"La mia personale idea di inferno", ovvero cronaca di un’agonia affettiva (con vista su Roma)




La mia personale idea di inferno
di Giulio Somazzi
Accento edizioni, luglio 2025

pp. 257
€ 18 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)

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C'è una certa delizia nel malessere di Damiano Rodetti. Non è un eroe. È uno che sbaglia i tempi, gli affetti e forse anche le parole. Ma sa raccontarli. E questo, nel mondo in cui viviamo — dove chi non si esprime su Instagram non esiste — è già un gesto rivoluzionario, di una bellezza morbosa, intima, quasi teatrale. Come guardare una stanza borghese in fiamme e notare che anche il divano barocco brucia con eleganza.

Questo è ciò che fa Giulio Somazzi nel suo esordio: La mia personale idea di inferno, pubblicato da Accento Edizioni, è un romanzo che non si limita a raccontare una discesa agli inferi, ma ne ridisegna la cartografia. Il tutto con uno stile che mescola cinismo e malinconia, commedia e dannazione. E una punta di disincanto.

Una trama? Sì, ovviamente c’è. Ma non è quello il punto.

Damiano è uno scrittore fallito (o peggio: mai iniziato), un trentenne che ha imparato a non chiedere più nulla — né amore, né attenzione, né redenzione. Galleggia – annaspando – in un’esistenza influenzata dai traumi del passato e dalla paura del futuro. Con conseguenze devastanti sul presente. Il romanzo si articola in tre momenti distinti (Hotel, Funerale, Festa), ma il vero luogo dove tutto accade è la mente stanca e lucidissima del protagonista, nella quale entriamo a poco a poco, senza nemmeno accorgercene. Il primo tratto distintivo dello stile dell’autore è proprio questo: a metà tra il flusso di coscienza e la chiacchierata tra amici al bar.

Questi tre momenti, comunque, come nella migliore tradizione dickensiana, rappresentano il passato, il presente e il futuro, seppur proposti in ordine diverso.

Nel primo atto, Damiano si trova in un albergo dove incontra Isabelle Huppert, sì, proprio lei, l’attrice francese, in carne, ossa e aura. Un incontro surreale, da sogno febbrile, ma trattato con la disinvoltura dell’ordinario, quasi distrattamente. Vediamo Damiano alle prese con il presente, con il suo ruolo di giornalista ancora in cerca della vera fama e dilaniato da un amore a interruttore con Lidia, che però sembra destinato a commutarsi definitivamente sull’off.

Addirittura faticava a interessarsi ad altre donne, come se l’intera riserva di energia mentale fosse dedicata all’ossessione-Lidia, alla risoluzione del mistero, alla ricerca della risposta a una domanda che nessuno aveva mai posto. (p. 54)

Nel secondo atto, in cui si svolge il funerale di un’amica di famiglia, Damiano affronta il passato: questa amica di famiglia era una donna che non ha mai voluto essere umana, ma piuttosto una macchina strategica pronta a comandare chiunque. Una figura che influenzerà più del dovuto la vita del nostro protagonista. Le emozioni presenti sono congelate, perché l’autore ci sta propinando – nel frattempo – quelle di un Damiano giovane, autentico, grezzo, e non si può non provare una fortissima empatia per quel ragazzo finito nelle mani sbagliate.

D’altra parte, Damiano era ormai riconosciuto da tutti come il prodotto disfunzionale di una famiglia e di un gruppo in apparenza funzionalissimi. Strano, difettoso, probabilmente di animo buono, non di certo un competitor plausibile. (p. 130)

Terzo e ultimo capitolo, la festa, ovvero il futuro. Ma non è una festa qualsiasi: è il carnevale sadico della Roma bene, tra intellettuali medi, artisti farlocchi e trentenni depressi che stringono cocktail tra le mani come se potessero proteggerli da sé stessi. È qui che Somazzi affonda la lama con più piacere: con una lingua finalmente, completamente sincera, incurante di tutto, mette a nudo i tic, le nevrosi e le pose di una generazione educata al non sentire. In questa parte, il suo stile da salotto e da post-sbronza è massimo: Damiano riesce a liberarsi poco alla volta dei fantasmi del passato, delle paure del presente, che prendono parte anche loro a questa assurda festa. Somazzi scrive come se chiacchierasse con un amico sveglio troppo tardi, a una cena ormai finita. Il tono è spesso confidenziale, ma non perde mai precisione. Le frasi sono brevi, asciutte, ma capaci di contenere interi mondi: basta un aggettivo messo al posto giusto, una virgola non addomesticata, e il personaggio si svela. C’è un gusto per l’assurdo quotidiano che ricorda Ginzburg nei momenti più strani, ma anche qualcosa di Houellebecq, se Houellebecq fosse cresciuto in una casa piena di cristalli e madri passive-aggressive. E poi ovviamente fortissimi richiami ad Ammaniti, se Ammaniti amasse il finger food e l’eleganza narrativa di Sorrentino.

Ma soprattutto: c’è una voce. Una voce vera. Irritante, a tratti. Ma dannatamente viva, che parla già dal titolo, che non è una provocazione, ma una confessione. L’inferno di Damiano non ha fiamme, ma cuscini decorativi. Non ha demoni, ma conoscenti. È fatto di conversazioni di circostanza, di cene dove nessuno ha fame, e di vite così performative da diventare finzione. Somazzi scrive come si danza male a una festa snob: inciampando apposta, per farsi notare. Ma è un inciampo elegante, voluto, pieno di grazia stonata. E quando arriva il colpo finale — quello che non vi dico — vi accorgete che questo romanzo non è solo una storia. È uno specchio, nel quale siete obbligati a guardarvi.

Giovanna Scalzo