La terra, il cielo,
i corvi
di Teresa Radice e Stefano Turconi
Bao Publishing,
2021
pp. 208
€ 20,00 (cartaceo)
€
10,99 (ebook)
Inizia come una barzelletta, solo che non fa
ridere: un tedesco, un italiano e un russo fuggono da un campo di
concentramento sovietico. Non potrebbero essere più diversi, e la barriera tra
loro non è solo linguistica. Il tedesco, caporalmaggiore Fuchs, “Volpe”, è
autoritario e violento, vuole dettar legge (“tu sbraiti e pretendi risposte immediate, e hai l’inferno in quella
voce dura e lucida come il calcio del fucile. Ti muovi solo nel percorso delle
tue certezze e guai a chi contraddice la tua autorità”, p. 38); il russo è
una giovane guardia, fatta prigioniera durante la fuga, è silenzioso e
obbedisce, per salvarsi la vita; il terzo, narratore della vicenda, è l’alpino
Attilio Limonta, classe 1919, ex contrabbandiere e poi alpino e combattente
dell’ARMIR, spirito inquieto, ma anche uomo di buon senso, pragmatico.
Protettivo nei confronti del timido Vanja, è invece insofferente a Fuchs,
incarnazione di un potere stolido che lui non riconosce e rifiuta (“che ne sai tu di noi stronzi di montagna
schivi, rapaci, scaleni come i triangoli sui quaderni a quadretti? […] Sono quelli come voi che educano quelli come
noi alla ribellione”, p. 39, 40).
L’improbabile trio di fuggitivi sembra
corrispondere in pieno alla definizione di Tolstoj che, come molte altre, apre
uno dei capitoli del volume:
l’italiano è presuntuoso perché si commuove e dimentica facilmente sé e gli altri. Il russo è presuntuoso proprio perché non sa nulla e non vuole sapere, perché non crede che sia possibile sapere qualche cosa. Il tedesco è presuntuoso in un modo peggiore e più forte e antipatico di tutti, perché si immagina di conoscere la verità, cioè una scienza che egli stesso ha inventato, ma che per lui è la verità assoluta. (p. 76)
Nonostante i presupposti non promettenti, poco alla volta, passo dopo passo, la
condivisione di momenti anche difficili porta, se non a un’amicizia o a
un’accettazione, almeno a una comprensione
reciproca. Al di là dell’incomunicabilità
apparente, restituita dagli autori attraverso la scelta di non tradurre in italiano i passi in russo o
tedesco, nel contesto della suprema difficoltà le anime degli uomini possono incontrarsi, stabilire un contatto
più profondo di quello consentito dal linguaggio. La guerra d’altronde parla
una lingua universale, soprattutto per chi ne è vittima. Fuchs è al servizio di
un’ideologia per nascondere un’insicurezza – per questo appare disarmato quando
una vecchia donna, in un’isba, gli offre un sorriso. Il narratore, invece,
crede che non esistano verità assolute, né nemici, soprattutto se imposti
dall’alto; crede nella vita, unico
motivo per cui vale la pena di lottare (“ho visto uccidere per denaro, paura, invidia e potere. Ma gli assassini
più spietati lo fanno in nome delle loro idee”, p. 73).
È la sua prospettiva, che si muove continuamente tra passato e presente, tra
improvvisazione ed esperienza, a dare lettura del viaggio e delle relazioni che
si vanno creando, con un tono a tratti malinconico, a tratti sferzante, sempre
però ancorato alla realtà. È attraverso i suoi occhi affascinati che esploriamo
i paesaggi incredibili della taiga siberiana, i quali si fanno
comprimari, insieme ai loro piccoli abitanti, rapaci, passeracei, orsi o ermellini
candidi nella neve, tra le alte conifere. Il viaggio, la solitudine che i tre
viandanti talora sperimentano pur stando insieme, genera nel narratore continue
interferenze con i tempi della sua
giovinezza, che viene ricostruita attraverso lampi di ricordi. Mai
veramente in pace a causa del suo spirito
inquieto, la sua è stata una vita tra i monti e il lago di Como, che a
tratti si sovrappone nella memoria alle distese innevate.
La riflessione su ciò che è stato, non apprezzato
forse abbastanza, induce a sottolineare lo scarto rispetto alla condizione
misera del presente. Eppure porta anche ad apprezzare ancora di più il proprio,
sebbene provvisorio, essere vivi.
Il viaggio
porta con sé paura ma anche conoscenza. È così che le immagini dei compagni si possono
fare più chiare, più definite. Si possono sovvertire gli stereotipi, le
etichette iniziali. Si può anche incrociare, in un’isba, un paio di occhi blu.
E come in ogni avventura di fuga, o liberazione, qualcosa si acquisisce, almeno
in termini di consapevolezza di sé, e qualcosa – a volte tanto – deve essere
sacrificato. Attilio si racconta con la voce lirica di Teresa Radice, che
potrebbe forse sembrare poco adatta al personaggio, ma ne restituisce invece
gli intimi dissidi, la saggezza ruvida, l’appassionato attaccamento a ogni
istante strappato alla morte che incombe.
I dialoghi fra i tre protagonisti, mantenuti
nelle lingue originali, sono sfidanti per il lettore, sempre tentato di
utilizzare un traduttore per non perdersi niente. Bisogna però guardarsi dal
non eccedere in tal senso per non tradire il senso dell’opera, che vuole
mostrare proprio lo spaesamento dato
dalla mancanza di un terreno di comunicazione comune, ma anche la presenza
di altre forme, più viscerali, anche se sempre provvisorie, di contatto tra
esseri umani.
La terra, il
cielo, i corvi, il cui titolo deriva da una frase di Mario Rigoni Stern, è
una delle cose più belle che ho visto nell’ultimo periodo: il collaudato duo
Turconi-Radice (qui la recensione a uno dei loro volumi) riesce a creare un’opera poetica, malinconica, commovente e che
pure non risparmia niente della durezza del tempo di guerra, che ci viene
trasmessa anche da tanta memorialistica qui apertamente richiamata. Attraverso
le tavole acquerellate, i delicati trapassi cromatici, si restituisce la straziante solitudine di ogni uomo costretto
a una battaglia che non gli appartiene, a compromessi morali indotti dalla
necessità, a una continua revisione della propria posizione nel mondo. Al contempo, viene offerta la prospettiva di
un riscatto che passa attraverso la pietas
rivolta agli altri, lo spirito critico sempre attivo rispetto alle
ideologie imposte e spacciate per assolute, la capacità di far tesoro di ciò
che è stato per un futuro diverso.
Carolina
Pernigo