«Più della verità»: i tormenti, l'amore, la scrittura. L'invenzione letteraria di Mary Shelley nel romanzo a lei dedicato



Mary
di Anne Eekhout
Neri Pozza, novembre 2022

Traduzione di Laura Pignatti

pp. 366
€ 19 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Chissà cosa avrebbe pensato Mary Shelley di questo romanzo su di lei. Chissà se avrebbe apprezzato la commistione di generi e la mescolanza a più livelli di verità e finzione. Da anglista mi sono avvicinata a Mary, della scrittrice olandese Anne Eekhout, con la mente libera da pregiudizi, perché figure come quella di Mary Shelley hanno condizionato molto del nostro immaginario collettivo ed è naturale che accendano la curiosità di studiosi e scrittori, con un grado differente di aderenza alla vicenda biografica e critica, angolature diverse da cui osservarla e cercare di interpretarla. E se non sono mancati degli spunti particolarmente interessanti e il desiderio di rileggere Frankenstein va detto però che il romanzo di Eekhout mi ha lasciata non poche perplessità. È un romanzo, lo sottolineo ancora, e per sua natura non c’è da aspettarsi la precisione biografica o l’approccio critico alla materia trattata; è una scelta più che legittima quella di rimaneggiare la realtà e adattarla all’invenzione narrativa, “romanzare” i fatti. Ma è innegabile che davvero troppa sia qui l’invenzione letteraria e l’atmosfera stessa del romanzo che si accende di tocchi fantasy e onirici si allontana molto da ciò che era in partenza e che poteva invece risultare più interessante ed efficace nel quadro della ricca bibliografia su Mary Shelley.

Forse la scelta vincente sarebbe stata quella di non rendere esplicito il riferimento all’autrice, così che l’invenzione letteraria potesse muoversi libera, non vincolata da fatti e vicende note al pubblico anche non specialistico e la commistione di generi non stridesse con le premesse. Ma immagino anche che il richiamo diretto a Mary Shelley abbia il suo peso e questa è stata infine la scelta editoriale che lo ha portato fino a noi lettori. Quello che abbiamo davanti, quindi, è un romanzo in cui personalmente ho avvertito il peso di quanto detto poc’anzi, che non manca di alcuni spunti interessanti con cui ripensare e rileggere una figura tanto affascinante quanto la scrittrice inglese.

Eekhout costruisce una storia su due livelli temporali, concentrandosi su due momenti ben precisi separati tra loro da una distanza di quattro anni appena: l’estate del 1812, le settimane trascorse in Scozia ospite di amici di famiglia, che segna un momento fondamentale nella costruzione del personaggio Mary – qui Wollstonecraft Godwin, non ancora legata a Percy Shelley – e la primavera del 1816, il momento in cui nacque la sua opera letteraria più nota, Frankenstein. L’una raccontata in prima persona, l’altra mediante la terza. Quattro anni appena intercorrono tra i due momenti narrati, ma molta vita c’è stata in mezzo: l’incontro con il poeta Percy Shelley, la frattura con il padre, la perdita di una figlia, poi la maternità, il viaggio in Europa, le frequentazioni letterarie, i tormenti privati. Qui, o poco oltre, finisce l’aderenza con la vicenda biografica di Mary Shelley e si innesta l’invenzione letteraria che, nel suo genere, può farsi intrigante. Eekhout sceglie di dare particolare rilievo all’esperienza di Mary in Scozia e in quel mondo vede il germe della sua fantasia più celebre; i paesaggi e soprattutto il folklore locale attecchiscono nella mente vivace della futura scrittrice in una commistione sempre più indistinguibile tra realtà e finzione, tra ciò che è tangibile e i contorni sempre più onirici.
[…] si siede alla scrivania e comincia a scrivere. Prima sono parole sciolte, poi diventano frasi. Le idee si agganciano ai ricordi e intrecciandosi formano una storia che potrebbe anche essere vera. E a un tratto vede come ciò che scrive c’era già da tempo, esce fragorosamente dal bozzolo battendo i piedi per l’impazienza e la negazione, brutto, incolore e sbiadito perché pensava di essere inguardabile. Prova la sua voce, cruda e insistente, strilla. Scrive, e i colori tornano al loro posto. È orribile. E c’è. (p. 141)
Ospite di una famiglia gravata da un lutto di cui nessuno vuole parlare, Mary dopo un’iniziale distanza riesce a stringere amicizia con la figlia del proprietario di casa, Isabella: creatura affascinante, volubile, inquieta, strega la giovane Mary con i suoi modi scostanti e il mondo che le spalanca davanti agli occhi. Un mondo di miti, folklore, fantasie liberate, ma anche di incubi, timori, oscurità. Incarnati da Mr Booth, marito della sorella Margaret, che si insinua nelle loro vite, ammalia con il fascino ambiguo che possiede, per poi rivelare per un momento il vero volto.

Al racconto del soggiorno in Scozia si alterna, dicevamo, il periodo sul lago di Ginevra dove Mary e Percy, insieme al figlio William e alla sorellastra di lei Claire, trascorrono alcune settimane del loro viaggio in Europa, frequentando assiduamente Villa Diodati, dove dimora Lord Byron. Da quel soggiorno, è cosa nota, nacque Frankenstein, inizialmente pensato come un passatempo, la sfida inventata per alleviare la noia di lunghe giornate piovose: se Byron e Shelley si stancarono ben presto di assecondare l’idea di inventare un racconto del terrore, Mary e l’altro ospite della villa, il dottor Polidori, presero invece seriamente la sfida e alla fine furono proprio i loro componimenti quelli di maggior rilevanza.

Nel racconto di Eekhout del soggiorno a Ginevra la scrittura si lega soprattutto al tormento di Mary per la perdita della propria bambina, al fragile equilibrio su cui lei e Percy hanno costruito la propria relazione, all’ambiguità che li lega a Claire, ai fantasmi che non le danno tregua. I mostri del passato, che infestano i suoi incubi e i momenti di veglia, i vuoti della memoria in cui si cela l’oscurità, l’attrazione innata per tutto ciò che la ragione da sola non può spiegare.
I fulmini a volte rifulgono per alcuni secondi tra i profili degli alberi, e il mondo torna ad ammantarsi di quella stranezza silenziosa, quasi venisse tolto il velo della realtà e Mary per un momento vedesse com’è il mondo al di sotto: un mondo in cui nulla può più essere tenuto lontano con la ragione; nessun ricordo, nessun pericolo, nessuno spettro. (p. 26)
Anche dimenticando per un momento il nome della protagonista di questa storia e il suo ruolo nel nostro mondo, nel romanzo di Eekhout appaiono anche altri elementi narrativi che lasciano qualche perplessità, tra cui un certo “ingarbugliamento” che l’attenta traduzione di Laura Pignatti avrà sicuramente faticato a dipanare; la traduzione, per quel che si può vedere, è impeccabile, il problema ha radici più profonde di certo non imputabili a Pignatti o all’editore italiano, e risiede in quelle discrepanze, nel groviglio di immagini, nella confusione tra reale e immaginato che dopo un po’ perde di senso ed efficacia. È forse la virata stessa al fantasy a lasciarmi più perplessa, al pari dell’inserimento di episodi superflui ai fini della narrazione.

C’è un passaggio, tuttavia, che apre squarci interessanti e si lega a riflessioni ulteriori, nella vicenda personale di Mary e della sua famiglia, nelle sue opere letterarie, e idealmente a un discorso ancora più ampio e mai esaurito: è il tormento tra l’identità di scrittrice e quella di madre e moglie, su cui Mary si interroga.
Per un momento era scomparso tutto: gli occhi azzurri della sua figlioletta nella culla, le spalle alzate di suo padre quando era seduto alla scrivania e cercava di non sentire le voci delle bambine, Willmouse che amava come nessun altro, ma che proprio in quell’amore le stava talmente attaccato da non lasciarla mai libera, Percy e Claire, Claire e Percy, Percy che le dava e le toglieva tutto, ogni volta, lo spazio vuoto che aveva lasciato sua madre, sempre presente, proprio per la sua tremenda assenza, e poi ancora quell’ultima cosa, quella cosa che viveva dentro di lei, che c’era, anche senza parole, la nutriva, la liberava, la spaventava. E nel vuoto che tutto ciò aveva lasciato, avvertiva una gioia totale. (p. 268)
La mente è corsa veloce a E tutt'intorno il mare, di Dominique Fortier, un esempio dei numerosi che avrei potuto fare ma che per primo in tutta la sua forza mi è apparso mentre leggevo quel brano; con tutte le differenze del caso, lo squarcio con cui Fortier apre alla riflessione sul tormento dell’essere scrittrice e madre, i sentimenti confusi, il bisogno di preservare una parte di sé dalle necessità più dirette, sono in parte quelli che Eekhout immagina per la sua Mary e, con buone probabilità, gli stessi avvertiti da Mary Shelley nella realtà. Il “mostro” da nutrire, ascoltare, a cui dare spazio.

C’è ancora una cosa qui, che mi pare interessante osservare, ancora in quel brano ma che attraversa un po’ tutta la narrazione: sono i tanti tasselli che compongono l’identità di Mary Shelley, coloro che ha perduto, i suoi tormenti, le sue passioni. Ognuno di questi, a partire da quella madre mai conosciuta e il vuoto immenso che ha lasciato, hanno delineato la figura della donna, della scrittrice, della madre, della compagna. Quella che dopo la scomparsa prematura di Shelley si adopererà perché l’opera del poeta non venga dimenticata. E quella, soprattutto, della creatrice di un incubo che non smette di affascinarci e dialogare ancora con il nostro contemporaneo.
Allora abbraccia William e per un momento dimentica di essersi dimenticata di essere sua madre. Allora è tutto insieme: moglie, madre e scrittrice. Allora crede che sia possibile. Allora crede di poter essere tutte quelle cose insieme. (p. 322)

Di Debora Lambruschini