia in autonomia. 

Sulla portò il cuscino in camera sua. Lo appoggiò accanto alla scrivania e inspirò. Poi cominciò a prostrarsi. Piegava le ginocchia, puntava le mani sul pavimento, incurvava la schiena e abbassava la testa. Ogni volta che si appiattiva sul pavimento Sulla pregava dentro di sé qualcuno che non conosceva. Fa' che scriva delle belle storie. Fa' che io ami per sempre questo lavoro. Fa' che io creda che ci saranno sempre dei lettori da qualche parte. Aiutami a non perdere il coraggio. Continuò a prostrarsi, e ciò divenne un rituale che si ripeteva per 108 volte prima di cominciare a scrivere. (p. 229)

Il libro, e il rapporto intergenerazionale che dipinge, è intriso di cura. Non di retorica sulla cura, ma di cura vera, concreta, quasi tattile. Sulla si prende carico della sua famiglia non come un’eroina tragica né come una martire moderna, ma come una ragazza piena di vita e di talento, una gran lavoratrice che rincorre il successo non solo per sé ma anche per chi la circonda. E Ysra riesce a rendere quella fatica in un modo che non tradisce la fatica dell’ascesa, ma che consola chi, come Sulla, è in corsa, nel tentativo di tenere insieme la dimensione lavorativa e quella personale, la propria vita e quella degli altri.  

E così L’era del figliarcato diventa un romanzo che parla di generazioni, precarietà, fallimenti, responsabilità, però senza mai diventare un trattato specifico sulla Corea di oggi, ma sempre rimanendo in grado di parlare al cuore di chi legge. Rimane una storia di pasti condivisi e voci che si accavallano, di routine, di rumori familiari, di pensieri taciuti, di piccole sconfitte e piccole vittorie. È questo che mi porto dietro: la sensazione che un romanzo possa essere politico, sociale, generazionale, e al tempo stesso profondamente umano e universale. Vivo e valido, dalla Corea del Sud fino all’Italia.

Marta Olivi