Per poter apprezzare pienamente questo esordio letterario giapponese non ci si deve limitare ad aprire il libro e leggere, ma bisogna anche e soprattutto predisporsi a leggerlo. Sebbene si tratti di una lettura breve e scorrevole, per coglierla è fondamentale compiere questi importanti passaggi.
Primo, sintonizzare un qualsiasi dispositivo elettronico su un riproduttore di musica e scrivere "Rhapsody in blue" di George Gershwin. Il jazz, a volte spiega meglio di tante parole. Secondo, mettere dell'acqua nel bollitore e preparare un buon tè caldo. Può essere nero, verde, bianco, alla frutta o speziato, l'importante è che sia un vero tè, di quelli di qualità, sfusi possibilmente. Terzo, chiudere un momento gli occhi e immaginare una stanza piena di ricordi, di oggetti, e di cianfrusaglie tanto che prendere le scale per salire al piano di sopra diventa difficile. Una stanza che sa di vita vissuta, tra felicità e nostalgia. Qui, c'è Momoko, anziana giapponese dall'impeccabile crocchia avvolta in un tenugui (foulard). Con lei, ci sono anche le voci che affollano la sua testa, e in questo la melodia del compositore statunitense ci offre il giusto ritmo e tempo tra le varie tonalità e personalità che la abitano.
Adesso, anche se sentiva il jazz dentro e fuori di sé, il suo corpo non si muoveva più come allora. La punta dell'indice della mano sinistra, con cui teneva la tazza del tè, tremava sempre di più. Rifiutava di pensare che fosse a causa dell'età.[...] Nella mente di Momoko le voci iniziavano a poco a poco a rispondersi, nascevano delle domande, si avanzava una risposta. Voci di tutti i tipi, di sesso sconosciuto, di età sconosciuta, e che, soprattutto, si esprimevano in stili diversi. (p. 11)
Ma Momoko non è pazza, è soltanto molto sola.
Quando mi sento queste voci nella testa, è come se fossi finita dritta dritta in una riunione di comari, e mi diverto un sacco. Almeno, anche se sono tutta sola, è come se non lo fossi. [...] Forse si tratta di un meccanismo di difesa concepito dal cervello per sconfiggere la noia della solitudine? (p. 18).
Una stanza per Momoko di Chisako Wakatake racconta la storia di una donna che per la prima volta in tanti anni si ferma e si ascolta. Stagione dopo stagione, sorseggiando una tazza di tè, Momoko ripercorre i momenti belli e brutti della sua vita, concedendosi finalmente il lusso del tempo e del pensiero. La casa che una volta era abitata da una vita famigliare, dall'amore e dal suono delle risate, ora è talmente vuota che la protagonista sente persino il glu-glu scoordinato dei suoi pensieri. O, meglio, delle voci che ha nella sua testa, e che le parlano nel dialetto del Tôhoku, anche se è da una vita che non lo parla più, perché lì a Tokyo, si parla solo giapponese, non il dialetto. In questo romanzo ricco di onomatopee, ci ritroviamo catapultati nella mente della protagonista, tra suoni, profumi e tantissime riflessioni. Le difficili relazioni famigliari con la madre, prima, e coi figli, dopo. L'emancipazione femminile, la curiosità di scoprire il mondo e scappare da un'esistenza mediocre, già prestabilita. L'intero racconto si sviluppa sotto forma di lunghissimo monologo, e gli stessi capitoli, sembrano lunghe frammentazioni dell'io narrante. Perché in questo viaggio al passato il lettore conosce tre Momoko: quella giovane e spensierata che da un piccolo paesino si trasferisce nella grande città di Tokyo; quella che da bambina si aggrappava al grembiule della nonna e le osservava le stesse mani rugose che un giorno avrà anche lei; e infine quella che ha vissuto una vita intera, che ha sofferto, ma ha amato anche tanto. Quest'ultima, viene descritta dall'autrice con molta dolcezza e delicatezza, quasi a volerla proteggere dal pensiero di una vita consumata che sta volgendo alla sua inesorabile conclusione. Il tema del ricordo e della frammentazione dell'io si accompagnano agli attualissimi temi della solitudine in età senile, alla paura di mettere la parola fine alla stesura del proprio racconto. L'anziano, nella società odierna non è più visto come un saggio da preservare, ma come una ruota ingombrante da mettere in panchina, in attesa che si sgonfi e non serva più. Nessuno è immortale, e la consapevolezza arriva inevitabilmente.
Talvolta, durante la lettura, non è facile star dietro alle voci, e c'è anche un po' di eccessiva ridondanza nel riproporle, ma riprodurre in un'altra lingua dei concetti tipici non solo di una lingua complessa come il giapponese, ma addirittura di un dialetto è molto difficile, perciò oltre che all'autrice un grande merito e plauso va anche alla traduttrice Gaia Cangioli per aver reso la lettura estremamente armoniosa, nonostante le barriere linguistiche.
Infine, c'è il tema cui deve il titolo l'intera opera: la stanza.
La stanza è da intendersi come luogo fisico in cui una persona vive o è da interpretarsi come allegoria di un contenitore che aspetta la nostra dipartita? O è ancora da intendersi come custode dei pensieri e delle voci che la abitano? L'unico modo per scoprirlo è leggerlo, ricordandosi alla fine di alzare forte il volume. Il jazz sa sempre come rispondere.
Carlotta Lini