"Mašen’ka", il primo romanzo di Nabokov. Un atto nostalgico verso il primo amore e verso la patria perduta.

 







Mašen’ka
di Vladimir Nabokov
Adelphi, 2022

Traduzione di Franca Pece

pp. 150
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)



Il primo romanzo di Nabokov, Mašen’ka, è un atto nostalgico verso il primo amore e verso la patria perduta, ma è anche il racconto di «una nostalgia al contrario, il desiderio di un'altra terra sconosciuta» (p. 24). L'ambivalenza di questa nostalgia sembra già racchiusa nella sua vicenda editoriale: pubblicato  per la prima volta nel 1926 in lingua russa sotto lo pseudonimo di V. Sirin, venne poi tradotto dall'autore stesso con il titolo di Mary e ripubblicato in inglese nel 1970. L'edizione Adelphi del 2022 si basa su quella inglese del 1970, ma riprende il titolo - ben più suggestivo, in effetti - della versione originale. 
La donna dei ricordi, anelata e perduta è giusto che porti un nome russo, perché Mašen’ka fu scritto durante il primo esilio di Vladimir Nabokov (intendo per "Primo", quello europeo) di cui per certi versi ne riflette senza infingimenti l'autobiografismo. È lo stesso Nabokov nell'Introduzione all'opera ad ammettere:
La nota propensione dei principianti a violare la propria vita privata inserendo sé stessi, o un sostituto, nel loro primo romanzo è dettata, più che dall'attrattiva di un tema già pronto, dal sollievo di sbarazzarsi di sé prima di passare a cose migliori. (p. 12)

Il "sostituto" di Nabokov nel romanzo si chiama Lev Glebovič Ganin, esule russo a Berlino, che vive in una pensione di russi, la cui quotidianità è scandita più da ciò che è stato perso che da ciò che si ha. Nella pensione vivono Alferov, ometto dalla barbetta bionda oro e dalla bombetta, attuale marito di Mašen’ka, Klara, ragazzona triste e povera segretamente innamorata di Ganin, due ballerini, Podtjagin, un vecchio poeta, tutti emigrèe convinti che dopo la Rivoluzione del 1917 la Russia sia

finita, eliminata. È stata cancellata, come se qualcuno avesse eliminato da una lavagna una caricatura strofinandola con una spugna bagnata. (p. 32)

Disincantato, privo di sogni o slanci, Ganin trascina una storia d'amore con Ljudmila perché gli manca il coraggio di troncarla e, in generale, si trascina nella vita 

impotente perché non provava alcun desiderio ben definito, e questo era un vero tormento perché cercava invano qualcosa da desiderare. (p. 34)

Tutti coloro che vivono nella pensione di Lidija Nikolaevna Dorn, una piccola e sgradevole pensione dalla quale «per tutto il giorno e buona parte della notte si udivano i treni della Stadtbahn», vivono in una dimensione senza desideri, se no strampalati progetti come quello del vecchio poeta di farsi mettere il visto al passaporto per trasferirsi a Parigi. Per le strade di Berlino, un esule russo vive come un «chiaroveggente in trance» e le vite degli esuli, così come le vite dei tedeschi, appaiono mondi totalmente estranei l'uno all'altro, mondi isolati che non riescono a comunicare - se non frasi di circostanza - nemmeno nei noiosi pranzi in comune alla pensione. Ganin si risveglia dal suo torpore solo quando un episodio del presente gli mette nuovamente davanti il suo primo amore: Mašen’ka. Una sera, Alferov gli mostra una fotografia: 

E questa è mia moglie, Mašen’ka. La foto non è granché, però la somiglianza è buona. Ed eccone un'altra, presa nel nostro giardino. Mašen’ka è quella seduta, vestita di bianco. Non la vedo da quattro anni, ma non credo che sia cambiata molto. Non so come farò a resistere fino a sabato. Aspetti! Dove va Lev Glebovič? Rimanga, la prego! (p. 42)

La foto è come la madeleine proustiana e Ganin è inondato da una «reminiscenza fulgida e abbacinante della felicità passata».  Tornano allora nei ricordi le serate pietroburghese, i profumi primaverili e la pioggia, i baci insaziabili. Se i primi tre capitoli ritraggono la prosaicità della vita degli emigrèe, lo squallore del mobilio della pensione, dal quarto capitolo in poi la prosa diviene impalpabile trama onirica, sospensione temporale in un fluido racconto nel quale il passato torna ad essere presente nell'attesa di Mašen’ka, nelle emozioni del protagonista. Ganin ripiomba nel suo amore adolescenziale e, contemporaneamente, nella sua vita prima dell'esilio e si chiede:

Dove sono finite la felicità, la luce del sole, dove sono finiti quei grossi birilli di legno che crollavano e rimbalzavano che era un piacere, dov'è finita la mia bicicletta con il manubrio basso e l'enorme moltiplica? Pare che esista una legge secondo la quale nulla svanisce per sempre, la materia è indistruttibile, perciò le schegge di legno dei miei birilli e i raggi della mia bicicletta esistono ancora oggi, in qualche posto. Peccato che non li troverò mai più, mai più. Una volta ho letto una cosa a proposito dell'eterno ritorno. E se invece questo complicato solitario non riuscisse mai una seconda volta? (p. 52)

Ganin vuole provarlo "l'eterno ritorno", è convinto di andare a prendere Mašen’ka alla stazione e di portarla via, verso un futuro d'amore. Nella festa d'addio alla pensione, quando lui prepara le valigie e Alferov è impaziente di prendere la stanza di Ganin per fare alloggiare la moglie, che arriverò a Berlino l'indomani mattina, il vecchio poeta ha un malore. Si appresta a morire.  E questa simbolica morte della poesia, che rimane insieme al ricordo di Mašen’ka intrappolata nella pensione "casa dei fantasmi", predice a Ganin la decisione da prendere l'indomani.

Mašen’ka è un romanzo dalla storia quasi impalpabile, evanescente come i ricordi e i sogni, di cui però trattiene l’intensa malinconia. Succede poco, ma quel poco che succede è orchestrato benissimo, in una partitura senza sbavature. Su questo non possiamo trovarci d'accordo con l'introduzione di Nabokov, quando scrive che ama il suo primo romanzo nonostante i suoi difetti «prodotti dell'innocenza e dell'inesperienza, che qualsiasi criticonzolo potrebbe elencare con amena facilità» (p. 13). Personalmente vorrei elencare con amena facilità i tanti aggettivi, il cui uso esaltante e imprevedibile rende vivide le cose; vorrei elencare una capacità descrittiva il cui soggettivismo non inficia una visibilità e trasparenza. La prosa di Nabokov rivela già uno scrittore fuori classe e ci conduce, al pari del protagonista Ganin, in un viaggio incantato e ammaliante.


Deborah Donato