Abitare il cambiamento, nutrirsi dei nuovi sé: "Tre ciotole" di Michela Murgia (oltre le prese di posizione)

 

Tre ciotole
di Michela Murgia
Mondadori, maggio 2023

pp. 144
€ 18,00 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)



Non è semplice scrivere del nuovo libro di Michela Murgia astraendosi dal grande dibattito che lo circonda. Posizioni diverse nelle settimane dell'uscita, le stesse in cui l'autrice ha raccontato apertamente come sta affrontando la propria malattia, si sono confrontate in un'affollata danza di difensori e detrattori.
Questa dinamica forse incuriosisce i più, ma in alcuni lettori alla lunga può generare anche una certa stanchezza, l'impressione di trovarsi in un turbinio di voci e prese di posizione parziali che fanno a gara a chi parla (o meglio, scrive) più forte su uno stesso tema. 
La premessa serve a contestualizzare quella sensazione mista di attrazione e distanza che ho sentito quando mi sono avvicinata alla lettura, sperando di intercettare il sentire di qualche altro lettore che capita da queste parti.Chi ci segue da anni ormai lo sa: su CriticaLetteraria amiamo parlare essenzialmente dei libri.
Certo, non dimentichiamo il mondo che li circonda e quel sentire comune che inevitabilmente ne influenza il percorso. Però lo sguardo rimane sul testo, molto più sulle sue dinamiche interiori che sulle potenziali costruzioni esteriori. Lo facciamo perché è quello che meglio riflette la nostra visione della letteratura, qualsiasi forma essa assuma. 
Perciò l'obiettivo di questo mio contributo sarà parlare di Tre ciotole per quello che realmente mi è parso, scavalcando tanto i (facili) ritratti agiografici della scrittrice quanto le (ormai trite) baruffe da salotto letterario. 

Cominciamo dalla struttura: dodici racconti che nascono da momenti di crisi.
I brevi testi che compongono il volume nascono da riflessioni varie su cosa si prova e si affronta quando il mondo che pensavamo di conoscere a un certo punto implode su se stesso. Murgia ne parla come di una raccolta-romanzo, sottolineando così un'unicità di sguardo e una sistematicità di sentimento. Correlazioni tra i personaggi in effetti compaiono (e a volte sorprendono), come se questi si chiamassero a osservarsi l'un l'altro mentre le loro vite prendono direzioni impreviste.
Vengono diagnosticate malattie, ci sono coppie che si separano e devono imparare nuovi modi di vivere, si affrontano separazioni familiari e si prendono scelte senza ritorno. Tutti i personaggi hanno in comune la ricerca di equilibri emotivi alternativi, dentro situazioni che mettono di fronte all'evidenza del cambiamento. 
Una moltitudine di nuove rotte prende corpo tutta insieme, mentre i personaggi mutano e muta il modo con cui si parla di loro (diversi i tipi di racconto, i punti di vista, le scelte stilistiche). 
Il tema della raccolta ha un'indubbia attualità, eredità anche del Covid-19: come facciamo noi essere umani ad adattarci ai nostri nuovi sé. Come possiamo dare loro voce e nominarli. 

I racconti non hanno tutti la stessa forza di "sfondamento".
Mi è parsa senz'altro più evidente quella delle storie in cui il cambiamento da abitare ha a che fare con fragilità profonde dell'io: la nausea di una donna troppo stanca, la riconquista degli spazi della propria città perduta, la paura del contagio da virus, i ricordi di un trauma infantile che rivivono nel corpo senza vita di un animale. 
Altri racconti sembrano invece scritti per dimostrare qualcosa, quasi una posizione acquisita; pare di essere condotti verso una tesi guidata e si fa fatica a empatizzare.

Credo che il paradosso di Murgia in quanto scrittrice "politica" (con un certo sguardo sul mondo, un'attenzione al reale, una volontà di incidervi) sia emozionare di più proprio laddove i suoi sottotesti politici si fanno meno evidenti. Quando questo avviene si aprono squarci di maggiore complessità in cui la fragilità non fugge e non si perde e il didascalico lascia il posto alle domande. 
Per questo penso che in questa sede non abbia tanto senso interrogarsi sul fatto che l'autrice, nei libri, su Instagram o al Salone del Libro, parli o meno della realtà, dei partiti politici al governo, dell'avanzare dei fascismi, dei fatti di cronaca. Forse dovremmo commentare più il modo in cui le storie che ha raccontato parlino o non parlino di noi, dovremmo chiederci se c'è qualcosa che ci risuona dentro come persone, trovando risposte singolari.
A me è successo con l'idea della malattia e della morte, per esempio. 
E non tanto per via della stra-commentata intervista a Cazzullo, per quanto inaspettata e coinvolgente. 
Leggere il modo con cui Murgia parla della morte all'interno del libro è stato spiazzante e ho deciso di lasciare sedimentare alcune riflessioni, in attesa che i miei sé del futuro magari sapranno affrontarle, consapevole che c'è un tempo per ogni prova. 

Non credo che Tre ciotole sia il migliore libro di Michela Murgia. 
In tutta onestà non credo neanche che fosse la sua ambizione esserlo; è un volume che nasce da un'urgenza di condivisione.  
Le tre ciotole del titolo sono quelle che usa la protagonista di una delle storie per tornare a nutrirsi laddove pensava fosse impossibile farlo ancora. Di fronte al cambiamento a ognuno di noi sta la possibilità di trovare nutrimento in nuovi riti, risorse di sopravvivenza che non pensavamo di possedere.
Probabilmente dovremmo interrogarci a fondo, come singoli e come collettività, su cosa significhi davvero "sopravvivere". 

Claudia Consoli