Dare la voce a chi non sa dove andare: "Non esisto" di Alberto Schiavone

 



Non esisto
di Alberto Schiavone
Edizioni Clichy, 2023

pp. 176
€ 18,50 (cartaceo)


Il titolo Non esisto rimanda subito alla perdita di identità, alla scomparsa dell'Io, che a livello stilistico è anche una scomparsa intermittente dell'io narrante, che si disperde in una terza persona, in un discorso indiretto libero, in una miriade di discorsi diretti interrotti. Parto da qui per parlare del romanzo di Alberto Schiavone, perché lo stile sincopato e frammentario non è frutto di un vacuo sperimentalismo, ma è in necessaria corrispondenza con la storia trattata e ciò indica l'urgenza narrativa di quello che affiora in queste pagine. 
A chi non sa dove andare è la dedica di questo romanzo, nel quale diventiamo compagni di Maria, che esce di prigione e si trova sotto un cielo che è lo stesso ma è diverso da quello visto durante l'ora d'aria.
Ha disegnato questo giorno per tanti altri giorni ma ora è diverso, ora è arrivato, e la sensazione di stordimento somiglia alla prima volta che ha messo in bocca del pesce crudo. Quel pesce l'aveva presa per il collo e portata in fondo al mare, le sue narici esplodevano di tutto quell'odore e di tutto quel sapore. Respira. Soffoca. Muori. Ma non fare quel che vuoi. (p. 14)

Maria si trova davanti il deserto di una vita spezzata e le sarà poco d'aiuto l'unico biglietto che la tiene ancorata alla vita passata: il numero di telefono della sorella, che risulta inesistente.

Il viaggio di Maria non è un viaggio delle grandi distanze, ma un affondare nella memoria e un tentare, con ali tarpate, di spiccare il volo verso la dimensione della progettualità.

Molto belle le pagine in cui Maria ci porta a conoscere la periferia da cui è venuta, quella servita dagli autobus a tre cifre, quelli che passano con frequenze rare e che se li perdi imprechi almeno fino a quando non torna quello successivo.

La scuola che per lei iniziava sempre un po' prima dei suoi compagni, lei che si svegliava alla sei, che rincasava dopo. La carta stagnola ha avvolto tutto quello di cui si è nutrita, le palline ottenute con gli involucri avrebbero potuto riempire una stanza, una piscina olimpionica. (p. 25)

In alcune pagine si hanno dettagli di una tale visibilità, che ci sembra di avere Maria accanto. I suoi viaggi in autobus da adolescente, quelli in cui se si rompe l'aria condizionata è un disastro, quei viaggi  che quando lei, un unico giorno in tutta la sua vita da studentessa, ha perso la sua fermata, nessuno se n'è accorto. Il mondo della periferia, con i musi duri e le parole spizzicate, si riaffaccia nel primo pranzo casalingo di Maria, dopo la scarcerazione. Un pasto senza dubbi o domande, in cui solo il ronzio della televisione colma un silenzio che è non solo assenza di parole, ma anche un vuoto di sentimenti. Il primo vuoto che attende la vita di chi esce dal carcere. 

E se è vero che la libertà è sempre un abisso che si spalanca davanti ai nostri piedi, questo abisso è e resterà incolmabile per chi si porta cucite addosso le colpe del proprio passato. Così Non esisto ci porta a percorrere i tanti "No" che la società dei "buoni" dice a chi ha sbagliato. Maria vaga senza casa, malmenata dai teppisti, poi assunta come netturbina, perché gli ex-detenuti, in fondo, come i rifiuti, sono ciò che viene raccolto quando è buio e che la città preferisce occultare. Sospetto e diffidenza accompagnano la testarda volontà di ricominciare, di provare a farlo, di Maria, in un mondo nel quale la rivoluzione a volte è una carezza (p. 53). 

Senza retorica o senza velleità di fare una denuncia, senza pietismo o senza soluzioni preconfezionate da fornire ai propri lettori, il romanzo di Schiavone fa ciò che un romanzo deve fare: mostrare una vita, senza ricami o giudizi, senza moralismi o atti d'accusa. La forza di Maria non ha bisogno dell'intervento del suo autore e se Nessuno sa qual è il punto finale di un essere umano, è pur vero che questo libro ce lo fa intravedere, facendo ciò che la letteratura ha vocazione di fare: dare voce alla singolarità, senza cedere alla disumanità della statistica (quanti suicidi in carcere, quanti maschili, quali femminili, chi fra i condannati, chi fra quelli in attesa di giudizio).

Non ci sono "i sommersi e i salvati" in Non esisto, non c'è giustificazione o perdono, perché

Un secondo è troppo poco per dire ti amo, figuriamoci per chiedere scusa di quello che si è fatto durante una vita intera. Sbagliare è l'incubo degli adulti. L'errore, il fallimento. Meglio un cielo nero e un mare di sangue. La libertà. (p.170)

Deborah Donato