«La vita noi mica ce la scegliamo. La vita è quello che viene»: destino, adattamento e lotta giorno per giorno per le protagoniste degli undici racconti di Andrej Longo



Undici. Non dimenticare
di Andrej Longo
Sellerio, 25 febbraio 2025

pp. 248
€ 15 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)


E questa è la mia vita.
Non lo so se è bella o è brutta. A me mi pare una vita normale, uguale a quella della gente attorno, non spero niente, non cerco niente, va bene così. (da "Sera", pp. 137-138)

Sole, queste donne sono sole: viene da pensarlo leggendo Undici. Non dimenticare, nuova raccolta di undici racconti di Andrej Longo, che sembrano fare da eco a Dieci (Sellerio, 2025). In comune è l'ambientazione napoletana, l'attenzione a dar voce a chi solitamente non ne ha una. Personaggi che vivono una vita scabra e in minore, che passerebbero probabilmente sotto silenzio, se non fosse per l'attenzione ai dettagli e la capacità di un autore sapiente di selezionare cosa cogliere e cosa narrare. 

In Undici l'attenzione è però concentrata sui personaggi femminili: spesso anche io narranti delle storie, sono in ogni caso loro il punto di vista prescelto da Andrej Longo per rappresentare una vita che è spesso fatta di miseria, responsabilità, malavita. A volte non basta lavorare senza sosta (come fa la madre di "Restituisci i colpi", che aggiusta caterve di pantaloni a cottimo o la donna di "Sera", che si divide tra pulizie e mansioni da badante): occorre fare rinunce continue, e questa è una dimensione alienante, come si legge bene in "Buste", in cui una madre depressa viene raggiunta di tanto in tanto dai figli, che sembrano non capire fino in fondo la malattia che si cela dietro il desiderio ossessivo di accumulare buste per i rifiuti (da qui il titolo). 

Ma anche quando non siamo davanti a patologie, la solitudine è una dimensione che avvolge le protagoniste: gli uomini, d'altra parte, sono perlopiù assenti (defunti come in "La porta rossa" o in carcere, come in "La vita che volevo"); se presenti, sono una presenza spesso pericolosa (come in "La tigre"), addirittura nociva per la famiglia intera ("L'ultima cena"). Che dire, invece, dei figli? I figli sono anzitutto una responsabilità: spesso sono troppo piccoli per accorgersi davvero di cosa accade loro intorno, eppure è nell'infanzia che regalano amore disinteressato e gioia ("La tigre", "La vita che volevo", "La cinese"); da adulti, possono essere concentrati sulla loro vita (forse anche per non soffrire per lo stato in cui versa la madre, come in "Buste"). Eppure ci sono forme d'amore figliale, benché non scontate, come in "Restituisci i colpi". E in due casi ("La sedia" e "Il matrimonio") è invece proprio una figlia a guardarsi attorno e a offrirci un suo sguardo sul mondo. 

Mondo che è regolato da leggi non scritte e che tutti rispettano per paura: "La sedia" è uno straordinario esempio di quanto la malavita influenzi la vita di tutti, anche di chi non vuole piegarsi alle regole (e questo, a mio parere, è un racconto particolarmente efficace che andrebbe letto nei percorsi di Educazione civica a scuola). In altri racconti sono evidenti le conseguenze della malavita: che le donne siano conniventi o meno, che lottino o accettino almeno in superficie quanto vedono attorno, si chiedono più e più volte cosa sia giusto: come educare i figli ("La vita che volevo")? Farsi giustizia da sola è l'unico modo per proteggere chi amiamo ("L'ultima cena")? Come cambiare un mondo che si regola su meccanismi di offese e vendette? Pregnante, ad esempio, che di questo parli lo spettacolo messo in scena da un gruppo di detenute in "Per sole donne":

«Noi oo' sapimmo che cos'è il dolore. Ccà dint' 'o sapimmo tutte quante. Se non ci fermiamo noi, nun se pò fermà nisciuno. E 'a rota continua a girà. Gira, gira, gira, e nun cagna mai niente» (da "Per sole donne", p. 183)

Parallelamente, scorre una vita semplice, che non si sceglie, che è «quello che viene» (p. 28) e di rado si pensa di poterla cambiare. Meglio allora adattarsi, sopportare la fatica e la stanchezza, cercando tuttalpiù forme di evasione temporaneapiccole gioie quotidiane, che possono essere un giro al mercato, la scoperta della poesia ("Sera" racchiude splendidi passaggi sul potere della lettura, scoperto per caso), l'abbraccio di una figlia ("La tigre"). Queste donne lavorano perché devono, perché serve il denaro; sono professioni umili ma che garantiscono qualcosa con cui vivere, non certo sono finalizzate a realizzarsi. La parola stessa, realizzarsi, pare completamente esclusa dal microcosmo di una periferia e di una provincia napoletana dove l'ambizione non esiste, ma si cerca di muoversi nel proprio piccolo ambito ristretto. Ma lo sguardo di queste donne è vivido, per quanto spesso dubbioso e talvolta rassegnato. Seguire i loro ragionamenti spesso raccontati con parole semplici, che attingono dal napoletano, è un modo per cambiare prospettiva, guardare all'essenziale che si cela in tante vite comuni, che sanno però andare oltre l'apparenza. 

GMGhioni  


Quando l’amore lotta per farsi spazio in un mondo ostile. L’amore “capovolto” di Sari e Osama nell’intenso “Maqluba” di Sari Bashi

Maqluba. Amore capovolto
di Sari Bashi
Voland, 7 marzo 2025

Traduzione di Olga Dalia Padoa

pp. 368
€ 20,00 (cartaceo)
€ 8,99 (eBook)

Credo che chi odia si faccia del male. Eppure odio Israele. Non odio gli israeliani. […] Odio Israele come potenza occupante. Odio Israele perché mi mancano mia madre e i miei fratelli e sorelle, e i miei amici, la mia infanzia, Gaza. Non voglio essere essere un turista nella mia stessa terra. Voglio imparare a conoscerne ogni parte, sentirla e seminarvi amore e speranza, andare in giro con mio figlio dove mi pare nel mio paese, nuotare in mare insieme a lui dovunque voglia, voglio viaggiare dovunque o in nessun luogo senza che qualcuno mi metta in prigione e mi umili. […]
Voglio la mia geografia e la mia storia. Voglio i miei sogni. Non voglio sognare soldati. Non voglio vendicarmi sugli ebrei e augurargli di venire nuovamente perseguitati. Né loro né noi.
Voglio la libertà di volere. (pp. 56-57)

Una storia vera, una storia d’amore racchiusa in un romanzo dal titolo emblematico, Maqluba, un termine arabo che traduce la parola “rovesciato, sottosopra” e indica un famoso piatto tipico arabo-palestinese in cui gli strati alternati di carne, riso e verdure vengono poi capovolti sul piatto di portata. I due innamorati, Sari e Osama, protagonisti di questa storia, sono costretti a rimettere sempre in gioco le loro prospettive, ostacolati dalla situazione politica dell’area da cui provengono, costretti a fare sempre i conti con la loro identità nazionale: lei rappresenta lo Stato occupante e aggressore e lui il popolo occupato. Sari Bashi ha la doppia cittadinanza, americana e israeliana, è un’avvocata esperta di diritto umanitario internazionale, mentre Osama Fahed è un professore universitario nato a Gaza, spostatosi poi a Ramallah. Maqluba è il romanzo dove si alternano le loro voci che raccontano, sotto forma di diario, la storia di un amore sofferto, lacerato, ma forte e autentico.

Nel romanzo Sari e Osama mostrano quanto sia difficile amarsi, anche se appassionatamente, quando bisogna in continuazione rimettere in gioco la propria identità culturale, ogni giorno, nella quotidianità delle piccole cose, andare al di là delle differenze e scoprire invece le profonde somiglianze e analogie che intercorrono naturalmente tra cultura ebraica e cultura araba. È uno sforzo a volte quasi impossibile: la donna amata purtroppo, oltre all’inglese, la lingua che consente ai due amanti di comunicare tra loro, si esprime nelle telefonate che fa ai suoi amici e colleghi nella lingua «delle guardie carcerarie» (p. 107), che ricorda a lui le umiliazioni subite in carcere, le perquisizioni continue a ogni posto di blocco al confine. Osama lo confessa:

All’età di 21 anni trascorsi un anno in prigione per aver distribuito ai residenti dei campi profughi volantini con istruzioni su quali prodotti boicottare e quando scioperare, misure per dimostrare la nostra coesione e determinazione nel voler controllare il nostro quartiere. Da allora la solidarietà si è disintegrata, i palestinesi sono stati consumati dalla divisione interna in fazioni e io mi sono ritirato dalla vita politica. Mi dico che il mio lavoro di accademico è un atto di resistenza. (p. 95)

Ma come si sono conosciuti Sari e Osama? La  prima a raccontarcelo sin dalle prime pagine è proprio Sari

Quando ho incontrato Osama, era intrappolato nella città di Ramallah, in Cisgiordania. Ramallah era la sua casa e la sua prigione. (p. 9)

La giovane era avvocata di Osama, che all’epoca della loro conoscenza era sposato con Nisrin la quale gli aveva dato anche un bambino, e aveva bisogno di continui permessi dall’esercito israeliano per potersi spostare a Londra per continuare gli studi universitari e tornare periodicamente a Ramallah allo scopo di ricongiungersi ai cari. Sari aveva fondato una organizzazione nel 2005 che si occupava di diritti umani, chiamata Ghiscià, allo scopo di fornire assistenza legale ai palestinesi che avevano bisogno di permessi di spostamento per motivi di studio, di lavoro e cure mediche.

Eravamo un’avvocata e un cliente. Lui era diverso da qualsiasi altro uomo, israeliano o palestinese, mai incontrato prima. Era tranquillo, gentile, intelligente, sensuale. […] sapevamo entrambi che ciò che desideravamo ardentemente era vietato, che non poteva accadere. Ma più ci sforzavamo di restare separati più trovavamo modi per stare assieme. (p. 11)

La relazione amorosa inizia più tardi però, dopo che Osama divorzia da Nisrin: quel matrimonio con una donna palestinese come lui non supera la prova della vita… Cosa potrà mai nascere da questo nuovo amore così ostacolato, così impossibile?  

Maqluba comincia a prendere forma nel 2010 a quattro mani e contiene le vicissitudini realmente vissute dai due protagonisti, i loro sentimenti, i loro pensieri e le loro prospettive continuamente rovesciate. Sari, ad esempio, per potersi spostare liberamente, usa le sue identità in maniera interscambiabile: se si reca nei territori occupati per raggiungere l’amato a Ramallah, deve cercare di nascondere il più possibile la sua cittadinanza, la sua lingua e la sua cultura ebraica, esibendo invece quella americana. Gli arabi occupati detestano gli occupanti e la giovane, che tra l’altro è un’atleta - detiene il record israeliano femminile di ultramaratona da 216 km - quando va a vivere per qualche tempo a casa di Osama, deve stare attenta a non allontanarsi troppo durante i suoi allenamenti mattutini di corsa per evitare di essere presa di mira o da guardie israeliane che potrebbero farle troppe domande o dai cittadini palestinesi occupati che potrebbero lanciarle pietre o insultarla una volta accortisi che è una israeliana e non una “turista” americana. Queste difficoltà vengono abilmente superate da Sari, nonostante il fatto che sopprimere la propria identità nella città dove vive l’amato, ricordarsi ogni giorno che si è parte del popolo che sta opprimendo Osama e i suoi cari, generi un logorio emotivo non di poco conto. Vivere ogni volta questo dilemma provoca in Sari  una crisi di identità, tanto da non sapere più cosa o chi vuole essere.

Non sono però gli ostacoli di tipo logistico e legali quelli che mettono in crisi il loro amore, quanto piuttosto il desiderio di Sari di avere figli da Osama: il giovane non vuole, ha paura.

Ho paura di essere legato a un bambino.
Quando ho fatto l’esercizio suggerito da Sari e ho immaginato cosa sarebbe successo tra dieci anni se avessi accettato di avere un figlio, la prima cosa che mi è venuta in mente è stata “divorzio”. Mi conosco. Non posso avere un altro figlio che non sarò in grado di proteggere, non posso dare ai miei figli un padre che potrebbe essere portato via da un momento all’altro.
Ma la amo così tanto.
Mi sento perso. (p. 319)

Riuscirà il loro amore a superare le crisi di identità di Sari e le paure di Osama? 

Maqluba è un romanzo coinvolgente, si fa leggere con piacere e la scrittura di tipo diaristico a doppia voce dà modo al lettore di addentrarsi dentro i pensieri, le paure, la rabbia dei due innamorati. Chi legge non potrà rimanere indifferente al dolore e alle gioie provate da Sari e da Osama, ma anche alla loro indignazione di fronte alla situazione dei territori occupati illegalmente da Israele. Nelle pagine dove parla di suo padre, Sari sottolinea più volte l’incomunicabilità che intercorre nel rapporto con lui, in quanto lei è profondamente antisionista, e lui invece più conciliante con l’estremismo di Israele. Bashi ha scritto un libro adatto a un vasto pubblico di lettori, la sua scrittura è immediata, senza retorica: Maqluba è un romanzo che parla d’amore, un amore unico, ma sottolineo con forza, non è un libro melenso. I fatti narrati comprendono grossomodo il primo decennio degli anni Duemila; sono, quindi, ben lontani dal massacro cui stiamo assistendo oggi dal 7 ottobre 2023, eppure la testimonianza di Sari e Osama mostra quanto sia difficile in quell’area la convivenza tra israeliani e arabi e quanto la Palestina sia dilaniata dalle fazioni politiche. Il loro Maqluba è, quindi, un romanzo assolutamente attuale, consigliato specialmente a chi vuole leggere una storia vissuta da chi ha dovuto fare i conti sulla propria pelle della realtà israelo-palestinese prima dell’ultimo anno e mezzo, sporco di sangue.

Sari Bashi nelle Note all’edizione italiana Voland, racconta ciò che accaduto a lei, a Osama e ai familiari di lui: 

Tante cose stanno cadendo a pezzi in Israele-Palestina in questo momento [notate l’unione con trattino delle due realtà identitarie, ndr]. Odio, paura, traumi e dolore domininano il panorama sociale, politico ed emotivo. Se il futuro sarà migliore o peggiore dipende da noi. (pp. 352-353)

Dimenticavo! Se volete la ricetta della maqluba, la troverete nel libro, insieme ad altre. Osama e Sari hanno arricchito spesso le pagine con gli aromi e i profumi della loro terra.

Marianna Inserra

 





 

 

"Algoritmia" di Valeria Roma: un gioco di specchi in cui il confine tra sogno e veglia si fa sempre più labile





Algoritmia
di Valeria Roma
Eretica edizioni, Febbraio 2025

pp.188
€ 17 (cartaceo)


Un libro con una struttura ibrida e due protagoniste forti, questo propone Valeria Roma con Algoritmia. Un misto tra thriller psicologico, fantascienza e introspezione esistenziale. Cosa accomuna la ventitreenne Laila, cameriera notturna in cerca di ispirazione, a Nora, quarantacinquenne giornalista in cerca di conferme? Nulla apparentemente, se non la conoscenza dello scultore Wasim, che le mette casualmente in contatto. 


Il libro si muove tra realtà e percezione, mettendo in scena un gioco di specchi in cui il confine tra sogno e veglia, tra il sé e l’altro, si fa sempre più labile. Questo è il merito e in qualche punto il limite di questo romanzo, perché la qualità riflessiva di molte sequenze supera quella narrativa, e la vicenda, soprattutto nella parte conclusiva del libro, cambia completamente prospettiva, con un finale che vira sul fantascientifico, che poteva anche essere anticipato da qualche elemento, per evitare lo spaesamento del lettore.


Al centro della narrazione le due donne, diverse per età, esperienze e prospettive, sono accomunate però da un senso di solitudine e dalla ricerca di un significato più profondo nelle proprie vite. La loro esistenza prende una piega inaspettata quando incontrano l’enigmatico scultore di maschere, ma è interessante notare come nella composizione dei personaggi si inserisca una critica sociale forte, al ruolo che oggi viene dato alle diverse età della donna, dibattito non ancora superato, e quindi al sentirsi madri di se stesse o dei figli degli altri, nel caso delle due protagoniste e in debito con la realtà, che spesso accettiamo pigramente ma che in molti casi cerchiamo di piegare a vantaggio di una verità illusoria, per poterne dettare i ritmi o per rendere più accettabili le sue contraddizioni. 


È in quest’ottica che la seria professionista Nora comincia a concedersi più spazio letterario, dentro una asfittica proposta di collaborazione giornalistica, che non premia la qualità della sua penna, ma a lei si affida per banali avvenimenti di cronaca. Cosa farà Nora? Inventerà (anche se non del tutto) e motiverà (con una soggettività fino a quel momento mortificata) per emergere come “voce” dai suoi stessi scritti. Comincerà in un certo senso a manipolare la realtà in cui vive, plasmandola, proprio come farebbe un algoritmo.


L’autrice si interroga infatti su come gli algoritmi, con la loro capacità di raccogliere, analizzare e prevedere il comportamento umano, possano ridefinire la nostra identità. Quanto di noi è autentico e quanto è il risultato di influenze digitali e condizionamenti invisibili? In questo senso, il titolo Algoritmia non è soltanto un richiamo alla tecnologia, ma anche un’indagine sulla programmabilità del destino e sulla possibilità di sfuggire a schemi che sembrano già scritti.


Oltre alla tensione narrativa, Algoritmia è anche un romanzo che si interroga sul senso della narrazione stessa. Nora, in particolare, incarna questa tensione tra realtà e finzione, tra il desiderio di raccontare e la paura di perdere il controllo del proprio racconto. In un mondo dove tutto è registrato, filtrato, categorizzato, possediamo ancora la nostra storia o siamo prigionieri delle narrazioni che altri costruiscono per noi?


Samantha Viva


Funghi fatali e profezie apocalittiche: "Il vasto territorio" di Simón López Trujillo


Il vasto territorio
di Simón López Trujillo
Mercurio Books, 31 gennaio 2025

Traduzione di Nunzia De Palma

pp. 136
€ 15,00 (cartaceo)
€ 9,99 (e-book)

D’un tratto la voce di Pedro risuonò come la frattura di un ghiacciaio. Tutti si dovettero portare le mani alle orecchie e videro, in una scena orribile, un filamento bianco, simile a fili sottili di una matassa di muschio, attraversargli la pelle verso l’esterno, solcando le ferite che liberavano delle specie di peduncoli dagli occhi, dalle braccia, dalle guance, e un largo e scuro carpoforo uscirgli da dietro la testa, sollevandosi e spargendo un odore di detrito dei boschi, mentre la gola di Pedro si gonfiava fino a scoppiare in una nube di spore che coprì la sala sotto un manto bianco.

Negli ultimi anni, un videogioco della Naughty Dog diventato instant cult come The Last of Us, a cui ha fatto seguito una serie HBO di successo dallo stesso titolo, contemplava uno scenario plausibile in cui un fungo realmente esistente, il Cordyceps, prende il controllo di cadaveri umani trasformandoli in marionette zombie con l'unico scopo di mordere altre creature viventi ed estendere la diffusione del fungo all'intera popolazione mondiale. Una delle peculiarità del Weird come genere letterario è la sua capacità di essere anch'esso un organismo mutante, non trattandosi di un movimento programmatico bensì di un termine ombrello sotto il quale si fanno convenzionalmente rientrare opere che attingono dall'immaginario del fantastico, della speculative fiction e dell'orrore. L’horror, poi, può a sua volta facilmente fondersi con il trattato filosofico, come avviene nei migliori racconti di Lovecraft; la commedia distopica viceversa può mescolarsi alla satira sociale come in Brazil di Terry Gilliam. Ed esistono poi prodotti letterari che sono come organismi vivi, che trasudano muschi, licheni, che sono disamine lucide come dei reportage, puntuali come un articolo scientifico, e inquietanti come un presagio. Il vasto territorio di Simón López Trujillo rientra in quest’ultima definizione. Tra le pagine di questo romanzo breve, sono stato guidato verso il finale dalla costante sensazione perturbante che un evento inesorabile e subdolo stesse per manifestarsi dietro l'angolo, un sentiero profetico e ineluttabile.


La narrazione del Vasto territorio si muove su due piani alternati, paralleli e simultanei. Nella prima linea narrativa ci troviamo nella cittadina cilena di Curanilahue, dove l'industria forestale domina il paesaggio, e dove la principale fonte di reddito per la classe operaia è la monocoltura delle piantagioni di eucalipto. Pedro Marambio, taglialegna che lavora per una di queste aziende, vive con i suoi due figli, Patricio, un ragazzo introverso che ha convinto suo padre a diventare appassionato di sudoku, e la piccola Catalina, che si prende cura dei gatti randagi. Tutti e tre si trovano a dover convivere con il lutto improvviso di Maria, moglie di Pedro e madre di Patricio e Cata, divorata da un male incurabile. La loro vita quotidiana è scandita dalla routine lavorativa e dalle sfide della sopravvivenza in un ambiente sempre più compromesso dall'attività umana, in uno spazio abitato prevalentemente da operai impiegati nelle piantagioni. Poi, un giorno qualunque, Pedro si sente improvvisamente male, la vista gli si appanna, crolla al suolo e finisce intubato in terapia intensiva, e suo figlio Patricio si trova a dover vegliare il padre in condizioni critiche. Al suo risveglio, Pedro si riscopre investito da deliri di onnipotenza che fa di lui un santone, assecondato dalla figura di Sebastian, scriba delle sue profezie e principale sacerdote del culto di cui Pedro viene proclamato messia, si circonda di proseliti che pendono dalle sue labbra anche grazie all'opera di convincimento di Sebastian che ne fonda il culto, appellandosi a lui come Pedro il Vasto. Le parole di Pedro vengono raccolte in un testo sacro dallo stesso Sebastian, sotto il titolo di Compendio di Pedro il Vasto.


Parallelamente, a Manchester, la ricercatrice universitaria e micologa Giovanna Oddò, originaria di Concepción, sta conducendo ricerche sui funghi e le loro interferenze con ecosistemi e organismi. Si è infatti specializzata con una tesi sulla criptococcosi, che l’ha portata a confutare relazioni simbiotiche tra i funghi che provocano patologie all’interno dei pazienti ospiti e la capacità di tali funghi di generare un processo di codipendenza tra il fungo e l’organismo ospite. È per questo che viene richiamata in Cile, per studiare un fungo dal comportamento anomalo che sembra essere all’origine del malessere che ha colpito anche Pedro, e che infatti sta proliferando nel sottosuolo delle piantagioni di eucalipto dove Pedro lavora abitualmente. Questo fungo emette filamenti bianchi che emergono dal sottosuolo, avvolgendo alberi, animali e persino esseri umani, trasformando tutto ciò che tocca. 

Scopriremo, avanzando verso l’inesorabile finale del Vasto territorio, di quanto i destini paralleli di questi personaggi che non si incontrano mai siano tra loro profondamente interconnessi, proprio come gli organismi fungini e gli ecosistemi in superficie, e su come la rapida parabola di Pedro il Vasto riecheggi oggi con la stessa efferatezza clinica di un fatto di cronaca che ci mette di fronte alle nostre responsabilità, al dialogo tra specie e tra natura e cultura, esponendo l’umanità all’orlo del precipizio, mettendo a nudo i fragili meccanismi dell’impalcatura su cui si erge l’ordine costituito, che si piega di fronte all’inesorabilità degli organismi viventi che non rispondo alle leggi degli uomini.

Con Il vasto territorio, libercolo rapido che riecheggia come un monito, Trujillo strizza l’occhio a Jeff Vandermeer e alla sua Trilogia dell’Area X, e agli scenari alienanti e infestati di Annientamento, tanto quanto al McCarthy de La strada, e lo fa non senza rendere omaggio ai maestri dell’assurdo sudamericano, come il Juan Rulfo dei racconti della Piana in fiamme, descrivendo nuove e imprevedibili forme di convivenza interspecie che vanno al di là del bene e del male, frutto delle profonde interferenze della mano umana sugli ecosistemi, che si ritorcono contro la pretesa di possesso della natura incontrollabile e in continua metamorfosi.

Matteo Cardillo

Alla riscoperta di un romanzo-mondo. I cinquant'anni di "Horcynus Orca" di Stefano D'Arrigo

 




Horcynus Orca
di Stefano D'Arrigo
BUR, febbraio 2025

pp. 1224
€ 18,00 (cartaceo)


Cinquant'anni fa, nel febbraio del 1975, dopo una lunga gestazione durata quattordici anni, vedeva la luce uno dei romanzi più lunghi e complessi della letteratura italiana del ‘900: Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo. Un romanzo-mondo, sterminato, in cui si intrecciano ben cinquantasei storie, secondo il critico letterario Walter Pedullà. Proprio di quest’ultimo è l’introduzione della nuova edizione BUR, pubblicata per celebrare il cinquantesimo anniversario di questo capolavoro, per cui negli anni si sono usate illustri similitudini (l’Ulysses di Joyce e Moby Dick di Melville). A cinquant'anni anni dalla prima edizione, la Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, in collaborazione con BUR – Rizzoli e Taobuk – Taormina International Book Festival, presentano "Horcynus Orca 50", un lungo palinsesto di appuntamenti e iniziative. Una di queste è proprio l’edizione curata dalla BUR, arricchita da fotografie e documenti inediti, uno scritto di Giorgio Vasta e la postfazione di Siriana Sgavicchia. Questa edizione è anche impreziosita da una lunga bibliografia, che consente al lettore di comprendere la portata dell’innovazione linguistica e la ricchezza dell’immaginario di questa opera-mondo.

Non è affatto semplice decidere da quale punto partire per parlare di un romanzo di tal genere. Ho scelto quindi di cominciare dalla lingua. Sebbene Pier Paolo Pasolini avesse considerato D’Arrigo un neosperimentalista, l’autore siciliano non amò mai questa definizione, ritenendosi, sì, un innovatore, ma un «classico». Maria Corti, nel 1976 non esitò a definire l’opera di D’Arrigo non tanto un romanzo quanto un poema epico in prosa, un “moderno cantare”. Primo Levi fu affascinato dallo stile “spagnolesco” ed esuberante di un romanzo che, a suo avviso, non poteva che essere scritto così, poiché è “arte e non artificio”. La lingua di Horcynus Orca è realmente abissale: neologismi e ripetizioni, allitterazioni e assonanze, elementi dialettali che però vanno al di là di qualsiasi intenzione mimetica. 
Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatre, il marinaio, nocchiero semplice della fu regia Marina 'Ndrja Cambrìa arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scill'e cariddi. (p. 57)

Questo l’incipit del romanzo che Giorgio Vasta, nel saggio introduttivo, chiama «una fata morgana del linguaggio». Ed è proprio la questione linguistica e stilistica che terrà lo scrittore avvinghiato in un rapporto che è “destino” al suo romanzo per quattordici anni, perché la trama è abbastanza semplice e facilmente riassumibile (quanto meno quella principale): all’indomani dell’8 settembre del ‘43 il marinaio 'Ndrja Cambria torna a casa (piccolo paese sullo Stretto di Messina) e nel suo viaggio di ritorno  percorre le coste devastate dalla guerra della Calabria. Attraverserà lo Stretto grazie alla figura ammaliante di una “femminota”, dall’evocativo nome di  Ciccina Circé. Una volta approdato in Sicilia, troverà un mondo completamente diverso da quello lasciato, un mondo degradato e terrorizzato dall’apparizione dell'Horcynus Orca, un mostro marino terrificante, con una piaga sul dorso che procura fetore e morte. L’Horcynus Orca è la Morte.

Il bel saggio conclusivo di Siriana Sgavicchia aiuta il lettore a dipanare alcune simbologie e alcuni lemmi del romanzo, che a me, messinese come l'autore, appaiono più facilmente comprensibili e che soprattutto sono carne e sangue dell'immaginario dello Stretto. Non a caso, al pari di un regista, D'Arrigo tornò a Messina per fare sopralluoghi, e a Punta Faro, scattò delle foto a pescatori, donne, anziani, carcasse di orche. Queste foto, al pari delle foto dei tantissimi fogli che D'Arrigo usava appendere per la casa con mollette da bucato, si trovano nella bella parte iconografica di questa preziosa edizione.

Dicevamo l'immaginario dello Stretto, ma l'immaginario darrighiano va ben oltre attingendo ad archetipi omerici  e biblici. La Morte è la protagonista indiscussa, in tutte le sue variante (storiche, naturali, mitologiche) del romanzo. Il secondo conflitto mondiale ha sparso per la Terra una scia di morte, di assurdo dolore, che ha smembrato tutto.

Qua è così pieno di morti che non ve lo potete immaginare nemmeno, è tutto un grande viavai di nudità mascoline sfigurate. Ci furono miserande roncisvalli di marinai italiani come voi, nei mare qui dintorno e sti nomi di strage, certo v'arrivarono pure a voi all'orecchio: a noi, fatevi un conto, ci arrivava perfino l'eco del cannoneggiare e lo sconquasso dei siluramenti che ci mandava il cielo e il mare di vampa, di qua dietro alla Calabria, di qua in basso di Canale e in specie, di Malta. Si partirono allora e ancora navigano sti meschinelli che vi dico, sti naviganti in cerca di 'maro approdo. Chi l'ammazzò, forse non se ne ricorda più, ma essi ancora navigano, girano, esposti a sole e luna, si rivoltano nelle onde, (p. 358)

Quel mare che «se non è Jonio, è Tirreno» incamera i morti, non li fa andare né avanti né indietro. Nonostante le parole della sua "Circe", 'Ndrja riesce a tornare alla sua Itaca, la sua Odissea sembra aver fine, ma non è così. Non c'è più una casa, l'inquietudine è ciò che crea spaesamento in qualsiasi lido. L'inquietudine è legata alla riapparizione del mostro marino più temuto, l' Orcaferone, che terrorizza tutte le fere che nuotano nello stretto (le fere sono i delfini). Le fere, nel romanzo, hanno un nome e una storia, conosciamo il loro passato e i loro viaggi e questo fa sì che D'Arrigo abbia tenuto fede a quanto si ripeteva durante la scrittura: "Guardati da Verga". Se inizialmente sembra di assistere a un neorealismo, sebbene caratterizzato da un espressivismo tra il barocco e lo sperimentale, andando avanti con la lettura la trama stupisce, coniugando senza soluzione di continuità realismo e narrazione visionaria e onirica, racconto soggettivo e corale, lingua antica e moderna, aulica e dialettale. Per farla breve, Horcynus Orca fa quanto dovrebbe fare un'opera letteraria: creare un mondo e un linguaggio che prima non esisteva.

Quando le prime duecento pagine di questo romanzo incandescente giunsero nelle mani di Elio Vittorini, lo incantarono a tal punto che le pubblicò sul «Menabò», anche senza l'autorizzazione di D'Arrigo, che la prese malissimo. Era il 1960 e da quel momento intorno a questo romanzo si creò un mito (un mito del mito, potremmo dire). La Mondadori comprò i diritti e stipendiò D'Arrigo per ben quattordici anni, aspettando pazientemente che lui decidesse di porre fine alla stesura di un romanzo che più si andava avanti, più appariva interminabile, inaggirabile come tutti i segni e come la fantasia. 

Quando il libro venne finalmente pubblicato, sorprendentemente la prima tiratura di cinquantamila copie andò esaurita in due mesi. Un caso editoriale che poi pian piano lasciò il posto a una sorta di timore reverenziale per un romanzo considerato ostico e illeggibile. La sua lingua, inoltre, ha reso arduo il compito dei traduttori, tanto che la prima edizione in lingua straniera arrivò nel 2017, in Germania, nella prestigiosa edizione Fischer.

Le fere si accaniscono in branco sull'Horcynus Orca, forse immortale, forse no, mettendo in scena una crudeltà primordiale e metafisica, che coinvolge ogni ambito del vivente.

I giorni della fera era il primo titolo di quest'opera monumentale e questi giorni ferini sembrano terribilmente attuali, la carcassa del Mostro galleggia ancora, impestando l'aria e il mare, e gli uomini si domandano se la Morte sia davvero immortale e invincibile. 

Deborah Donato 


"Impenetrabile" come le parole che non sappiamo dire: Alix Garin e la rivalsa di un corpo


Impenetrabile
di Alix Garin
Bao Publishing, marzo 2025

pp. 304
€ 29,00 (cartaceo)
€ 13,99 (ebook)

Ci sono dei fuochi che sono destinati a spegnersi, altri si appisolano, aspettando quella brezza leggera per riprendere a bruciare. Quelli che ardono forte non li puoi fermare, restano arzilli, sfavillanti di magia e passione, mentre tutto intorno è cenere e candore. Alix è impenetrabile, come il titolo del suo nuovo graphic novel, ma brucia, anche se solo poco, pochino e incostante. Sembra essere una storia qualunque, quella di una ragazza in piena estraneità col proprio corpo, un corpo che rifiuta ogni tipo di carezza. O fuoco. Eppure non ha niente di "qualunque", se nel mezzo ha "tutto".

Alix Garin è l'eccezione che conferma la regola: se per la maggior parte delle autrici e degli autori la seconda opera è la più difficile, lei torna in stato di grazia, dopo il magistrale debutto con Non mi dimenticare, e racconta una storia terribilmente personale. Impenetrabile è l'autobiografia attraverso cui l'autrice racconta, con le proprie fragilità più intime, il percorso di decostruzione e riscoperta del proprio corpo, e lo fa con coraggio, onestà e una narrazione assordante, spezzando un tabù con un pudore poco comune per un tema come quello del vaginismo. Garin fa della sincerità il proprio punto di forza e al di là del corpo, si pone domande sul suo rapporto con il desiderio, con il concetto di coppia e con il mondo, raccontando una ricerca di sé che sprona a rendere la parola "sesso" meno ingombrante e l'amore un approdo sicuro. Alix è lo specchio di una generazione che soffre per non avere impulsi sessuali ma che al contempo si lascia alle spalle il senso di colpa e solitudine imposte da una società in cui non fare l'amore è impensabile e parlarne impossibile. Per guarire, la protagonista, affronta un lungo percorso medico e psicologico, sfidando imposizioni, norme e passato.
Dai primi sintomi alla conclusione del suo percorso, passando dalle svariate diagnosi ricevute alla ricerca del desiderio perduto, Impenetrabile non è solo un racconto sensibile e intelligente, ma anche curioso e indispensabile che si presenta con tratti carichi di vitalità e testi toccanti e profondi. Le sue figure esplorano perfettamente il corpo e il sentire femminile, l'amore e la vita di coppia e col mondo. Tratteggi e colori che al meglio incarnano sentimenti di paura e confusione, alternando tavole dai toni allegri e festosi a umori totalmente malinconici e preoccupanti. 

Entrare nella pelle di qualcun altro può aiutare qualcuno a sperimentare come i corpi degli altri si muove attraverso il mondo. Ognuno ha forme, spessori, trame e attributi diversi che rendono specificamente una persona quella e non un'altra. Se i corpi non sono i detentori della nostra identità, allora non è un involucro che definisce. Il corpo, come quello di Alix Garin, non sarà mai il nostro sé assoluto e anche se potrà essere l'unica cosa fisica che sapremo mai veramente, è fragile, si rompe, si estende e cambia: è una fonte di lotta privata. Sudiamo, soffriamo e sanguiniamo per cercare di guidarlo nella nostra stessa direzione. Ogni giorno dobbiamo farcelo nostro: su misura, adornarlo e modificarlo in base alla nostra identità del momento, cercando un modo per lavorare in un costante afflusso di invecchiamento, tessuto cicatrizzante e malattie. Impenetrabile non è altro che il manifesto di un corpo che si ribella, che soffre e che ha tutta la curiosità di scoprirsi altro oltre l'immaginario

L'autrice, nella sua esperienza con il vaginismo, si trova di fronte a un corpo che diventa un ostacolo, ma anche un campo di battaglia interiore. La sofferenza fisica e psicologica che accompagna il vaginismo è raccontata con una sensibilità che va oltre la mera rappresentazione di un disturbo. Garin ci invita a entrare in sintonia con la disconnessione che una persona può provare tra la propria mente e il proprio corpo. È così che quel disagio diventa metafora di una barriera, ma anche di una condizione che, attraverso il processo di consapevolezza, può essere affrontata, analizzata e, eventualmente, superata. Il corpo, in questa narrazione, è protagonista di una continua esplorazione. Non solo fisica, ma anche mentale e emotiva. Ogni spasmo, ogni dolore, ogni difficoltà diventa un momento di introspezione, un invito a decostruire le proprie paure e a rivedere le proprie relazioni con il corpo e la sessualità. 

Impenetrabile è il racconto di corpo e mente in lotta, che ci regala una visione di rinascita, dove il corpo femminile, spesso negato nella sua potenza di piacere, diventa finalmente uno spazio di liberazione e conquista. Come una radice che si dà forza in un campo silenzioso, la riscoperta della propria sessualità diventa atto di coraggio e di rivoluzione, un cammino che porta a riconoscere la bellezza di essere intere, forti e sensuali in un mondo che spesso ci vuole "impenetrabili".

Serena Palmese

Fascista, marito, padre, poi nulla: «Anatomia della battaglia» di Giacomo Sartori


Anatomia della battaglia
di Giacomo Sartori
TerraRossa, marzo 2025 

pp. 270
€ 17,90 (cartaceo)
€ 9,90 (ebook) 

Vedi il libro su Amazon

Io avevo sempre saputo che sarebbe morto prima dell’uscita del romanzo. Ne ero certo, ne ero stato certo fin da quando lo avevo cominciato. (p. 210)

Il rapporto conflittuale del figlio con il padre è uno dei grandi topoi letterari, insieme alla vendetta e all’amore impossibile (solo per citarne un paio). Il rapporto è conflittuale di necessità, perché il padre è prima mito, nell’epoca senza tempo dell’infanzia; poi rivale, durante l’adolescenza, o almeno figura di scontro, campo di battaglia in cui portare in scena la lotta; avviene quasi sempre un distacco quando il figlio è abbastanza grande da iniziare a costruirsi una propria vita lontana dal nido familiare, quando i modelli impartiti dal padre cominciano a venire percepiti come distanti e obsoleti, qualcosa da allontanare il più possibile. Infine, il padre diviene un punto saldo a cui tornare e con il quale confrontarsi (non più scontrarsi) proprio nel momento precedente alla perdita definitiva. Il padre – quel padre che c’è sempre stato, che è esistito in quel tempo prima del tempo della nostra nascita – a un certo punto diviene altro, estraneo, irriconoscibile nella vecchiaia e poi più nulla.

È – anche – questa battaglia che Giacomo Sartori analizza, smontandola pezzo per pezzo e ricostruendone l’immagine, nel suo libro del 2005 ripubblicato quest’anno da TerraRossa nella collana Fondanti, che si occupa di recuperi di testi che hanno segnato la vita creativa di un autore. Il narratore – in prima persona e identificabile con lo scrittore in un romanzo dal forte sapore autobiografico – porta in scena la propria esistenza accanto a un padre nato in un altro mondo (metaforicamente) e in un’altra Italia (letteralmente), un’Italia che non è repubblica bensì regno, e che non è democristiana bensì fascista. Questo padre – un uomo risoluto, integro moralmente (almeno dal suo punto di vista), instancabile lavoratore e dedito all’esercizio fisico – lo vediamo dettare legge dentro casa e scontrarsi con dei figli che le sue orme non vogliono seguirle. Nato nel 1958, il figlio del padre fascista è un ragazzo che si avvicina negli anni sempre più – senza però mai farne parte veramente – al terrorismo armato di sinistra, per poi fuggire da tutto per inseguire un sogno che non è il proprio in un paese straniero dell’Africa post-coloniale dove impera la guerra civile.

Questo padre – il padre fascista che mai ha rinnegato il duce e con cui bisogna pur convivere perché è in fondo una brava persona – poi si ammala di cancro e da quel momento ogni cosa è diversa. Il romanzo tenta comunque di estendersi in tutte le direzioni – la vita del figlio lontano da casa, gli amori passati e quelli presenti, la lotta comunista – ma è a questo padre che torna sempre perché è questo il fulcro della narrazione: il padre e la sua malattia. Quando il cancro assume un ruolo centrale nella narrazione, il ritmo del romanzo accelera e tutto si concentra intorno alla lenta disfatta del padre.

Come si può intuire, i momenti finali del romanzo sono i più emozionanti, i più vividi ma anche a tratti i più difficili da digerire, pervasi da una sensazione di straziante fatalismo. Seguiamo il protagonista osservare i cambiamenti quotidiani del padre e provare a fare continue immersioni nel passato del genitore solo per confrontare l’uomo che è stato – forte, vigoroso, indomabile – con l’uomo che sta diventando. C’è una sola destinazione per quest’uomo che è stato fascista, marito, padre, ed è questo viaggio che il protagonista osserva con estrema attenzione, analizzando le piccole variazioni e scrutando i dettagli con attenzione, da un lato per provare a comprendere il grande mistero della vita e della morte, dall’altro per conservare traccia di ciò che il padre è stato e più non sarà.

Anatomia della battaglia è un romanzo complesso e duro, bellissimo ed emozionante.

David Valentini

«La meraviglia aperta sull’altrove» e gli straordinari racconti di un fuoriclasse della narrativa breve: "Le cose che non facciamo", di Andrés Neuman



Le cose che non facciamo
di Andrés Neuman
Sur, 2016

Traduzione di Silvia Sichel

pp. 155
€ 15 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

Ogni anno in questo periodo tengo un corso sulla narrativa breve; sei seminari durante i quali fornire agli studenti gli strumenti critici necessari per addentrarsi in questa forma bellissima e sfuggente, in un discorso che affonda le radici nella tradizione per arrivare alla contemporaneità. La poetica della forma breve si basa su una serie di teorie, ragionamenti e spunti oggi consolidati che vanno da Poe a Cortázar, passando per le riflessioni di Virginia Woolf, i formalisti russi, Mary Louise Pratt, il New Criticism, la critica italiana. Anno dopo anno mi addentro in questo universo critico e letterario e in una selezione sempre diversa di testi in cui la poetica del racconto si esplichi davanti agli occhi degli studenti, li stupisca per le molteplici possibilità di una forma tanto ammaliante e misteriosa. E, anno dopo anno, costruisco una mia personale mappa sentimentale degli autori e dei racconti a guidarmi in questo viaggio dentro le parole, sempre più ricca e variegata, tra tappe fisse e deviazioni, nuove possibilità, riscoperte, punti fermi. Da qualche tempo questo viaggio sosta a lungo negli spazi della letteratura latinoamericana, perché è impossibile parlare di short story senza tornare al cuento. E capita, dunque, che questa sosta mi porti a recuperare parole e autori che stavano lì ad aspettarmi, che rileggo dopo anni, che scopro per la prima volta. Quest’anno è stata la volta di Andrés Neuman, scrittore, poeta, traduttore, docente di letteratura, blogger argentino naturalizzato spagnolo: mi aspettava placido, accanto ai nostri maestri, con una raccolta di racconti in particolare, Le cose che non facciamo, uscita nel 2016 per Sur nella traduzione di Silvia Sichel e poi ripubblicata in una nuova edizione a cui è stata aggiunta una preziosissima postfazione con diversi saggi dell’autore sull’arte del racconto.

Le cose che non facciamo contiene venticinque storie, alcune anche molto brevi, suddivise per sezioni tematiche; è una raccolta pura, eterogenea, in cui ogni racconto è indipendente, non è mascherata da qualcosa di altro. Ci sono una serie di tematiche e spunti ricorrenti che attraversano i racconti ma ognuno di questi resta unico, autodeterminato. Una raccolta che colpisce in primo luogo per la straordinaria tenuta tecnica, la precisione chirurgica con cui ogni parola è stata selezionata – magistrale il lavoro di traduzione – , il ritmo, l’influenza della poesia, il sistema di immagini dell’autore. Venticinque racconti che si muovono in luoghi geograficamente non specificati, dove anche il tempo resta sospeso, e che attraversano generi letterari diversi dal realismo puro al grottesco, l’umoristico e il surreale, il metaletterario. Neuman è un artigiano della parola, lavora di scalpello e tira fuori dal blocco di marmo l’opera nella sua nuda essenzialità: non servono orpelli, le parole sono misurate e scelte con cura tra le più cariche di significato, la lingua è di volta in volta piegata all’uso della storia da raccontare e cambiano dunque anche i registri, le modalità espressive, i punti di vista, i narratori. Poetici e sperimentali a tratti, lirici e brutali insieme, i racconti di Neuman si concentrano su un quotidiano umanissimo, spesso dolente, squarciato da lampi di bellezza accecanti.

È questo che preferisco della vita a due. La meraviglia aperta sull’altrove. Le cose che non facciamo. (“Le cose che non facciamo”, p. 25)

Indaga i sentimenti, le relazioni, la crisi della coppia, la perdita, lo scorrere inarrestabile del tempo, la scrittura, con l’intensità e la precisione del poeta, in frammenti e storie brevissime ma dalle quali è impossibile staccarsi, ammaliati dalla tecnica narrativa perfetta ma mai soffocante, dall’intensità emozionale delle storie, dalla varietà della forma. Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, Neuman esplora l’intimità di una coppia, il quotidiano di rituali, le intenzioni disattese. Poche frasi, nessuna connotazione geografica o temporale, assenti anche le descrizioni fisiche dei personaggi: quello che conta, per Neuman, in tutte queste storie, è l’interiorità, i gesti, la parola. Ecco, dunque, i gesti che sanno sostituirsi alla parola che manca, come nel bellissimo “Madre di spalle”, dove tornano il tema del tempo, la vecchiaia, il rapporto genitori-figli:

Può il corpo di qualcuno trasformarsi in una spugna che, impregnata di paure, acquista densità e perde volume? Mia madre sembrava più piccola, più magra eppure più greve di prima, come incline alla terra. La sua mano porosa si chiuse sulla mia. Immaginai un bambino in una vasca, nudo, trepidante, che strizzava una spugna. E volli dire qualcosa a mia madre, e non riuscii a parlare. (“Madre di spalle”, p. 38)

Una madre anziana, il corpo diverso, la sua fragilità. Le parole, appunto, che mancano. Sono i gesti, allora, a farle risuonare, come nel finale di questo breve frammento:

E le passai la spugna sulla schiena, disegnai dei cerchi sulle spalle, gliela feci scorrere per le scapole, scesi lungo la colonna, e prima di finire scrissi sulla sua pelle bagnata la frase che non ero stato capace di dirle prima, quando avevamo attraversato insieme la frontiera. (“Madre di spalle”, p. 39)

Nelle storie di Neuman il plot è quasi sempre minimo se non inesistente: sono i sentimenti, l’interiorità dei personaggi, il dialogo, a fare la storia, quei piccoli scostamenti del quotidiano cui lo sguardo estraneo passa sopra per lo più indifferente. Una madre che invecchia, una donna che tira una riga sulla sabbia a marcare un confine invalicabile, un uomo che cerca un modo per arginare il dolore per il lutto. Poi, talvolta, quel quotidiano si apre al grottesco, la violenza si insinua sulla pagina, lascia spazio al surreale, all’imprevisto, all’eco della tradizione su cui saldamente si poggia e porta il lettore a svolte inattese: nelle ambiguità di uno scambio paziente-psichiatra dove è impossibile distinguere l’uno dall’altro, in un regolamento di conti che pare una scena di un film di Tarantino, nel sempre più assurdo confronto tra un uomo alla guida e l’agente di polizia che l’ha fermato, nelle strane occorrenze sui registri degli alberghi dove soggiorna un politico, nel monologo di un mostro. Nei racconti di Neuman storia e modo di raccontarla sono saldamente intrecciate, nel richiamo della prosa più adatta a inventare il mondo, rispondere all’intimo caos di un personaggio davanti alla nascita e alla genitorialità:

Sarò degno del suo esordio?, e cosa fare con tutta la meschinità e la crudeltà che ci trasciniamo dietro quando un figlio ci nasce, quando un figlio ci dà alla luce, cosa fare per sentire che malgrado tutto ci meritiamo un altro inizio?, ma dovremmo offrirgli anche questo, crudeltà e meschinità, sono nostre, saranno sue, abbiamo riacquistato l’innocenza […]. (“Dare alla luce”, p. 33)

Da angolature differenti Neuman esplora la genitorialità, la condizione di figli, il tempo, la responsabilità, la lingua sempre tesa, puntuale. «Ci sono amori che non si possono ripagare»: quello dei figli verso i propri genitori. Quello dei lettori di racconti, verso la grazia di certi autori.

Debora Lambruschini

#PercorsiCritici - n. 78 - Essere dei buoni padri, tra le pagine dei libri



Alle porte della primavera c'è una festività che riempie le vetrine delle pasticcerie di un dolce molto amato, le zeppole di San Giuseppe. E allora, dato che il #PercorsiCritici stavolta cade poco dopo questa data, abbiamo pensato di dedicare la puntata ai libri che propongono una figura paterna positiva.
Nella storia della letteratura, la figura paterna è stata in qualche modo sempre un grande riferimento, anche se spesso essa ha assunto delle sfumature particolarmente problematiche: basti pensare alle opere di Federigo Tozzi o di Franz Kafka. Tuttavia, in tempi più o meno recenti, altri scrittori hanno voluto omaggiare tale figura, proponendo racconti che danno luce all'amore paterno.

Ci sono libri che raccontano l'esperienza tramite la viva voce di chi l'ha vissuta: possiamo capire le difficoltà e le gioie di questa esperienza dalle parole di Paolo Longarini, che in Tutte le prime volte. Educazione sentimentale di un padre e delle sue piccole grandi donne (Harper Collins, 2018) in particolare si sofferma sulla relazione particolare e unica che un genitore maschio può intraprendere con il mondo femminile. Nel libro l'autore mette a nudo i sentimenti di un novello padre nei confronti delle figlie femmine, dando luogo ad un grande affresco di dolcezza e senza scadere mai nel sentimentalismo.

Sulla paura di diventare padre, invece, e sulle criticità che tale passaggio comporta, si concentra Giorgio Biferali, che in Sono quasi pronto (Ponte alle Grazie, 2024), indaga tutto ciò che gira intorno alla decisione di volere un figlio: relazioni complicate con i propri genitori che proiettano ombre preoccupanti, l'incertezza del futuro e la paura di doverlo affrontare. Un percorso schietto e onesto, un punto di vista sicuramente interessante.

Anche Stefano Sgambati, con La bambina ovunque (Mondadori, 2018) pone in luce le difficoltà di diventare padre e di come tale scelta prenda - letteralmente - sempre più spazio, fino a diventare totalizzante.

Ci sono padri, poi, che si trovano a dover accompagnare i figli alla comprensione di qualcosa che per loro è ancora troppo grande: Giacomo Mazzariol, in Mio fratello rincorre i dinosauri (Einaudi, 2016), racconta la sua storia come fratello di Giovanni, un ragazzo nato con la sindrome di down. Il libro racconta con efficacia il percorso del protagonista verso il fratello minore e in questo hanno un grande spazio i genitori, e un padre che con grande amore e incredibile tatto riesce a spiegare, assieme alla madre, ai figli qualcosa - di sindromi e cromosomi - che, data la loro tenera età, ancora faticano a comprendere.

Anche il papà di Carlo, in Carlo è uscito da solo (Feltrinelli, 2020), di Enzo Gianmaria Napolillo, si presenta come una figura paterna benevola, in grado di seguire la difficile crescita di Carlo, senza mai ostacolare o accelerare le difficili conquiste.

A raccontare la storia di un padre che si trova da solo a crescere un figlio è invece Gerardo Innarella, che in Per amore di un'ombra (Longanesi, 2024) alza il sipario sulle difficoltà di un papà che - per vicissitudini che lasciamo alla vostra lettura, per non guastarvi la sorpresa - cresce da solo il bambino protagonista del libro, tra ricordi e tentativi di dolcezza.

Marco Marsullo, invece, racconta la storia di Niccolò, venticinquenne che non ha nessun progetto di paternità né una relazione stabile all'orizzonte. Tutto cambia, però, quando nella sua vita appare Simona, giovane attrice in cerca di fortuna, la quale ottiene un'occasione irripetibile: una tournée di un mese. Ma chi si prenderà cura di suo figlio, che ad appena 4 anni non può allontanarsi per così tanto tempo dalla scuola e dalla sua vita? Per vari motivi e a causa di diverse circostanze, la scelta ricade su Niccolò, il quale si ritroverà a dover rivoluzionare la sua esistenza. L'anno in cui imparai a leggere (Einaudi, 2019) è un romanzo fresco, in cui un giovane scopre le difficoltà e la dolcezza di fare da padre ad un bambino.

Anche Sam, protagonista di Tutto per una ragazza (Guanda, 2018) si trova, da un giorno all'altro, ad affrontare la possibilità di diventare padre. La ragazza con cui esce, infatti, ha un ritardo del ciclo ed entrambi capiscono che ci sia la probabilità che lei sia incinta. Nel libro Hornby riesce a rendere vividamente la paura e il panico del protagonista e grazie ad un paio di stratagemmi narrativi ci mostra cosa potrebbe accadere se...

Se ribaltiamo la prospettiva, e assumiamo il punto di vista dei figli, è interessante osservare come nella produzione recente ci siano diversi titoli; possiamo citarne due, a titolo di esempio: Il mio valzer con papà (Rai libri, 2020), di Rita Dalla Chiesa, che delinea la figura celeberrima del Generale dell'Arma dei Carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa nelle vesti di padre, e La mia vita con papà (Mondadori, 2013), di Maria Carla Fruttero, ovvero la figlia di Carlo Fruttero, scrittore che con Lucentini ha formato una delle coppie di scrittori più inossidabili della nostra letteratura, dando linfa verde e viva al noir italiano. Entrambi i libri portano con sé uno sguardo commosso e offrono un tributo sentito alla figura paterna.

Infine, ci sono padri che alimentano nei figli passioni comuni oppure che li fanno crescere secondo gli ideali in cui credono. In Il buio oltre la siepe (1960), Harper Lee crea la figura di Atticus Finch, un avvocato che si trova a combattere contro i pregiudizi che sono diffusi nella società del tempo e cerca di trasmettere alla figlia tali insegnamenti; La Juventus spiegata a mia figlia (Castelvecchi, 2015), invece, racconta la commossa e appassionata dedica alla figlia di Marco Caneschi, il quale, smosso da una passione fortissima per la squadra bianconera, sceglie di raccontare questa passione e condividerla per lasciarla alla figlia.

Quindi, che si tratti di padri amorevoli o spaventati, i libri qui proposti propongono un mosaico di sentimenti diversi che raffigurano la complessità dell'esperienza di diventare padre.

Amore, tecnologia, scrittura, progresso nel nuovo romanzo di Giuseppe Lupo, "Storia d'amore e macchine da scrivere"


Storia d'amore e macchine da scrivere
di Giuseppe Lupo
Marsilio, febbraio 2025

con illustrazioni di Lorenzo Fossati

pp. 224
€ 17 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

Immaginate di ottenere un'intervista con un personaggio enigmatico che rappresenta una delle menti più geniali nel campo della tecnologia. Immaginate di fare un viaggio fino in Danimarca per incontrarlo, e provate una certa emozione lì a Skagen, perché il novantacinquenne è in odore di Nobel e porta con sé un segreto: una macchina straordinaria, chiamata Qwerty, in onore della tastiera più comune. Nessuno sa che cosa sia precisamente, ma gli esperti preannunciano che è un'«invenzione, scoperta, neorivoluzione copernicana, genialità epocale, qualcosa che cambierà la vita degli uomini» (p. 15). In men che non si dica però la conversazione vira verso divagazioni ed excursus sulla vita privata, tra lacune della memoria, accessi inattesi al passato, brucianti riflessioni sul presente e sulla tecnologia,... Intanto il tempo corre, il direttore del giornale aspetta l'articolo perché il numero deve essere chiuso, ma non riuscite a sottrarvi al vostro intervistato. Che ha un certo fascino, va detto, per quanto non sia chiaro se sia un narratore affidabile o se l'età mescoli realtà e finzione.

È questo, in buona sostanza, che accade nella cornice del romanzo di Giuseppe Lupo, Storia d'amore e macchine da scrivere, uscito nel mese di febbraio per Marsilio. Il romanzo, rubricato sulle piattaforme digitali sotto la voce di fantascienza, è in realtà di difficile definizione. 

È certamente un'opera incentrata su una biografia fittizia: colui che è chiamato da tutti Vecchio Cibernetico è in realtà Sándor Molnár, un esule, fuggito da una Budapest ostile nel 1956 in compagnia di una donna sconosciuta inviata da chissà chi che si finge sua moglie. Con loro due, in un finto viaggio di nozze, viaggia una Lettera 22, modello arcinoto di macchina da scrivere, targato Olivetti. Da quel momento la sua Lettera 22 seguirà il Vecchio Cibernetico ovunque (anche lì a Skagen), perché gli ha portato fortuna in tante occasioni, ma anche perché dentro la sua custodia sono conservate lettere e documenti di straordinaria importanza per lui. 

Anche questi scritti vengono letti dall'intervistatore, il giornalista Salante Fossi, e vengono segnalati nel romanzo in corsivo: si distinguono lettere accorate alla sua famiglia in Ungheria (in particolare alla sorella Ezster e alla piccola Margit) durante gli anni di lontananza, ma anche messaggi per Dénes Gábor, suo insegnante, sostenitore e mentore. 

In mezzo a questo viaggio disordinato nei ricordi, di tanto in tanto il Vecchio Cibernetico si interrompe e chiede dove si trovi sua moglie Ann Lee: la sua collaboratrice inventa continue scuse per giustificarne l'assenza, dal momento che, solo una volta che si è quietato, l'anziano riesce a riprendere il racconto. Inoltre, spesso il Vecchio Cibernetico pone domande a Salante Fossi: non gli basta sapere che il giornalista viene da Sant'Antioco e che ha un genuino interesse per la sua vita; vuole che si racconti anche lui. 

In queste circostanze, è difficile per Salante comporre un articolo coeso: al centro della loro conversazione dovrebbe esserci l'invenzione di Qwerty, ma il Vecchio Cibernetico pare restio a parlarne, o perlomeno si prende tutto il tempo per ricostruire con calma la sua storia: 

Poi torna al muretto: ce la faremo prima o poi a chiudere l'intervista? 
"Non si abbatta" gli fa da sostegno la voce del Vecchio Cibernetico. "Il pomeriggio è giovane".
Il pomeriggio sarà giovane, ma il direttore del «Modern Times» non è disposto ad aspettare ancora. È un problema dell'Occidente: l'accecante rapidità con cui bisogna bruciare il tempo, il desiderio di andare in fondo a ogni cosa, svuotarla e gettarla nei rifiuti come una lattina di Coca-Cola. (p. 181)

E anche noi lettori, in verità, non dobbiamo abbatterci se per qualche decina di pagine faticheremo a raccapezzarci su ciò che ci sta raccontando Giuseppe Lupo, né intravediamo la direzione che potrà prendere l'opera. Alla fine del romanzo, se avremo dato pieno credito al patto narrativo e non avremo ceduto davanti alla lentezza e alle digressioni di alcune parti, avremo modo di distinguere con una certa chiarezza una storia d'amore poetica, a tratti avventurosa e sempre fedele, in cui occorre sostenersi giorno per giorno. Coglieremo inoltre una riflessione sul ruolo che la macchina da scrivere ha avuto nella vita e nella carriera di tante persone per decenni e su quanto invenzioni ancor più evolute potrebbero rivoluzionare la vita delle prossime generazioni. Non necessariamente in meglio. 

A volerci spingere oltre, possiamo leggere in Storia d'amore e macchine da scrivere una riflessione sulla nostra civiltà, che privilegia la velocità e difficilmente accetta di sedere a lungo per percorrere tanti fili di una vita, da districare e riordinare strada facendo. Ed è un po' questa la fatica richiesta dal romanzo, fatica che si può accettare soprattutto per la bella e colta scrittura di Giuseppe Lupo. 

GMGhioni

La ripetizione del dolore e le conseguenze dei segreti famigliari: una protagonista senza nome che incarna l'adolescenza


 

Ripetizione
di Vigdis Hjorth
Fazi, febbraio 2025

Traduzione di Margherita Podestà Heir

pp. 144
€ 18 (cartaceo)
€ 9,99 (e-book)

Vedi il libro su Amazon

Succedeva ogni anno in quel periodo, si ripeteva, e la ripetizione è la serietà dell'esistenza. La speranza è come un indumento nuovo - rigido, stretto e scintillante - ma di cui, finché non lo avrai indossato, non saprai mai se le misure sono giuste o se ti starà bene, e il ricordo è come un indumento dismesso: per quanto possa essere bello, non ci stai più dentro perché sei cresciuta. La ripetizione, invece, è come un indumento indistruttibile che veste in maniera salda e delicata, non stringe né svolazza. Ero contenta di non sperare nulla, perché allora il pensiero mi spaventava? (p. 11)

Vigdis Hjorth, autrice norvegese di più di trenta libri, alcuni dei quali vincitori di numerosi premi letterari, dopo il successo di Eredità e Lontananza (entrambi pubblicati da Fazi), torna in libreria con un romanzo breve ma densissimo, doloroso e, almeno nel mio caso, inaspettatamente familiare.
Mi sono ritrovata più volte durante la lettura a fermarmi e a chiedermi se per caso l'autrice non conoscesse la mia storia, i miei trascorsi personali, la genetica della mia famiglia.
Siamo in Norvegia: una scrittrice di circa sessant'anni è a un concerto lirico di Natale (come l'autrice stessa, mi sono più volte domandata se la storia fosse in qualche modo autobiografica). Al suo fianco siede una ragazzina di sedici anni, insofferente, triste, in lacrime, angustiata dalla presenza dei genitori che vogliono a tutti i costi che si goda il concerto. 

Ma la ragazza non vuole essere lì e il suo disagio contagia sia la scrittrice e voce narrante che i suoi genitori. Questo episodio casuale costringe la nostra protagonista a fare un salto indietro nel tempo, a quarant'anni prima, quando lei stessa aveva sedici anni. L'empatia che prova per quella ragazza sconosciuta le ricorda la sua di sofferenza, la sua di storia famigliare.

[...] ma il giorno dopo accadeva la stessa cosa, scene isteriche, urla e litigi, e non capiva di stimolare proprio quello che voleva scongiurare, che la paura e le promesse che mi costringeva a farle accerchiavano e indicavano quanto desideravo in maniera oscura e vaga, quanto bramavo segretamente, senza saperlo avvertivo in me una voglia di sfidarla, di commettere un crimine ai suoi danni e nei confronti di quello che rappresentava, sentivo nascere in me una forma di coraggio e a poco a poco capii che sarei stata capace di compiere qualsiasi cosa, qualora se ne fosse presentata l'occasione, ma così non fu. Trascorrevo un sabato dopo l'altro rintanata in camera mia con Unni, suonando musica romantica. Se mia madre ci avesse riflettuto sopra, la mancanza di opportunità avrebbe dovuto rassicurarla. (p. 23)

La nostra protagonista non ha nome e non hanno nome neanche i membri della sua famiglia. Questa spersonalizzazione probabilmente è voluta, perché si tratta di una famiglia all'apparenza ordinaria - un padre, una madre e una manciata di figli maschi e femmine - ma, come tutte le famiglie, c'è qualcosa che l'autrice ci lascia intuire, qualcosa di terribile, nascosto tra le pieghe della vita di tutti i giorni.

Una vita però che non scorre a sua volta in modo ordinario: la madre - la seconda grande protagonista del romanzo - è quanto di più tremendo ci si possa augurare: la controlla, la segue, le urla contro, la ama e la odia, la soffoca, la bracca, come dice l'autrice nel testo. Una madre-mostro che non le permette di vivere, angustiata dal terrore che la figlia possa commettere degli errori - fare sesso, bere, assumere droga - ma soprattutto sembra terrorizzata dal momento in cui la figlia adolescente scoprirà i rapporti sessuali.

Perché? Perché questa angoscia? Il testo dissemina nel corso delle pagine degli indizi allarmanti. La voce narrante cerca di guidarci, come se cercasse di ricordare, o meglio, di non ricordare, perché quella memoria risalente a quarant'anni prima non è ancora sopita e scavare dentro di essa è un processo straziante. Cosa nasconde questa famiglia? Perché la madre si comporta in quel modo? Di cosa ha paura? Ci si ritrova a chiedersi se sia pazza, se sia affetta da una malattia mentale, ma più tardi capiremo benissimo le motivazioni del suo comportamento "innaturale".

E su quanto fosse stato doloroso che la storia non fosse mai più stata menzionata, non vi venisse più fatto alcun riferimento, che non dovesse esistere, che ci si aspettasse che lei, la giovane donna che ero, si comportasse come se non fosse mai successa e non la raccontasse mai a nessuno, nemmeno ai suoi fratelli, specialmente a loro, anche se o proprio perché erano indirettamente coinvolti? E quanto fosse stato doloroso il fatto che non andava menzionata nemmeno a coloro con cui l'aveva vissuta, probabilmente perché era così eloquente, svelava troppo, indicava in direzione del segreto, perché il segreto non era il mio diario. (p. 118)

Leggendo il romanzo pare di essere immersi in un'atmosfera crepuscolare, quasi apocalittica: la neve, il bianco, la natura, i lampioni gialli, le strade deserte, i boschi, le chiese sulle alture, e poi le case degli amici della protagonista - quelli sì, hanno un nome - dove può lasciarsi andare, dimenticare la madre, essere per qualche ora solo un'adolescente normale che cerca di vivere.  
Si ha l'impressione che sia sempre novembre nella vita della nostra narratrice: è novembre quando incontra la ragazzina al concerto, è novembre quando ha sessant'anni, quando ne ha sedici, quando odia sua madre, quando scrive sul suo diario (mai tenere un diario in adolescenza, questo è quello che ho imparato nella mia esperienza personale e questa storia non ha fatto che confermare il mio proposito), quando desidera morire, quando desidera fare sesso con Finn.

La lettura di questo romanzo risulterà parecchio penosa ma anche sorprendente a quelle persone, soprattutto di sesso femminile, che hanno avuto o hanno ancora un rapporto difficile con la propria madre: leggere alcuni comportamenti che si ripetono - e forse qui ci agganciamo al titolo del romanzo - uguali per tutti, come se la madre-mostro avesse delle caratteristiche comuni a prescindere dal tipo di madre, dal contesto sociale, dalla nazionalità, dal carattere, non è facile. 

Come ho detto è un romanzo doloroso, percorso da una costante inquietudine che anticipa una rivelazione devastante. Nonostante questo, consiglio fortemente il testo, proprio perché smuove l'animo, ed è questo, in fondo, che i libri devono fare: smuovere gli animi.

Mi aggancio, tra l'altro, anche alla miniserie Netflix attualmente in corso Adolescence: se l'avete vista e vi è piaciuta, vi piacerà anche questo romanzo.

Deborah D'Addetta