Una terra senza popolo per un popolo senza terra: il martirio di una nazione nel romanzo familiare e polifonico della scrittrice palestinese-americana Susan Abulhawa

Ogni mattina a Jenin
di Susan Abulhawa
Feltrinelli, gennaio 2011

Traduzione di Silvia Rota Sperti

pp. 390
€ 17,00 (cartaceo); € 14,00 (Universale Economica)
€ 7,99 (eBook)

Non ho mai visto un parco giochi e non ho mai nuotato nel mare, ma la mia infanzia è stata magica, sotto l’incanto della poesia e dell’alba. Non ho più trovato un luogo sicuro come l’abbraccio di mio padre, quando nascondevo la testa nella cavità del suo collo e delle sue spalle robuste. Non ho più conosciuto un momento più dolce dell’alba, che arrivava con l’odore di tabacco al miele e mela e le splendide parole di Abu Hayyan, Khalil Gibran, al-Ma‘arri, Rumi. Non sempre capivo ciò che dicevano, ma i loro versi erano liricamente ipnotici. Grazie a loro conobbi le passioni di mio padre, le sue sconfitte, le sue angosce e i suoi affetti. Papà mi trasmise tutte queste cose. E fu un dono splendido, che nessuno riuscì a strapparmi.

Nel momento di magica transizione tra le ultime sfumature della notte e le prime luci dell’alba, nel campo profughi di Jenin, la piccola Amal era solita svegliarsi e raggiungere il padre Hassan che l’attendeva sveglio, circondato dai libri e avvolto dal fumo di tabacco al miele e mela. È un rito che si ripeterà ancora dopo la morte di lui, anche quando quel breve periodo di tempo dell’infanzia di quella  bambina palestinese verrà oscurato dalla violenza dei loro vicini, dagli israeliani sionisti

Questo libro racconta la storia di più generazioni di una famiglia palestinese, dal 1941 al 2002: è un romanzo polifonico, poiché è presente sia la narrazione in terza persona con focalizzazione esterna, sia quella in prima persona dei personaggi più importanti delle vicende, soprattutto quella di Amal, dietro la quale si sente vicinissima la voce della scrittrice, di origini palestinesi.

Nel maggio del 1948 gli inglesi lasciarono la Palestina e i profughi ebrei che vi erano entrati a frotte si autoproclamarono stato ebraico, cambiando il nome del paese da Palestina a Israele. Ma ‘Ain Hod era vicino a tre villaggi che formavano un triangolo non ancora conquistato all’interno del nuovo stato, e il destino della gente di ‘Ain Hod si unì a quello di ventimila altri palestinesi che ancora si aggrappavano alle loro case. Respinsero gli attacchi e proposero una tregua, chiedendo solo di continuare a vivere sulla loro terra come avevano sempre fatto. Avevano sopportato molti padroni – romani, bizantini, crociati, ottomani, inglesi – e il nazionalismo per loro non aveva significato.

Il romanzo si apre col preludio, consistente in una scena al alta tensione, che si chiude perfettamente con il finale shock del libro: siamo nel campo profughi di Jenin nel 2002 e Amal guarda negli occhi un soldato che le punta il fucile contro, esitando. Non si ha il tempo di chiedersi chi sia Amal che il lettore viene catapultato indietro nel tempo, nel 1941 in un altro villaggio chiamato ‘Ain Hod: 
In un tempo lontano, prima che la storia marciasse per le colline e annientasse presente e futuro, prima che il vento afferrasse la terra per un angolo e le scrollasse via nome e identità, prima della nascita di Amal, un paesino a est di Haifa viveva tranquillo di fichi e olive, di frontiere aperte e di sole.

I nonni della protagonista, Yehya e Bassima, si avviano coi figli Hassan e Darwish, di primo mattino a raccogliere le olive prima dei vicini di casa, prima di Salim e della sua famiglia. Sono atmosfere piene di serenità e di affettuose burle tra capifamiglia, di scherzi davanti al fumo dei narghilè. In ogni pagina si sentono gli aromi della cucina araba, le giornate sono cadenzate dalle cinque preghiere giornaliere dell’ islamismo e, soprattutto, non è raro che ragazzi arabi giochino e studino con gli ebrei scampati al nazismo e rifugiatisi in quella terra: il più caro amico di Hassan è Ari, un’amicizia nata «dietro i carretti di frutta fresca, ortaggi e latte d’olio ammaccate del mercato di Bab al-Amond», nutrita di libri di poesie e lontana dalle ideologie politiche. Prima del 1948 intere famiglie di arabi avevano la loro modesta abitazione, vivevano del loro povero raccolto e la loro vita era scandita da eventi familiari tristi e lieti, dai ritmi della terra e da quelli della preghiera. Ci si innamorava, ci si sposava proprio come Hassan che sposa Dalia, una splendida e ribelle beduina, un po’ troppo turbolenta per gli standard patriarcali e da cui avrà tre figli, come viene mostrato dall’albero genealogico all’inizio del libro: Yussef, Isma’il, Amal. È con quest’ultima che si entra nel vivo della storia e i principali snodi narrativi galoppano a briglie sciolte e gli archi di tempo hanno più ampio respiro rispetto alle prime pagine dove si trovano enormi salti temporali che spesso lasciano insoddisfatto il lettore che avrebbe voluto conoscere qualcosa in più sui primi personaggi che hanno fatto capolino nel romanzo. Sono gli anni in cui gli arabi che avevano vissuto da tempo immemore su quella terra vengono strappati alle loro case, sotto la spinta degli inglesi prima e poi degli ebrei sionisti che non si fanno scrupolo di usare la violenza e di cacciare quel popolo che nel maggio del 1948 li aveva accolti:

“Hassan, si prenderanno la terra. Hanno lanciato una campagna mondiale, chiamano la Palestina ‘una terra senza popolo’. Ne faranno una patria per gli ebrei.”[…] “Le Nazioni Unite si riuniranno a novembre e sono tutti convinti che smembreranno il paese. Sono molto ben organizzati e come sai gli inglesi hanno disarmato gli arabi dopo la rivolta, anni fa. Alcuni ebrei ortodossi in città hanno organizzato un movimento antisionista. Dicono che creare un vero stato di Israele è un sacrilegio. Ma certi uomini potenti in America hanno scatenato un’accanita campagna per spingere Truman a riconoscere e appoggiare uno stato ebraico qui.” 

L’infanzia spensierata in quella baraccopoli a Jenin, fatta di piccole cose, dell’amore dei genitori e del fratello Yussef, dura veramente poco. La serenità della famiglia di Dalia e di Hassan, genitori della protagonista, è oscurata solo dal dolore per la scomparsa misteriosa dell’altro figlio, Isma’il, mentre la madre era al mercato, in mezzo alla folla. Lascio al lettore il piacere di scoprire la storia del fratello scomparso, poiché ha un significato importante nell’economia del romanzo. 

Amal prova la disperazione e il terrore dei bombardamenti sul campo profughi, quando, insieme all’amica Huda, in una buca-rifugio della cucina, sopravvive alla catastrofe umanitaria, ma deve fare i conti con il vuoto e la desolazione di ciò che rimane. Dalia sua madre, si chiude in sé stessa, in un silenzio di demenza precoce, suo padre Hassan è sparito e non si saprà mai che fine abbia fatto, il fratello Yussef, torturato e umiliato dai soldati israeliani comincia a covare nel silenzio il nero seme della vendetta.

«Certi uomini potenti in America» ho citato sopra: la storia si ripete. È un circolo vizioso che non ha fine da settantacinque anni. La storia sembra una banderuola impazzita e le vittime sono sempre i civili e i bambini innocenti. Come si può leggere questo libro senza rimanere fortemente impressionati, indignati dal momento che le stesse brutture scritte nel 2006 da Abulhawa sono sempre le stesse, sempre atrocemente uguali? E quelle che si chiamano democrazie, gli Stati occidentali evoluti (?)  ignorano i diritti umani e quello della pace? Non si tratta di ideologie politiche, ma semplicemente di umanità, di rispetto dei diritti basilari come quello di avere una casa, una terra in cui identificarsi e spostarsi senza temere di essere uccisi, violentati, umiliati, torturati.

Leggere un romanzo storico come Ogni mattina a Jenin vuol dire confermare che la realtà certe volte supera in crudezzatragediadisumanità la stessa fiction letteraria. Leggere attraverso la storia delle generazioni di Amal, personaggio principale del libro, le stesse tragedie che si ripetono imperterrite in Palestina in questi giorni in cui ho letto il libro, come in tutti i settantacinque anni dalla nascita dello stato di Israele, comprova che la massima historia magistra vitae significa che al genere umano piace ripetere gli stessi errori e non si evolve nel senso dei diritti umani.

Con così tanti libri ancora da leggere, io ho dirottato verso questo titolo che si era conservato nella mia memoria, complice l’immagine in copertina. Volevo leggere una storia che portasse le voci di queste terre martoriate, anche attraverso la fiction del romanzo. In sé l’opera non è certamente un capolavoro della letteratura: nonostante uno stile complessivamente apprezzabile, che sa colpire il lettore, trovare le parole giuste per commuovere e smuovere l’animo di chi legge, ci sono diversi difetti. Chi vuole leggere un libro che emoziona, una storia profonda con personaggi indimenticabili, ha trovato un libro d’impatto. D’altronde i libri più letti e amati dal vasto pubblico - e Ogni mattina a Jenin a suo tempo è stato in vetta alle classifiche - hanno un linguaggio diretto che traduce in maniera funzionale le emozioni, riescono a rendere vivide le immagini e raccontano una storia coinvolgente. Ma la storia di questo libro è, purtroppo, reale.
Là, sulle macerie dove prima sorgeva la sua baracca di rifugiato e dove la sua famiglia era stata sepolta viva, l’uomo era in piedi sulla soglia di un abisso e piangeva, il volto deformato dall’agonia e la voce carica di disperazione. Stringendo il corpo afflosciato del figlio, piegò il collo verso il cielo e mandò un gemito da far rizzare i capelli, una resa gutturale al proprio destino.

Ho davanti agli occhi l’immagine di quel padre seduto desolato sopra le macerie, accanto ai pupazzi dei suoi bambini morti, nelle orecchie i pianti disperati degli orfani e il silenzio assordante di quelli che, esaurite anche le lacrime, spogliati in pochi secondi dei propri affetti e della propria casa, hanno perso la parola. Se non volete piangere, non leggete questo libro.

Marianna Inserra