La deflagrazione degli «atti di sottomissione» di Megan Nolan



Atti di sottomissione
di Megan Nolan
NN, settembre 2021

Traduzione di Tiziana Lo Porto

pp. 288
€ 19 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)


Pensavo che l’amore di un uomo mi avrebbe riempito così tanto che non avrei avuto più bisogno di bere, mangiare, tagliarmi o fare di nuovo qualsiasi altra cosa al mio corpo. Pensavo che se ne sarebbe fatto carico al posto mio. (p. 277) 
“Atti di sottomissione”, “atti di disperazione”: mi sono soffermata a lungo su questo piccolo scarto fra il titolo originale inglese e l’edizione italiana del folgorante esordio di Megan Nolan, giovane autrice irlandese approdata in Italia con NN editore. Perché in quei due termini si racchiude il senso profondo di questo romanzo, l’uno e l’altro sono assolutamente aderenti alla narrazione e ci guidano dentro gli abissi raccontati da Nolan. Questo romanzo-memoir inaugura la collana “le fuggitive”, storie di donne in fuga appunto, che rifiutano i tradizionali canoni femminili in cerca della propria libertà; un’operazione vagamente commerciale, perché la casa editrice milanese è da sempre molto attenta nel proporre storie di questo genere, basta dare uno sguardo veloce al catalogo delle pubblicazioni in cui sono spesso converse narrazioni che rompono con gli schemi, tanto formali che contenutistici. 
Inserito in una collana appositamente creata o meno e quali che siano le logiche editoriali, Atti di sottomissione nella splendida traduzione di Tiziana Lo Porto è una deflagrazione: un testo crudo, doloroso, di abissi, solitudini e violenza, reso ancor più potente dalla narrazione in prima persona in una sorta di monologo interiore che, pagina dopo pagina, comprendiamo bene essere l’unico modo possibile di raccontare questa storia a confine tra memoir e finzione. Ecco, proprio su questo punto riflettevo qualche giorno fa: personalmente non amo la deriva autobiografica che moltissima narrativa pare aver subito negli ultimi anni a eccezione di quei testi che, pur partendo innegabilmente da ben più che uno spunto personale, riescono a farsi universali; e qui mi associo a quanto diceva per esempio anche Rossella Milone in una recente lezione di scrittura, per stroncare sul nascere fraintendimenti di sorta sulla scrittura autobiografica. Il testo di Nolan, quindi, riesce a mio avviso perfettamente in questo intento come, per citare un’opera di altro genere ma che ben chiarisce il concetto, L’anno del pensiero magico o Blue nights di Joan Didion (e in buona sostanza tutta la produzione narrativa di Didion): seguiamo la protagonista in questo suo monologo interiore dimenticando rapidamente confini di forma e genere per aprire lo sguardo a una riflessione più ampia del caso specifico narrato. È in questi termini che la narrazione personale diviene universale, in quelle dinamiche riconosciute, negli stereotipi che ci circondano, in certe pericolose tendenze. 

E l’abisso non ci limitiamo a osservarlo a distanza di sicurezza, Nolan ci costringe a entrare, quasi toccando tutta la disperazione, la violenza e il disprezzo di sé che prova la protagonista. Tutti gli “atti di disperazione” che compie e subisce: l’alcolismo, i disturbi alimentari, l’autolesionismo, le ossessioni, il sesso usato come momentanea soddisfazione di una profonda mancanza, che sfocia in dipendenza affettiva, la violenza, lo stupro. La materia trattata è quanto mai complessa, la voce cruda e diretta di Nolan non tocca le vette letterarie di Bohémien minori – romanzo che ho amato moltissimo, brutale e forte – ma è solo la più recente dimostrazione di come la letteratura contemporanea irlandese sia capace di sporcarsi le mani, confrontarsi con le ombre, scardinare uno dopo l’altro stereotipi e preconcetti non per sterile desiderio di scandalizzare il lettore ma come vera e propria urgenza, tanto letteraria quanto culturale in genere. E sono le scrittrici, soprattutto, a provocare quella deflagrazione di cui all’inizio.

La storia di Nolan si inserisce quindi in questo contesto, ne amplia i margini e ci consegna il racconto di una relazione tossica, che porta la protagonista sempre più a fondo in una spirale di dipendenza emotiva, disperazione, disprezzo, malattia. Ma, allo stesso tempo, è anche l’infrangersi di antichi tabù legati al desiderio femminile, che nonostante tutto restano ancora difficili da abbattere del tutto. Le dinamiche sono distorte, malsane, certo, ma il racconto scardina molti preconcetti e di questo c’è ancora un gran bisogno. Ciò che sembra ancora lontano dall’essere sanato è una certa mentalità di compiacimento con cui in qualche misura siamo state cresciute o di cui abbiamo – fortunatamente – solo colto i segnali intorno a noi: compiacere gli uomini è per la protagonista uno scopo primario, sottomettere sé stessa, i propri desideri, il proprio corpo, ai bisogni dell’uomo e solo così sentirsi appagata, riempita e lavata di ogni colpa che sente di avere.
Immagino volessi diventare necessaria per Ciaran, ignorando che lui aveva comunque bisogno di me. Volevo che vivesse in un mondo dove ogni sua potenziale esigenza fosse stata preventivamente soddisfatta. (p. 129)
La relazione con Ciaran mostra ben presto tutte le ombre che condurranno a un abisso di disperazione e umiliazioni e già da principio lo spirito con cui lei si aggrappa a questo rapporto tossico appare tragico, segnato dalla sofferenza e squilibrato:
Ciaran non è stato solo il primo bell’uomo con cui sono andata a letto, o il primo per cui ho provato sentimenti ossessivi: è stato il primo che ho venerato. (p. 13)
«Il primo che ho venerato»: ma Ciaran non è un dio, è solo un uomo e tra i peggiori. Eppure il disgusto per sé stessa – insisto su questo termine perché è davvero il concetto più forte e doloroso che la protagonista usa – la spinge a umiliarsi in una relazione che non si può in nessun modo definire amore, perché di questo sentimento è priva ogni pagina narrata. Non ve n’è tra i due, non ve n’è – almeno al tempo dei fatti raccontati – nella sua protagonista verso lei stessa. E quel vuoto, quella mancanza, quella convinzione di non meritare amore si riempie con l’alcol, con la privazione di cibo o il suo contrario, con l’ossessione, con la violenza sul proprio corpo, da punire, mortificare, ferire.
Ho passato molte notti piegata in due sul pavimento del bagno. Non mi chiudevo dentro per proteggermi da lui. Lo facevo quando lo supplicavo di perdonarmi, di rispondermi, di dirmi qualcosa, e lui non lo faceva. A volte durava ore, e per punire entrambi per l’umiliazione mi chiudevo dentro e iniziavo a tagliarmi. Che stai facendo lì dentro? Immaginavo dicesse, bussando alla porta. Ti prego, non farti del male. (p. 160)
Nonostante la portata di sofferenza che attraversa ogni pagina, Atti di sottomissione rifiuta vittimismi e grandi catarsi, allo stesso modo in cui rifiuta di volgere lo sguardo da un’altra parte quando il racconto si fa brutale, disturbante. Non è una storia di rinascita o improvvisa illuminazione, non è una storia di salvezza: è il racconto crudo e diretto di chi affronta i propri demoni, forse un giorno riuscirà a lasciarseli alle spalle, forse qualcuno di questi si è già fatto passato, e che usa le parole come un mezzo per interrogare sé stessa. Ed è, quindi, un libro di scelte soprattutto. E di quegli atti mancati che hanno determinato ogni cosa. 
Non avrei potuto scegliere altri grandi amori invece degli uomini che ho scelto di amare? Certo che avrei potuto, ma non l’ho fatto, e questa, la mia storia, è la storia di questo atto mancato. (p. 198)


Di Debora Lambruschini