L'uso della foto
di Annie Ernaux/Marc Marie
L'Orma, novembre 2025
Traduzione di Lorenzo Flabbi
pp. 168
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (e-book)
Nei loro occhi leggevo la mia assenza futura. Non immaginavano che quella che io vedevo era la loro, di morte, certa quanto la mia. E in più avevo un grosso vantaggio, quello di saperlo […] In un altro senso, però, si sbagliava. Non mi aspetto dalla vita che mi porti dei soggetti, ma delle configurazioni sconosciute di scrittura. Questo pensiero, «Voglio scrivere soltanto ciò che sono la sola a poter scrivere», porta a testi che devono la loro stessa forma alla realtà della mia vita. Non sarei mai stata in grado di prevedere il libro che stiamo scrivendo. E infatti è dalla vita che è emerso. Di contro, la scrittura sotto le foto, in tutti i suoi frammenti - che a loro volta saranno ulteriormente infranti da quelli, per il momento ancora a me ignoti, di M. -, mi offre anche l'occasione di una minima messa in racconto di questa realtà. (p. 58)
Libro unico, quasi senza categoria, questo di Annie Ernaux e Marc Marie – autore e giornalista con cui la scrittrice ha avuto una relazione durante tutto il 2003, proprio mentre era in cura per un cancro al seno – non solo ci fornisce una scusa per riflettere sulla scrittura tout court, ma anche per interrogarsi e interrogarci sul significato della malattia, di una relazione amorosa, di un determinato incontro proprio in quel momento, proprio in quel luogo.
I due iniziano a frequentarsi all'inizio del 2003, poco prima che Ernaux venga sottoposta a un'operazione chirurgica all'Istituto Curie: innegabile dunque che il loro rapporto sarà inevitabilmente influenzato dalla malattia di lei, anche se - è sorprendente scoprirlo - non toglierà nulla alla passione, alla voglia di gioco, alla frizzantezza dei loro incontri. Anzi, quasi il cancro è un plus, l'appiglio che ha permesso a questo libro, in parte narrativo, in parte fotografico, di esistere.
Mi capitava spesso, sin dall'inizio della nostra relazione, di restare affascinata nel ritrovare al mattino la tavola non sparecchiata della sera prima, le sedie spostate, i vestiti aggrovigliati, buttati a terra alla rinfusa nel fare l'amore. Il paesaggio era ogni volta diverso. Doverlo distruggere, quando ognuno raccoglieva le proprie cose, mi stringeva il cuore. Avevo l'impressione di cancellare l'unica traccia oggettiva del nostro piacere […] In seguito, tacitamente, come se fare l'amore non bastasse, come se fosse necessario conservarne una rappresentazione materiale, abbiamo continuato a scattare foto. Alcune subito dopo l'amore, altre la mattina successiva. Era questo il momento più commovente. Quegli oggetti di cui i nostri corpi si erano liberati avevano trascorso tutta la notte esattamente dove li avevamo abbandonati, nella configurazione assunta dopo la caduta. Erano le spoglie di una festa ormai lontana. Ritrovarle alla luce del giorno significava sentire il tempo. (pp. 9-10)
Il desiderio appena successivo è quello di scrivere, ognuno per conto proprio senza mostrare all'altro il contenuto di quella scrittura, delle impressioni che la foto scattata suscita. La stessa foto, una manciata di pagine di diario per ognuno. Così il testo viene strutturato proprio come un diario doppio, a quattro mani: ci viene mostrata la fotografia, scattata o da Ernaux o da Marie - sempre di abiti e stanze senza la loro apparente presenza (o meglio, apparizione) fisica - poi le pagine scritte da lei e infine quelle scritte da lui.
Appare subito immediata la prima differenza, sia di carattere che di stile: Ernaux è pragmatica, rigida in qualche modo, inizia sempre la lettera con la descrizione minuziosa della scena, in modo quasi meccanico, chirurgico. Marie invece ci viene restituito come uomo più emozionale, più concentrato, fin da subito, sulle sensazioni e i ricordi che gli ammassi di abiti fotografati gli fanno venire in mente.
Le fotografie sono rappresentazioni, simulacri, del sesso tra i due: ci raccontano una fretta di spogliarsi, il passare delle stagioni, la moda di quegli anni, il luogo in cui si trovavano, a volte - come nel caso della fotografia in cui si vedono sparsi a terra dei fogli manoscritti di Ernaux (pg. 64) - la foga della passione erotica.
Ci si aspetterebbe di leggere impressioni distinte, diverse, che magari lei riesca a notare qualcosa e lui qualcos'altro. Invece, anche questo molto sorprendente, la coppia descrive le scene quasi allo stesso modo, usando le stesse parole, le stesse espressioni, tanto identiche che si ha quasi il dubbio che la promessa di non leggere le pagine dell'altra persona sia stata infranta.
Un esempio:
A: Sul parquet, in primo piano a catturare lo sguardo, lo stesso scarponcino da uomo della prima foto, in cuoio nero, tipo Dr. Martens, con gancetti metallici per incrociare i lacci, spalancato come una bocca che sbadiglia. Dalle pieghe profondamente segnate sul cuoio della tomaia e della linguetta si capisce che si tratta di una scarpa consumata. La punta calpesta un reggiseno di pizzo rosso a motivi bianchi, tutto attorcigliato, sul quale si appoggiano le stringhe slacciate. Dietro la scarpa, la gamba di un jeans; la cintura nei passanti taglia in due il rettangolo di camoscio chiaro, simile a un lembo di pelle, su cui è probabilmente impressa la marca. La luce del flash conferisce allo scarponcino un carattere famelico. Voglia di ritagliarlo, staccarlo dalla foto per incollarlo in giro, a mo di illustrazione della dominazione maschile, benché la realtà della mia relazione con M. non corrisponda affatto a questa autorappresentazione messa in scena dagli oggetti […] Quegli stessi stivaletti, più o meno slacciati, compaiono in quasi tutte le foto, con la loro apertura scomposta come nelle scarpacce appese a un amo e ripescate in fondo al fiume che si vedevano nei disegni umoristici del secolo scorso. (pp. 45-46)
M: Una scarpa da uomo calpesta un reggiseno. Anzi no, lo schiaccia con la punta del piede, si può quasi indovinare, oltre la foto, il movimento, il tacco che oscilla da destra a sinistra in un gesto rabbioso, disgustato: non è più un reggipetto, è il calabrone che si finisce sul pavimento della cucina una sera d'estate. Non sono nemmeno i polacchini ben lucidati scorti nella vetrina di una boutique del Forum des Halles, quattro anni prima. Da allora, devo averli portati per trecento giorni l'anno, i miei amici non riescono a immaginarmi con nient'altro ai piedi, robe da interrogarsi se potessi permettermi un paio di scarpe nuove. Scarpe, stivaletti, polacchini, quando ne parlo dico semplicemente «i miei anfibi». Il cuoio è consumato, la vernice nera dei gancetti è venuta via in alcuni punti scoprendo l'ottone originario. In queste condizioni, spalancati, abbandonati, hanno quella grazia miserabile delle scarpe sfondate che, nei fumetti, i Pieds Nickelés pescavano all'amo lungo la Senna nei giorni di magra [...] l'uomo che reprime e silenzia, con la semplice, nera e imperiosa pressione della suola, l'eterno femminino. (pp. 49-50)
Notiamo che, non solo usano le stesse parole, ma la foto suscita le stesse impressioni e gli stessi ricordi: i fumetti di un tempo, la vaga minaccia dell'aggressività maschile che vuole calpestare (parola usata da entrambi) il femminile, la connotazione affettiva per quegli anfibi, che compaiono quasi in tutte le fotografie. Questa incredibile sintonia si ripete in tutto il testo: ogni fotografia, incredibilmente, viene raccontata e tradotta da parte di entrambi con gli stessi termini e gli stessi sentimenti, persino le stesse reminiscenze (e come ho detto, questa sintonia è talmente sfacciata che viene il dubbio che i due non si siano messi d'accordo prima).
In parallelo, leggiamo l'evolversi della malattia di Ernaux: il suo non è un racconto pietoso, lagnoso o volto a costringere il lettore a provare empatia. Anzi, il modo in cui la donna affronta il cancro prende una piega quasi erotica: le foto, le pagine di diario di entrambi, esprimono un mix di erotismo, pornografia, gioia di fare sesso ovunque - a letto, in cucina, in hotel, per terra - quasi che i due fossero adolescenti, quasi che stessero esplorando i loro corpi per la prima volta. E in un certo senso è così: per Ernaux a causa del cancro, per Marie per lo stesso motivo, perché deve avere a che fare con un corpo altro "diverso", senza però che questo impedisca a entrambi di lanciare vestiti ovunque e farlo con un impeto quasi palpabile attraverso le fotografie.
Poi arriviamo a giugno e qui una rottura, una frenata d'arresto: mancano luglio, agosto e settembre. Ci si chiede come mai non ci siano fotografie di quel trimestre e il testo stesso istilla il dubbio che qualcosa sia cambiato: le pagine seguenti, e anche le stesse fotografie, suggeriscono che il rapporto si sta sfilacciando, si avverte una certa stanchezza, una noia, e non ci si meraviglia nello scoprire che, effettivamente, l'inizio del 2004 sancirà la fine della relazione.
Presto ci scambieremo i testi. Ho paura di scoprire cosa ha scritto. Ho paura di scoprire la sua alterità, la distanza esistente tra i rispettivi punti di vista, che di solito viene colmata dal desiderio e dalla vita in comune ma che la scrittura svelerà di colpo. Scrivere divide o unisce? Vorrei che non avesse scritto a causa mia né per me, ma per qualcosa fuori da me, verso il mondo. Per quanto mi riguarda, scrivendo non ho pensato al fatto che lui mi avrebbe letto. Non so cosa ho fatto in rapporto a lui. Mi chiedo se non abbia semplicemente esplorato e raccolto in un testo una doppia fascinazione che ho sempre avuto: per la fotografia e per le tracce materiali della presenza. Fascinazione che è più che mai, per me, quella del tempo. (p. 159)
Ecco, forse nel loro caso, la scrittura ha diviso, laddove le fotografie avevano unito.
Lo consiglio vivamente, a prescindere che amiate o meno la fotografia, perché è un testo grazie al quale ci si pone tante domande sulla scrittura, sulla vita, la morte e l'amore.
