Appena uscito per Bompiani, Leggere libri non serve è un testo agile, adatto anche a un pubblico non specialistico, che, partendo da sette autori e parole, apre a molteplici spunti di riflessione in un percorso multidisciplinare. Il sottotitolo, "Sette brevi lezioni di letteratura" illumina un aspetto di ciò che questo saggio contiene, il punto di partenza: un percorso in sette capitoli dentro le parole e il mondo di autori diversi - Oscar Wilde, William Blake, James Joyce, Giordano Bruno, Italo Svevo, Virginia Woolf, William Shakespeare - attraverso cui Terrinoni intreccia una riflessione che sul ruolo della lettura nel mondo contemporaneo, le stratificazioni della parola e il mestiere di traduttore, i dialoghi, le connessioni e le influenze che intercorrono tra gli autori e quella forza di trascendere il tempo e lo spazio che è propria dei classici. Un percorso, dunque, che oltre alla letteratura comprende la scienza, l'attualità, le società. Un testo in un certo senso "interattivo", in cui il lettore è voce attiva. Ho avuto il piacere di confrontarmi con il prof. Terrinoni e con lui indagare alcune questioni alla base del saggio.
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Un passaggio chiave da cui si apre la riflessione sul senso della letteratura nella realtà contemporanea è dato dalla riflessione sull’inutilità pratica della lettura: l’arte non ha fine pratico ma, sostiene, è resistenza, libertà, sviluppo di pensiero critico. La lettura come atto di resistenza contro l’utilitarismo e, dunque, necessaria. In quest’ottica, quanto è strettamente intrecciato a suo avviso il valore politico militante della letteratura?
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Leggere libri non serve. Sette brevi lezioni di letteratura, di Enrico Terrinoni Bompiani, settembre 2025 pp. 176 € 12 (cartaceo) € 6,99 (ebook) VEDI IL LIBRO SU AMAZON |
Nella lezione dedicata a Shakespeare riflette, tra le altre cose, sulle molteplicità della parola, i suoi significati e, di conseguenza, sul mestiere del traduttore. Quanto è importante per lei il potere rivoluzionario e a volte oscuro della parola in letteratura?
«Le parole sono così profonde», riflette Leopold Bloom nell’Ulisse di Joyce. Sono profonde perché nascondono tanto. Ma non solo. Non basta scavare per capirle. Bisogna considerarle nella loro capacità di proiettare ombre, e le ombre appartengono al futuro. Sono le letture impreviste, quelle che nessuno può profetizzare, neanche gli autori stessi, che consegnano le loro opere al mondo perché è del mondo che sono figlie. Tutto questo è altamente rivoluzionario. Se io non posso controllare la mia stessa creazione, non c’è autorità che tenga. La letteratura, quella vera, quella potente, infinita e infinibile, quella che sopravvive ai secoli, non smette di rivelare cose nuove perché vive tanto nel passato quanto nel futuro. E il futuro non è, in larga parte prevedibile. Quando meno te lo aspetti, il re viene detronizzato e scoppia la rivoluzione.
Il saggio si snoda attraverso sette lezioni, sette autori molto diversi tra loro eppure accomunati da una scintilla e dalla capacità di trascendere il tempo e lo spazio, dialogare ancora con la contemporaneità. Qual è nelle sue intenzioni il fil rouge che li lega, perché ha selezionato proprio questi autori? Quale lezione fondamentale ci insegna ancora la loro opera?
L’eresia, che etimologicamente rimanda alla «scelta». Scegliere significa dire da che parte si sta. Gli autori che prendo in considerazione scrivono contro tutto e tutti. Alcuni al rischio della loro stessa vita. Ma tutti, per cambiare la nostra, di vita. Per farci capire cose nuove. Bruno, Woolf, Blake, Joyce, Svevo, Shakespeare, e Wilde, sono scrittori che hanno il coraggio di scegliere, e di sfidare il presente, come il passato. Ma sempre, come dicevo, rivolti al futuro. La loro eresia, il loro essere eretici, diversi, fieramente unici, è la lezione che ci consegnano. Una lezione di creatività, perché non esistono persone che non siano creative – al di là ogni tanto di qualche ministro o qualche premier. Siamo tutti creativi perché esistiamo e perché pensiamo. Il nostro pensiero non è dato, non nasce da una costrizione, ma da un anelito di libertà. Per questo non capisco chi si limita, chi si pone dei paletti, chi decide di non essere creativo, come i politici di cui sopra.
Mi soffermo ancora un momento sulla traduzione. L'atto della traduzione – ovvero l'immergersi profondamente nel testo altrui per farlo rivivere in un'altra lingua – ha influenzato il modo in cui ha concepito queste "lezioni di letteratura"? In altre parole, cosa scopre della letteratura un traduttore che un lettore non scopre?
La traduzione è la forma più approfondita di lettura, anche solo perché ti costringe a leggere lo stesso testo tante volte in poco tempo. Entri nelle sue dinamiche come nessun lettore, come nessun critico ha modo o anche voglia di fare. Purtroppo, i traduttori sono poco ascoltati, e questo è un peccato enorme. Avrebbero da dire e da dare tantissimo in termini di interpretazione del testo. Quindi sì, tutte le mie teorie nascono dalla pratica, e divengono pratica. La mia è una teoria della prassi ermeneutica. Non credo alle descrizioni traduttive che restano a mezz’aria, spesso fatte da dei non traduttori. Credo nel cambiamento che occorre quando si legge. E quando si legge, si traduce, ossia, si cambia il testo. Lo si adatta al nostro immaginario, linguistico e culturale. Abbandonerei per sempre la trita storiella della traduzione come tradimento. Il tradimento lo opera chi non legge in maniera creativa, chi non è creativo. Tradisce sé stesso e si condanna all’inutilità.
Sostiene in un passaggio: «Non si è sapienti se si è eruditi. Si è sapienti se si è in grado di vedere, non di accumulare. La letteratura, anche se la studiamo fin da bambini, non serve a renderci più colti. Serve ad altro, ossia a farci essere altro: altri da noi stessi, distanti ma anche vicini a quel che crediamo di essere e che sempre ci sfugge». Un punto decisamente interessante, in un momento in cui il lettore sembra troppo interessato a farsi guidare da una lettura emotiva – adolescenziale, se mi passa il termine – convinto a giudicare il valore di un’opera dal grado di riconoscimento di se stesso che vi trova nelle pagine. E, allo stesso tempo, un passaggio che mi porta a riflettere anche su una certa visione della lettura come performance, fruizione veloce più attenta alla quantità che alla qualità di ciò che si legge.
Se la lettura prescinde dall’emozione tanto vale fare altro nella vita. Quindi ben vengano le letture emotive. L’arte deve suscitare emozione. La disamina critica spesso questa emozione la uccide vivisezionando l’opera e poi consegnandola al cimitero delle questioni accantonate. Io sono per la vitalità della letteratura e dell’arte tutta. Proprio per quel che dici: perché l’arte è performance, non è statica. Non sta lì per essere ammirata ma per entrare anche di peso nelle nostre vite e rivoluzionarle. La lettura posata, quella che punta sull’emozione raccolta nella tranquillità, non fa per me. Galileo diceva che discorrere è correre. Le scoperte scientifiche e le creazioni artistiche sono lì per dare un’accelerata alla vita, non per consegnarci alla stasi. Poi, in un periodo in cui non si legge quasi più, e in cui chi non legge ci governa dal basso della sua ignoranza, sia benvenuto ogni tipo di lettura, sempre che sia emotivo.
La lezione che più mi ha colpita è quella su Oscar Wilde, perché mi dà anche lo spunto per ragionare su una questione, ossia il filtro che di volta in volta adottiamo nel leggere un autore, la maschera che vi apponiamo. Wilde l’esteta, Dickinson la giovane autoesclusa dal mondo, Sylvia Plath suicida… sono solo alcuni esempi, ma i casi sono numerosi. E, ancora, sull’irlandesità di Wilde, un concetto a mio avviso molto interessante su cui mi farebbe piacere soffermarci un attimo.
È una verità lapalissiana, come parlare della romanità di Moravia, della triestinità di Svevo, della pariginità di Baudelaire. Wilde è irlandese, eppure gli inglesi, e i professori di letteratura inglese, questa cosa non l’hanno sottolineata abbastanza. Anche perché a volte gli intellettuali si schierano con il potere, e nelle situazioni coloniali, come quella Irlanda/Inghilterra, o Palestina/Israele per parlare dell’oggi, il potere ce l’ha il colonizzatore, l’oppressore. È l’oppressore che detta le regole. Negli studi postcoloniali oramai nessuno si sognerebbe di non tenere in considerazione la Irishness di Wilde, perché è un dato di fatto, e perché ne ha segnato le sorti. Il primo processo contro di lui fu istruito dal futuro fondatore dei paramilitari lealisti anti-irlandesi UVF, le cui squadracce hanno seminato il terrore per tutto il Novecento in Irlanda, e il suo amante Bosie, ossia la persona che lo condanna, di lì a pochi anni si rivelò un feroce razzista anti-irlandese, oltre che un pericoloso omofobo. La questione è: come mai Wilde non vide alla porta questi pericoli? La probabile risposta è: li vide eccome, ma continuò a lottare.
Intervista esclusiva a cura di Debora Lambruschini.
Ringraziamo l'autore per la disponibilità.