La vita è “come un teatro in cui si recita un solo dramma”, in cui si aprono “radure”: il romanzo a ritroso di Iris Wolff





Radure
di Iris Wolff
Neri Pozza, 2025

Traduzione di Cristina Vezzaro

pp. 234
€ 19,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

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Radure è un romanzo che scorre a ritroso, dalla fine al principio, e bene sarebbe stato dunque arrivarci senza aver letto la trama, per poterla disvelare pagina dopo pagina, come nelle intenzioni dell’autrice. In Radure il tempo scivola in un conto alla rovescia, dal nono capitolo al primo, dove affondano le radici del rapporto unico e indefinibile che lega Kato e Lev. I capitoli sono come i ricordi, per l’appunto radure che si aprono nello scorrere lineare e indistinto dei mesi, e poi degli anni, slarghi assolati in cui riprendere fiato nel corso di una vita. I due amici inseparabili non si vedono da cinque anni, da quando Kato è partita, per inseguire la sua arte, insieme a Tom. Lev, più ombroso e quieto, più legato alla sua terra, è invece rimasto. È bastata però una cartolina («Quando vieni?») per spingerlo a partire, senza porsi troppe domande sul senso, e le implicazioni, della domanda. Si sono incontrati a Zurigo, in una città nuova, moderna, in cui tutto contribuisce a far sentire l’uomo spaesato. Lui, del resto, viene dalla Transilvania, solo da poco liberata dalla trappola dell’influenza sovietica e poi dalla ferocia della dittatura, e tutto dell’Occidente consumistico gli risulta straniante, incomprensibile.

Era una città d’acqua, di rifugi nei parchi, banche e case sontuose, una città che era nuova, tutta da scrivere, senza ricordi in agguato a ogni angolo. […] I grandi magazzini non gli piacevano, quegli enormi centri funzionali che ormai esistevano anche nel suo Paese e dove la gente si aggirava di corsa simulando una disinvoltura che doveva cancellare la penuria dei tempi passati. Qui a ogni angolo c’era vita in eccesso, possibilità di shopping, caffè e ristoranti in cui la gente si incontrava per parlare, per bere un caffè, per scongiurare la noia. Lev si abbandonava al palpito, all’estensione della città, ma ogni volta che doveva dire qualcosa sentiva le parole pesargli inerti in bocca. Le sue origini erano nel suo accento, cucite addosso negli abiti e nelle scarpe. (p. 21-22)

Se il riferimento più ovvio è quello alla Cortina di ferro, la metafora più calzante, scelta dall’autrice, è quella della sfera di vetro, in cui tutto rimane cristallizzato e immobile finché il vetro non viene rimosso, o infranto. E risulta allora stridente il primo incontro lontano di Lev e Kato, la superiorità con cui lei si riferisce a un luogo che si è lasciata alle spalle e che non conosce più davvero, non per quello che è diventato. Eppure la sua situazione è complessa, precaria: vive alla giornata, la sua casa è una Land Rover riadattata, cerca di strappare momenti al fuggire dei giorni attraverso la pittura. Questa Kato ha tanti tratti in comune con quella che Lev aveva visto partire, ma molti ancora sono da scoprire, presentano nuovi spigoli, nuove cicatrici. E il bisogno di pensare che nulla sia mutato, nei luoghi dell’infanzia, è allora una forma di protezione, un estremo tentativo di ancoraggio:

C'era un prima, in cui sapevano quasi tutto l'uno dell'altra, e un presente, in cui non si poteva che accettare il confronto. Era già abbastanza difficile. (p. 34)

Per potersi ritrovare Lev e Kato hanno bisogno di ammettere e accettare quelle che erano state le loro diverse necessità: per lei quella di andare, per lui quella di restare. Il riavvicinamento deve passare attraverso il recupero della loro lingua originaria, condivisa. Solo nel momento in cui trapassano dal tedesco al romeno i due recuperano una prospettiva intima e viscerale sulla vita l’uno dell’altro («in quella lingua si schiudevano altri spazi, una parola toccava l’altra, viva, familiare. Le parole erano sciupate dall’uso, erano spigoli, una vita a sé. Ma erano quelle giuste. Come se prima avessero potuto guardare i loro ricordi solo dall’esterno», p. 38).

Di capitolo in capitolo, si sprofonda sempre più nel passato e si assemblano, per somma progressiva di dettagli, le immagini di ciò che è stato, di ciò che ha condotto al presente.

La storia che Iris Wolff racconta non è solo quella di una relazione profonda tra due anime affini, ma anche quella di un paese travolto dalla Rivoluzione e dal cambiamento, un paese da cui, a un certo punto, e appena possibile, tutti vogliono scappare, lasciandosi dietro una scia di macerie – metaforiche e reali. Nel passato della Romania si annidano molte anime e molte contraddizioni, tradizioni antiche, lo spirito orgoglioso di una popolazione che resiste e che poco alla volta prende coscienza di essere stata ingannata. Lev, che appartiene a una famiglia sostanzialmente matriarcale, in cui la saggezza e la resilienza sono incarnate da straordinarie figure femminili, impara progressivamente il mondo grazie ai consigli senza tempo della nonna Bunica, e all’anima sempre straniera, irriducibile e un po’ estranea, della madre di origini tedesche, Lis.

«È come è sempre stato» disse [Lis]. «Come un teatro in cui si recita un solo dramma. Le persone però non si stancano mai di guardarlo. Vanno allo spettacolo, soffrono, sperano e applaudono quando all'ultimo si riesce a evitare la grande catastrofe».

E il peggio, aggiunse Bunica, era quando si mettevano in testa di avere imparato qualcosa. Quando credevano che sarebbero arrivati tempi migliori e loro si sarebbero fatti più furbi. Tutto si ripeteva, tutto tornava, aveva solo un volto diverso. (p. 101)

La struttura particolare dell’opera, associata alla prosa poetica, sensibile, dell’autrice, fanno sì che le vite dei personaggi vengano lambite con delicatezza, ma non esaurite. Alcune curiosità restano sospese, in una prospettiva però che trasmette il senso di rispetto nei confronti dei protagonisti, l’ammissione che sia impossibile – e non necessario – dire tutto.

Impariamo ad avvicinarsi a loro con garbo, cercando di coglierne il carattere attraverso l’agire, le scelte. Il focus narrativo è quasi sempre puntato su Lev, che vediamo adulto segnato dal passato, e poi ne capiamo progressivamente le ragioni: l’amore frustrato e inespresso, il sacrificio nel nome di un sentimento più alto, ma anche i compromessi, la durezza del servizio militare, il rifiuto di giurare sul fucile per la patria e quindi la condanna ai lavori socialmente utili, il legame con i nonni – da un lato Bunica, portatrice dei valori romeni, dall’altra Ferry, che appena può scappa illegalmente in quell’Occidente di cui si sente parte.

In quello che di primo acchito potrebbe sembrare un romanzo sentimentale, si annida in realtà una riflessione sull’Europa durante la Guerra Fredda, nella prospettiva della gente comune che abitava nel blocco orientale, costantemente lacerata tra il desiderio di permanenza e una progressiva ma inesorabile disillusione.

Erano diventati bravi. A non vedere, non sentire. Anche: non pensare. […]

Si erano a malapena accorti di quanto tutto fosse diventato più caro, più difficile da trovare. Se le cose succedevano gradualmente, avevi il tempo di abituarti a tutto, era quasi come se nulla stesse cambiando, come se nulla fosse peggio o meno, più freddo o più oscuro, subentrava l'abitudine, l'assuefazione. (p. 126)

Nel retrocedere nel tempo, la staticità del mondo in cui Lev e Kato sono inseriti sembra contrastare sempre più con la vivacità e lo slancio della loro giovinezza, senza che loro, peraltro, ne siano pienamente consapevoli. Mentre all’esterno si configurano dinamiche di stagnazione, a tratti di violenza, ciò che rimane mobile sono le dinamiche relazionali. In questo senso, l’autrice crea una contrapposizione tra figure granitiche, ancorate all’ideologia dominante e quindi al passato, come Valea, il fratellastro maggiore di Lev, o il padre di Kato, e altre più complesse, sfaccettate, emotivamente più duttili, come i protagonisti stessi, Lis, Ferry, o amici che diventano punti di riferimento imprescindibili per il percorso di crescita dei due giovani, come Imre, solido e integro, che per Lev quasi sostituisce la figura paterna assente, o Kamil, ribelle e creativo, che avvicina Kato all’arte, e forse anche all’amore adulto. Colpisce allora il lettore che il tumulto interiore dei protagonisti abbia origine come ribellione a una situazione di immobilismo forzato, quello in cui si trova il Lev poco più che bambino in seguito a un incidente, che grazie alla scelta narrativa dell’autrice è, nel volume, a un tempo la fine e il principio. Il tempo si riannoda così su se stesso, crea un’impressione più che di circolarità di inclusione, in cui tutto ciò che si è letto acquisisce senso pieno in virtù delle ultime pagine.

I margini del suo corpo iniziarono a sfumare, dove finiva la pelle, dove cominciava il letto? Lo spazio cedeva sotto il peso del suo corpo. Sprofondava. Nel buio spariva tutto ciò che dava un appiglio, che gli mostrava dov'erano il sopra e il sotto, dove si trovava il suo corpo nello spazio. Era sdraiato su un letto, forse andava alla deriva su un fiume o cadeva nell'acqua, sempre più a fondo. (p. 186)

È quando si trova costretto a letto che Lev impara la pazienza e l’ascolto (dei suoni della natura e della casa, ma anche delle creature e delle persone che le abitano, da un certo punto in poi anche del gatto Khalil, che come tutti i gatti appartiene a Lev, e non appartiene che a sé stesso). Ed è proprio nel risalire alle origini delle sue mancanze, dei suoi vuoti, dei suoi traumi – si potrebbe anche dire – che si colgono infine le fondamenta del suo attaccamento, la sua difficoltà ad andare, o a lasciar andare.

Cos'era Lev?

Era la stanza, il cortile, la strada in paese, la valle, le colline, il fiume. Ragnatele, viticci, sentieri erbosi e ciottoli di fiume. […] E se ora poteva pensarci e vederlo con tanta chiarezza, era perché per la prima volta era lontano.
Non sapeva cosa volesse dire andarsene. Conosceva solo le assenze. (p. 219)

C’è qualcosa che fluisce sempre, e il romanzo lo rende evidente: il tempo e la natura, che non conoscono immobilismo, non accettano opposizione. Al tempo stesso, Iris Wolff con grande grazia letteraria esplora ciò che perdura: l’amicizia, l’amore, il senso di appartenenza, la volontà degli individui di sfuggire a ogni tentativo definitorio. Radure è un romanzo malinconico e luminoso, che apre scorci improvvisi sulle vite dei personaggi, ma che lascia uno spazio fondamentale anche al lettore, sempre coinvolto attivamente nel processo di ricomposizione del puzzle esistenziale che le pagine configurano. 

Carolina Pernigo