“Singing 9 to 5”: Sarah Smarsh su un’icona della musica country, nel suo «Una forza della natura. Dolly Parton e le donne delle sue canzoni»


Una forza della natura. Dolly Parton e le donne delle sue canzoni
di Sarah Smarsh
Edizioni Black Coffee, febbraio 2022

Traduzione di Federica Principi
pp. 208
20,00 € (cartaceo)


Nel film 9 to 5 (1980), in cui recita accanto a Jane Fonda e Lily Tomlin, è Doralee Rhodes, ingenua segreteria del direttore dell’azienda, del tutto cieca di fronte alle avance di quest’ultimo e priva di malizia, nonostante l’aspetto appariscente. In Fiori d’acciaio (1989), in cui è circondata da un magnifico cast al femminile, tra cui Julia Roberts, Sally Field e Shirley McLain, è Truvy Jones, schietta e adorabile parrucchiera di una cittadina di periferia della Louisiana. Un fil rouge interpretativo di ruoli complementari, che si incastrano nelle maglie che costituiscono la fibra stessa di colei che è Dolly Parton, artista country, incredibile imprenditrice nel settore dell’entertainment e generosa benefattrice. 

Una figura che qui in Italia potrebbe non è essere poi così familiare, ma che in America e in molte parti del mondo è conosciuta come un vero e proprio idolo, grazie a una carriera piena di stravolgimenti, battaglie combattute e di canzoni amatissime. È da pochissimo uscito per Edizioni Black Coffee Una forza della natura. Dolly Parton e le donne delle sue canzoni, uno splendido saggio di Sarah Smarsh, autrice già amata dalla casa editrice con il suo memoir, Heartland, dove racconta della sua infanzia ed esperienza di vita nel Kansas più povero e duro.

Penna acutissima nel centrare il nocciolo di questioni complesse, Smarsh racconta di Parton in maniera oggettivo, ma al contempo intima. Intreccia alla vita vissuta di Parton, alle “donne delle sue canzoni” appunto, e alle versioni di se stessa che ha deciso di mostrare al mondo un ritmo personale, scandito dai suoi ricordi di vita nel Kansas, insieme alla madre e alla nonna Betty, convolata a nozze per sette volte prima di trovare “quello giusto” e approdata dopo varie peripezie in un lavoro abbastanza dignitoso da permetterle di rimanerci fino alla pensione.

Le similitudini tra Smarsh (e nonna Betty) e Parton sono innegabili. Entrambe risorte da un’infanzia difficile e piena di privazione, hanno costruito per se stesse, mattone dopo mattone, un futuro fatto di dura pietra, solide nei loro principi così come nei loro ideali. Parton, nata nel 1964 e cresciuta tra i monti Appalachi, nella sua Tennessee Mountain Home, come racconta in quella sua vecchia canzone, conosce sì un amore familiare resistente a una vita umile, ma anche la dilagante, negli anni della sua giovinezza, soppressione di qualunque aspirazione altra (oltre i canoni tradizionali e socialmente imposti) che una donna potesse avere. Da subito un talento musicale innato, a diciotto anni si trasferisce a Nashville per cercare di mettere un piede nella musica country. Come racconta Smarsh, il suo grande trampolino di lancio è lo show di Porter Wagoner, con il quale si instaurerà un difficile rapporto negli anni, che porterà Parton a decidere attivamente di prendere il volo da sola e abbandonare il controllo morboso di Wagoner. Un addio dolce amaro scandito nel testo di I Will Always Love You, in seguito resa pazzamente famosa da Whitney Houston. 

Che risalga le classifiche o meno, è ormai noto che la sua vita sia stata un continuo abbattere muri – per le artiste, per le ragazzine povere armate di sogni, per le donne che volevano fare il capo senza dover nascondere il proprio seno. (p. 124)

A prescindere dalle sue greatest hits, da Jolene a 9 to 5 a Coat of Many Colors, la cantante, con le sue parrucche bionde esagerate, forme importanti e vestiti traboccanti di glitter, ha costruito negli anni un personaggio che sarebbe stato fin da subito etichettato come fuori dagli schemi e potenzialmente incompreso. Ma nulla in Parton è per caso. Tutto nella sua persona è attentamente studiato e sottoposto al giudizio del pubblico, che viene invitato all’apertura mentale oltre che ad ascoltare la sua musica, inseguendo un ideale di donna libera e senza inibizioni patriarcali. D'altronde, Johnny Cash vestiva di nero «in segno di ribellione contro lo status quo e in difesa degli oppressi, e per questo motivo tutti lo lodavano. Ed è proprio questa la differenza tra una donna e un uomo che lanciano un messaggio sociale attraverso il proprio stile di abbigliamento.» (p. 39) Il suo aspetto fisico è il diretto riflesso del progetto che Dolly Parton ha messo in piedi per costruire se stessa, dalle sue radici e della sua infanzia in Tennessee. L’amore che qui le è stato insegnato viene tuttora portato avanti da un’ingente opera continua di beneficenza, soprattutto votata a iniziative di alfabetizzazione (il papà non sapeva né leggere né scrivere). 

Come scrive Smarsh, fin dal principio «Dolly ha dato voce ai due istinti opposti che l’animavano – quello cioè di tirarsi fuori da un luogo claustrofobico e al tempo stesso di continuare ad appartenergli» (p. 23). Attitudine che anche Smarsh si ritrova a condividere a pieno. Attitudine che si ritrova nello spirito stesso della musica country degli anni ‘50 e ‘60, quando Parton iniziava la sua carriera e condivideva la scena con altre fantastiche artiste, tutte con storie incredibilmente tristi e difficili, piene di talento, di animo e di sgomento da tirare fuori. 

La trasfigurazione del dolore in potere è una caratteristica di qualsiasi genere musicale, oserei dire di ogni forma d’arte. Per le donne povere, però, in ballo non c’è una semplice canzone ma la vita vera, e questa non è una finzione, è la realtà. Al pari di Loretta Lynn, Tammy Wynette, Patsy Cline e molte altre artiste country venute prima e dopo di lei, anche Parton esprime tutto questo in musica. (p. 30)

Smarsh precisa un aspetto molto importante che la musica country, quella di queste artiste emergenti nella loro epoca, rappresentavano: «Per la mia famiglia la musica country era prima di tutto un linguaggio condiviso dalle donne. Era il modo in cui comunicavamo in un posto dove dei sentimenti non si faceva parola.» Descrive sua madre mentre le diceva di ascoltare attentamente il testo delle canzoni, «ed ecco che dal suo giradischi, dal lettore cd o dal mangianastri usciva un qualche messaggio sulla vita, gli uomini, la sopravvivenza.» (p. 36)

Questo saggio di Sarah Smarsh non è perciò una mera celebrazione di una donna intelligente che ha saputo sfruttare il suo talento per fare successo e raggiungere i suoi obiettivi. Non è un semplice tributo a Dolly Parton in quanto artista amata dalle donne della sua famiglia. È l’introduzione a una parte di storia della musica country, quella fatta di esclusione e discriminazione di genere e di razza (purtroppo ancora piuttosto imponente anche oggi); è poi la spiegazione di un fenomeno, la diretta manifestazione storica di come una persona, una donna, sia riuscita a riunire nel suo “essere pubblico” tematiche forti e fondamentali come l’auto-accettazione, il desiderio di eguali opportunità fra sessi, il monito a essere se stessi senza filtri o abbellimenti; una persona che è apprezzata da donne e uomini così come dalla comunità LGBTQI, da americani e non. Quel femminismo non razionalizzato che Parton ha sempre portato avanti nella sua forte posizione di apoliticità la rende, per questo, ancora più solida e, in qualche maniera, condivisibile e interpretabile. 

Forse non è una coincidenza che la popolarità di Parton sembri aver raggiunto l’apice nello stesso anno in cui l’America era sul punto di andare a rotoli. Un oggetto spezzato agogna la propria interezza, ed è questo che Dolly Parton ci offre: una donna che racchiude in sé passato e presente, ricchezza e povertà, femminile e maschile, Gezabele e Maria, l’allontanamento da casa e il dolce ritorno. (p. 46)

Lucrezia Bivona


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