#IlSalotto - Le occorrenze, la stratificazione del testo, la sua fascinazione. Intervista a Gabriella Bosco, traduttrice di "L'ora e l'ombra" di Pierre Jourde



La stratificazione del testo, gli echi letterari, le atmosfere evocative e la profondità di tematiche e spunti con cui confrontarsi: Prehistorica editore ha portato in Italia uno dei più importanti autori francesi contemporanei, Pierre Jourde, autore tra gli altri di Paese perduto e L'ora e l'ombra, due romanzi magistrali. Una lettura ricchissima, dalla quale è scaturito il bisogno di confrontarsi con chi del testo ne conosce ogni dettaglio e difficoltà: Debora Lambruschini ha intervistato la prof.ssa Gabriella Bosco, traduttrice di L'ora e l'ombra.

Le narrazioni di Jourde, dense di echi letterari e filosofici, si posizionano fuori dal tempo e appaiono indifferenti al contemporaneo, collocandosi in una dimensione letteraria ideale, tesa fra ricordo, memoria, quotidiano, in cui passato e presente si intrecciano. Per il lettore secondo lei questo che cosa comporta? È la virtù della grande letteratura quello di estraniarsi dalla realtà, dalle sue urgenze, per tornare a interrogarsi su mai esaurite tematiche quali identità, tempo, caducità?
L'ora e l'ombra
di Pierre Jourde
Prehistorica, 2021

Traduzione di Gabriella Bosco

pp. 237
€ 18 (cartaceo)
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I testi di Pierre Jourde sono stratificati come pochi altri, sono dei palinsesti. In L’ora e l’ombra ci sono molte tracce: da Hugo a Huysmans, da Nerval a Tardieu al conte de fées, a tanto altro ancora. Jourde ne parla come di una sorta di riscrittura della Sylvie di di Nerval, Gianmaria Finardi ci vede uno stretto rapporto con Proust nel senso della ricerca di un tempo passato, forse perduto, che il libro comporta, indubbiamente una dimensione molto forte, e il libro è, è vero, il racconto di una ricerca imperniata su una figura femminile che si chiama in effetti Sylvie. Ma insieme è tante altre cose.
Il pericolo, per chi lo traduce come per chi lo legge, è in realtà doppio: da un lato, non vedere tutto quello che c'è nelle sue pagine, negli interstizi e nei ripostigli che l’autore allestisce ininterrottamente; ma allo stesso tempo vedere troppo, rincorrere le allusioni, gli echi, gli ammiccamenti, rischiando di perdere il filo della narrazione. La sfida principale che Jourde ci lancia è proprio questa: che accettiamo di seguirlo dove lui vuole portarci, resistendo alla tentazione, o al rischio, della sovraesposizione. I suoi romanzi, straordinariamente evocativi, sono fatti in gran parte di atmosfera, e di sfumature. Per coglierle, e individuarne i colori, è più che mai necessario accettare il patto proposto, che è testimoniale: i grandi temi presi in carico attraverso i grandi testi del passato letterario ma interpretati sulla base di un’esperienza personale determinante, fatta di gusto, sensibilità, provocazione e sintesi. Sono romanzi pieni di letteratura e allo stesso tempo antiletterari, nel senso che - ferma restando la dimensione del palinsesto prima evocata – è tuttavia costantemente presente l’interrogazione da parte dell’autore sulla possibilità di rapportarsi con il reale senza bisogno di passare per il discorso (troppo) letterario. In pratica, la scrittura di Jourde è un filo teso come la corda su cui avanza l’equilibrista. Restarci sopra e seguirlo nelle sue evoluzioni è in realtà facilissimo: basta tenere gli occhi fissi al punto luminoso che costantemente traspare dietro il velo, in fondo a ogni frase.

Quali sono state le sfide principali di questa traduzione? Paese perduto, altro romanzo straordinario di Jourde, era stato tradotto da Claudio Galderisi, nell’approcciarsi alla traduzione di L’ora e l’ombra si è confrontata anche con quella traduzione di Jourde che l’ha preceduta? Da lettrice la polifonia del testo e i contrasti su cui è costruito (l’alternanza di registri, tematiche e stile) è assai affascinante e la sua resa, prof.ssa Bosco, davvero magistrale.
Grazie! Il suo apprezzamento mi lusinga e risuona in me: sul mestiere della traduzione pesa una lunga storia di disattenzione critica, in Italia forse più ancora che altrove. Il fatto che oggi le responsabilità di chi dà voce alle scritture altrui siano oggetto di ritrovato interesse non può non essere sottolineato e salutato con gioia. Vengo ora alla risposta, che va data in due tappe. Paese perduto nella traduzione di Claudio Galderisi l’ho letto vari mesi prima di sapere che sarei stata a mia volta traduttrice di Jourde. Gianmaria Finardi mi aveva contattata per chiedermi di presentare il libro al Circolo dei Lettori di Torino e in quell’occasione mi aveva fatto avere una copia di Paese perduto. All’epoca, era il novembre del 2019, di Jourde conoscevo altri testi, era un autore cui mi ero molto interessata in occasione del caso provocato da un pamphlet che aveva scritto nel 2002, intitolato La littérature sans estomac, la letteratura senza stomaco, titolo che ricalcava quello di un celebre pamphlet di mezzo secolo prima scritto dal grande Julien Gracq, autore spesso citato come uno dei padri letterari di Jourde, La littérature à l’estomac. Un testo in cui Gracq se la prendeva con l’industria culturale allora nascente: era il 1950. L’anno successivo, vincitore del Goncourt per Le rivage des Syrtes, coerentemente rifiutò il premio. Jourde, a sua volta, a cinquant’anni di distanza da Gracq, se l’era presa senza mezzi termini e senza falsi pudori con molti grandi nomi della letteratura e della critica letteraria francese, osando denunciare i meccanismi di un certo giornalismo culturale di cui individuava il modello nel Monde des Livres diretto all’epoca da Josyane Savigneau, a lungo considerata la zarina del giornalismo letterario francese, longa manus – molti hanno ritenuto – di colui che è stato per decenni uno dei protagonisti più potenti e più odiati al tempo stesso dell’intellighenzia parigina, Philippe Sollers. Jourde dopo esser stato collaboratore di quel supplemento letterario, ne aveva denunciato nel suo pamphlet metodi e sistemi. All’uscita del libro era seguito un vero e proprio crucifige nei confronti di colui che aveva osato dire “il re è nudo”, che aveva osato attaccare i detentori del potere culturale, quelli che si ritenevano tali e che in virtù di ciò, secondo Jourde, facevano il bello e il cattivo tempo nel mondo letterario dal quartier generale della capitale francese, accentratrice e tirannica.

Sì perché Jourde, benché nato a Créteil, nella banlieue parigina, da famiglia di origini alverniati, ha svolto per molto tempo la sua attività di professore universitario, di scrittore e di critico, lontano dal centro, a Grenoble, nell’Alta Savoia, che da sempre è culturalmente vivacissima e non propriamente succube della cosiddetta élite parigina. E conoscevo bene un altro libro di Jourde, scritto a quattro mani in collaborazione con uno studioso, critico, professore universitario, caro amico sia suo che mio, Paolo Tortonese, voglio dire Visages du double, uno studio del 1996 molto ricco e pieno di cose interessantissime dedicato alle molteplici immagini del doppio presenti nella storia della letteratura. Altra ossessione di Jourde. Paese perduto invece lo leggevo direttamente in italiano senza passare per l’originale francese, che avrei letto dopo. Questa inversione dell’ordine aveva destato in me sensazioni interessanti. Quasi che l’autore del libro fosse Galderisi e il traduttore Jourde. È strano da spiegare. La patina di passato che corre da una versione all’altra era come una conferma reciproca. La ricreazione del micromondo rurale fermo nel tempo ne veniva fuori con forza doppia, il doppio essendo anche in quel romanzo una cifra diegetica oltre che stilistica. Di quella particolare esperienza di lettura ho tenuto presente quando ho affrontato la traduzione de L’ora e l’ombra. Tornando alla sua domanda, e ora alla seconda parte della risposta, la sfida principale è stata in questa occasione proprio intonarmi alla polifonia che lei opportunamente ha sottolineato. In altre occasioni si tratta di trovare la voce, il tono. Qui si trattava di trovarne un certo numero, e di farle interagire riproducendo, ripercorrendo le dinamiche complesse ma singolarmente fluide inventate dall’autore. La sfida principale ma anche il divertimento straordinario di questa traduzione. 

Che cosa tradurre, che cosa lasciare nella sua versione originale? Penso per esempio, in Paese perduto, ai termini francesi di alcuni piatti tipici, l’uso misurato delle note del traduttore a pié pagina. Ho avuto l’impressione, anche leggendo la nota del professor Galderisi, di profondo rispetto per il testo e per il lettore, del desiderio di non infrangere quel patto fra lettore e autore e la necessità di uno straniamento da tutto ciò che potesse distrarlo dall’immersione totale nella lettura. Lei che cosa ne pensa? Quale potrebbe essere il punto centrale della sua personale nota del traduttore?
Dovendo io scrivere una nota sul lavoro di traduzione de L’ora e l’ombra userei la metafora della boxe, anzi meglio la figura della boxe, sport di cui Jourde ha una profonda conoscenza personale per averlo a lungo praticato e cui volentieri si riferisce nel parlare della propria scrittura: è lui stesso a dire che il romanzo è un luogo dove far esistere due coscienze nei loro rapporti reciproci, così come la boxe – ecco l’immagine – fa esistere due corpi uno in rapporto all’altro. La mia esperienza come traduttrice de L’ora e l’ombra è ben descritta da questa immagine. Si tratta di un romanzo estremamente dinamico, benché fatto di una stoffa sostanzialmente onirica. Al di là dei personaggi, numerosi e virtuosisticamente combinati in svariati doppi da rincorrere lungo le avventure individuali, la varietà di ambienti, situazioni, registri, toni, le stratificazioni temporali, le case, i giardini, i boschi, le spiagge, le automobili, le tangenziali, le forme, le digressioni, i pezzi di bravura, le larghe struggenti falde poetiche, e per finire i corpi, ritratti nella loro fragilità dell’infanzia come dell’età avanzata tanto quanto nella bellezza semplice o nella forza spaccona della giovinezza tracotante, e i dialoghi, che sono meccanismi di precisione, orologi, metronomi, tutto questo ha comportato da parte mia un esercizio ginnico di continuo adeguamento, quasi dovessi continuamente registrare i miei strumenti, regolarli, in base all’input del testo, della pagina.
Ma allo stesso tempo, come dice Jourde, ho sentito la risposta della pagina, del testo, alla pressione del mio adeguamento. La corda di cui parlavo prima: puoi rimanere in equilibrio se è sempre tesa, se oppone ai tuoi piedi tensione continua. Mi chiedeva cosa tradurre, cosa lasciare nella lingua originale. La domanda può essere intesa in senso letterale e figurato. In senso letterale, ci sono in effetti alcuni punti nei libri di Jourde, non solo ne L’ora e l’ombra, in cui è necessario giostrare intorno a un termine che non può – non deve – essere tradotto. In questo libro essenzialmente i punti in questione sono due. Gliene cito uno: quello in cui Jourde usa un certo garage Moderne, un’officina così chiamata, per far nascere nella mente di un certo personaggio l’immagine della gorge Moderne, a causa di una lettera mancante nell’insegna e di una distorsione di senso conseguente: il personaggio s’immagina che si tratti di una sorta di istituto di chirurgia estetica dove vengano confezionati seni (gorge) ad angolo retto, di una modernità desueta, affusolati come quelli delle valorose astronaute dei vecchi film di fantascienza. Non si poteva tradurre banalmente perché tutta la fantasia sarebbe sfumata. Mi sono così arrangiata con un’acrobazia, incastonandoci la parola gorge. Preferisco soluzioni inventive di questo genere piuttosto che le note del traduttore che spiegano un’eventuale resa. Come risposta in senso figurato, l’atmosfera dominante di questo romanzo non poteva prescindere dalla preservazione di un contesto sospeso tra presente e passato, tra vari presenti e vari passati di fatto, tutti però fortemente evocativi in senso geografico dell’alternanza tra città e provincia tipicamente francese. Attenuare questo aspetto sarebbe stato criminale.

Ecco, l’immersione: per come sono costruite le narrazioni di Jourde, le continue digressioni, le storie che evocano altre storie, si ha come l’istinto di leggere «in one sitting» come diceva Poe a proposito della short story; ma queste, naturalmente, non sono short story o, forse, potrebbero esserlo ognuna di quelle storie che compongono il quadro complessivo. Come si spiega questo dualismo, questa urgenza del lettore di calarsi pienamente dentro tali narrazioni ed emergerne solo a lettura conclusa?
In questo non mi allineo. Io credo che i libri di Jourde vadano assaporati con molta calma ed anche diluiti, direi quasi centellinati. Richiedono talmente tanta partecipazione da parte del lettore, il cui preciso compito è quello di contribuire alla costruzione del filo narrativo, che correre in nome dell’urgenza mi sembra incongruo. Nel caso specifico de L’ora e l’ombra poi c’è un’immagine che ritrae il senso di quella che a me pare proprio come una necessità, ovvero l’immersione, certo, ma lenta, una sorta di abbandono, immagine poi contenuta nel titolo: l’ora del sonno pomeridiano, protetto dalle persiane accostate attraverso le quali filtra la luce striata, l’ombra in cui è immersa la stanza che il protagonista bambino guardava da lontano, da dietro una siepe, immaginando il corpo della piccola amica Sylvie e la sua forma nel letto, ricordo centrale intorno al quale si costruisce tutto il percorso di ricerca dell’ex bambino fattosi adulto. 

Restando sul rapporto fra Jourde e il suo lettore, vorrei soffermarmi con lei sulla scelta in L’ora e l’ombra di una narrazione in prima persona rivolgendosi a un “tu” la cui identità scopriamo davvero alla fine, ma che per tutto il romanzo ci accompagna come fosse rivolto direttamente a noi.
Con questa domanda lei m’invita a nozze. La seduzione, per me, nella lettura di un romanzo, sta essenzialmente proprio in questo: la scelta da parte dell’autore di un rapporto intimo con il suo lettore. In questo caso, è un’intimità molto accentuata. Su cui Jourde punta in prima battuta con quel “tu” al quale si rivolge l’io che via via si fa carico della narrazione. Sì perché come accenna lei, la faccenda è più complessa di quel che pare sulle prime. All’identità di chi parla bisogna prestare particolare attenzione. Anche questo intendo, quando dico che Jourde è esigente con chi lo legge. Questo intende lui, quando parla di risveglio reciproco delle coscienze. 

In entrambi i romanzi sono disseminati enigmi e misteri che non necessariamente troveranno soluzione e, a tratti, siamo portati a dimenticarci di tali nodi della narrazione, spinti dagli intrecci, dalle digressioni, dalle profonde riflessioni e dai sentimenti evocati: un gioco pericoloso, come riesce a suo avviso Jourde a mantenere questo equilibrio, fare in modo che ciò che resta sospeso concorra al senso di inafferrabilità di cui è pervasa la narrazione?
Ci riesce grazie all’idea che ha della propria pratica di scrittura, che nasce da quello che lui individua come il suo ideale estetico, il quale a sua volta affonda le radici nella letteratura di cui Jourde è specialista, di fine Ottocento, e che s’innerva via via di spinte sempre più sapientemente fantastiche: riunire realismo e immaginario è lo scopo che si propone di perseguire, convinto com’è che in Francia il romanzo sia in mano per lo più a gente sempre meno attenta al fantastico. Far tremare un momento il reale in modo tale che chi legge sia indotto a chiedersi di che reale si tratti. O anche farglielo prendere in pieno stomaco, quel reale, spuntato fuori dall’atto immaginario. Jourde è piuttosto critico nei confronti di tanta letteratura che vede oggi premiata e in cui constata un appiattimento sul naturalismo puro o la confessione individuale. Come esempio contrastante, cita Flaubert la cui semplicità, dice, è fatta di lavoro sul linguaggio. Il romanziere vale perché lavora dentro di sé, non perché si limita a esporsi. Sinteticamente, Jourde condensa il suo pensiero in maniera molto efficace: “io non sono interessante semplicemente perché sono io”.

Non mancano le occorrenze fra i due testi qui menzionati: il discorso su radici, identità, il tempo, la memoria, la perdita, l’intreccio di vita e morte, il passato e ciò che abbiamo irrevocabilmente perduto: un’ossatura che pare guidarci nella poetica di Jourde, è d’accordo? Quali sono a suo avviso altre occorrenze fra i testi?
C’è tutto quello che lei dice, sono le ossessioni di Jourde che tornano di fatto in tutti i suoi libri, ogni volta però in forma diversa. In questo senso è un grande sperimentatore, e anche uno zelig del genere letterario. S’incarna ogni volta in un narratore diverso, o in più d’uno, e non vanno dimenticate le narratrici, ci sono ad esempio in L’ora e l’ombra parti prese in carico dalla voce femminile, così come ogni volta è diverso il tipo di sviamento che Jourde sceglie – per via di quella partita che gli piace ingaggiare con chi lo legge e che per lui funziona se chi lo segue si trova continuamente spiazzato e deve quindi restare massimamente vigile per non cadere giù dal filo, riprendendo l’immagine che ho utilizzato prima. Volendo però individuare altri punti in comune, questa era la sua domanda, tra Paese perduto e L’ora e l’ombra, direi che a mio modo di leggere sono entrambi storie d’amore: nel primo, amore profondo e non ricambiato per un mondo brusco e rude; nel secondo amore viscerale e sognato per una figura, la trasfigurazione moderna della Sylvie leggendaria che lo ha ispirato. E poi, seconda analogia, sono entrambi strutturati su un viaggio, sono dei romanzi-viaggio: nell’uno e nell’altro si va verso un luogo, alla ricerca di un tesoro sepolto. Cambiano i luoghi e cambiano i tesori, e non è tanto il trovare la meta effettiva. Resta però il senso del percorso, nel suo dipanarsi su piani temporali molteplici. E poi, ma non vorrei sembrare di parte…, c’è il ritrovato piacere del testo.



Intervista a cura di Debora Lambruschini
Si ringrazia la traduttrice, prof.ssa Gabriella Bosco e la casa editrice Prehistorica editore