L'indomita forza di Amalasunta. "La regina senza trono" di Ornella Albanese




La regina senza trono
di Ornella Albanese
Mondadori, 2024

pp. 360
€ 21,00 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)


Se anche voi amate i romanzi storici e se, soprattutto, non vi fate intimorire dai nomi Amalasunta, Audefleda o Traguilano, La regina senza trono è un romanzo che vi sorprenderà. Non era semplice raccontare la femminilità, una femminilità complessa e repressa, audace e indomita, ambientando una storia di amore e potere nell'Alto Medioevo, ma Ornella Albanese riesce a coniugare il rigore storico e il rispetto della verosimiglianza con la creazione di un personaggio accattivante e attuale, senza forzature.

Siamo a Ravenna, nel 493 d.C.; Teodorico, re dei Goti, in un banchetto tende un agguato ad Odoacre, colui che aveva deposto l'ultimo imperatore romano.
È la resa dei conti che porterà alla formazione del regno romano-barbarico d'Italia, del quale gli splendidi mosaici e monumenti di Ravenna sono testimonianza. Ed è proprio il mosaico di Sant'Apollinare in Classe a essere uno dei protagonisti del libro, non solo la sua progettazione e realizzazione, ma la sua funzione eternatrice: «Perché è questo che un uomo di valore fa nella vita: lotta per conquistarsi l'immortalità» (p. 11). Questa, la vocazione che Teodorico trasferirà a sua figlia Amalasunta, nata dal matrimonio con la sorella del re dei Franchi Clodoveo, l'algida Audefleda.
«Niente è impossibile alle pietre. Possono costruire strutture temerarie trovando impensabili punti di equilibrio. Saranno loro a parlare di noi a quelli che ci seguiranno» (p. 51),

dice Teodorico in una delle sue lezioni di vita all'amata figlia. La porta a conoscere il mausoleo di Galla Placidia e le narra del sogno, stretto nelle piccole tessere variopinte che stringe in un pugno, di raccontare attraverso nuovi edifici la grandezza di lui, re amalo, e di sua figlia, della loro stirpe che prima dormiva sdraiata accanto ai cavalli, riunita in tribù, e che adesso fa a gara con i bizantini per la bellezza della propria città.

Il rapporto tra padre e figlia e l'educazione della giovane Amalasunta sono due dei fili narrativi più riusciti e avvincenti del romanzo. Educata a cavalcare e a usare la spada come un uomo, ma allo stesso tempo educata alla filosofia da Boezio, Amalasunta conserva fino alla fine un rapporto quasi paritetico con il padre, che, a differenza della madre Audefleda, seppe sempre riconoscerne il valore e coltivarne l'unicità.

Ne viene fuori un racconto di formazione nella prima parte, in cui la scrittura tersa di Albanese ci avvince alla crescita della giovane principessa, che, pur riconoscendo il destino di doversi sposare per fini politici e dovere mettere al mondo un erede necessario alla sopravvivenza dei Goti, non dimentica mai di coltivare la propria sete di conoscenza, nonché la propria complicata sensibilità. Sarà proprio questa sensibilità a portarla a intrecciare in modo indissolubile la propria vita con il suo schiavo Treguilano, prima compagno di giochi e cavalcate, poi amante e confidente.

Storia rigorosamente vera, anche la tentata fuga dei due, che costituisce un altro filo narrativo che appassiona senza mai scadere nel melò. Il dramma di Amalasunta, costretta a sposare il rude Eutarico, che la confinerà al ruolo di moglie succube e che sfrutterà le continue gravidanze per domare il desiderio di indipendenza della moglie, la rende un personaggio attuale, vibrante, senza per questo dare vita a fastidiosi anacronismi.

Alla morte di Eutarico, Amalasunta prende su di sé il destino di essere una regina per conto del figlio Atalarico, che, però, costituirà la seconda grande delusione che il mondo maschile le riserverà. Malaticcio e debole, lussurioso e incolto, Atalarico non ha la forza degli Amali, non riesce a raccogliere il destino di rinsaldare il popolo goto con quello romano. Morirà giovane, e a quel punto Amalasunta sarà davvero una regina senza trono, che, nonostante la sua abilità e la sua capacità di guidare un popolo e di dialogare con l'imperatore di Bisanzio, dovrà fare i conti con il suo essere nata donna.

L'ultima parte del romanzo segue i giochi di potere del palazzo, gli intrighi che vengono tessuti alle spalle di Amalasunta, la quale infine sposa Teodato, nell'estremo tentativo di legittimare il trono. 

La sua volontà, sempre forte come tronco di quercia millenaria, era diventata fragile come filo d'erba. La sicurezza che sarebbe morta dentro quella torre le attanagliava il cuore, Teodato le aveva parlato di un'isola inespugnabile, ed era così. Nessuno sarebbe mai arrivato a salvarla. E fuggire era impossibile. La sua mente vacillava. Sotto di lei, quelle acque così diverse dalle onde spumeggianti del mare che amava. Acque immobili, stagnanti come una palude di morte. La seconda isola solo una sagoma nebbiosa e lontana. Un posto così bello poteva diventare orribile, se si trasformava in una prigione. (p. 337)

Rinchiusa nell'isola Martana, nel lago di Bolsena, Amalasunta venne strangolata e il suo assassinio segnò la fine del regno dei Goti in Italia, perché l'imperatore Giustiniano lo prese come pretesto per iniziare la guerra greco-gotica ed invadere l'Italia. Ma il suo assassinio segna anche la prima "uccisione" del tentativo di una donna di dare la propria impronta alla storia, di fare emergere la propria unicità in un mondo che riconosceva alle donne solo il dovere di procreare e sedere silenti sul trono accanto al marito. L'ultimo sfregio fu la decisione del vescovo Agnello di cancellare il mosaico raffigurante Amalasunta.

Lo scalpellino guardò il mosaico del palatium e poi spostò lo sguardo sull'unica figura femminile. Osservò gli occhi, due frammenti di lapislazzuli a rendere lucente l'azzurro delle iridi. Osservò la bocca piccola, che sembrava ammorbidire la durezza della pietra. L'ovale del volto, pallido di alabastro. Si incantò davanti ai capelli che le coprivano la schiena con lunghi ricci. (p. 353)

Quando il vescovo Agnello gli ordinò di fare saltare le tessere, su ordine dell'imperatore Giustiniano di cancellare le tracce di Teodorico e della figlia, lo scalpellino lasciò solo una piccola mano, dalle dita sottili a cingere la colonna. Nella postfazione al romanzo, l'autrice ammette di avere liberamente attribuito tali mani ad Amalasunta, immaginando lei «che si aggrappa con tutte le sue forze a quelle colonne per non farsi inghiottire dall'oblio» (p. 357).

Deborah Donato