"Camilla, la Cederna e le altre": un'antologia a cura di Irene Soave omaggia la firma del giornalismo italiano che fu una, qualcuna e centomila


Camilla, la Cederna e le altre
di Camilla Cederna
a cura di Irene Soave
Bompiani, 2021

pp. 366
€ 19,00 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)


Volendo parafrasare con licenza poetica il titolo dell’ultimo lavoro curato da Irene Soave per Bompiani si potrebbe fare ricorso a quello di un celebre romanzo di un altrettanto celebre Premio Nobel italiano, ovvero colui che tra i primi seppe trarre eccellente letteratura dalla scissione dell’io individuale e dalla sua percezione sociale, rivelandone la grottesca ibridazione tra il prisma luminoso e lo specchio rotto. Perché se in qualità di chiosa a Camilla, la Cederna e le altre apponessimo la dicitura Una, qualcuna e centomila non c’è dubbio che renderemmo parimenti giustizia alla formidabile firma del giornalismo italiano sulla quale è incentrato il volume: “una” in quanto di una donna ben precisa qui si tratta (la signora, o meglio la signorina “Camilla”, morta nel 1997 nella stessa Milano in cui era nata nel 1911); “qualcuna” se è vero che grazie alla sua inconfondibile verve ben seppe uscire dall’anonimato del “nessuno” in un ambiente a dominanza maschile come quello della carta stampata italiana (ed ecco dunque “la Cederna”, formula di riferimento in cui la presenza oggi così fastidiosa dell’articolo determinativo quasi tramutava un cognome in un epiteto del sé); “centomila”, infine, perché così numerose, e forse anche di più, furono le rappresentanti del gentil sesso (“le altre”) incontrate, intervistate e immortalate in una quantità di articoli pubblicati su quotidiani e riviste nel corso di una carriera lunga e che ebbe il privilegio di misurare il cosiddetto “secolo breve”, saggiandolo senza troppi sconti dalla mondanità alla politica, dal costume alla cronaca nera. 

Dopo lo squisito e arguto Galateo per ragazze da marito, in cui la scrittrice e giornalista del «Corriere della sera», un paio di anni fa, ci chiedeva di convolare a nozze gnoseologiche con il fenomeno tutto cervellotico e ben poco pio dell’istituto matrimoniale, ecco che Irene Soave fa il bis all’interno della collana Amletica Leggera diretta da Stefano Bartezzaghi. E lo fa con un’antologia dedicata a un’autrice la cui “nubiltà” non fu certo un elemento secondario, e che anzi in più di un’occasione le valse la tiritera passepartout di insulti sessisti che ieri come oggi si indirizzano alle donne non coniugate (o comunque non accompagnate) con l’intento di colpirle e affondarle neanche fossero vecchie zattere alla deriva. Quando invece ben altri “lati deboli”, con aplomb e humor non di rado inglesi, avrebbe svelato Miss Cederna nel ventennio 1956-1976 in un’omonima rubrica di culto sul settimanale «L’Espresso», e ben altre pecche e carenze oltre a quelle marginali dello stato civile avrebbe registrato tra i suoi contemporanei – connazionali e non, famosi e non, del beau monde e non – nel corso di una militanza cronachistica durata praticamente tutta una vita. Risultato: colonne e colonne di parole appuntate e battute a macchina e ben diciotto libri tra cui una biografia, Il mondo di Camilla (1980), strutturata come un botta e risposta tra lei e l’amica Grazia Cherchi. Pagine che, a leggerle e rileggerle oggi, si confermano un album fotografico tutt’altro che in posa del “Bel Paese che fu”, e che in ogni scatto fa percepire lo sguardo espressivo e il fiat lux dell’operatrice. Un corpus di cui questa nutrita antologia, pur nell’andare oltre le trecento pagine, non offre che un minimo saggio, e tuttavia una cernita così bene condotta da risultare bastevole per restituire l’evoluzione di uno stile e, parimenti, della nostra penisola.

Dunque tutto qui? Una mera miscellanea e così sia? Ovvio che no. Come ogni florilegio degno di questo nome, anche quello realizzato da Irene Soave non deve la sua fragranza unicamente alle caratteristiche degli esemplari singolarmente raccolti, ma al loro sapiente mix. E nemmeno il ruolo dell’artefice si riduce alla bella Introduzione, in cui la vicenda professionale di Camilla Cederna viene raccontata e descritta nel necessario rapporto con il suo contesto di riferimento, dai già citati pregiudizi di genere all’eterna querelle tra giornalismo “leggero” (quello presunto suo) e giornalismo “pesante” (quello, per dire, di Oriana Fallaci, con cui ci fu sempre un’astiosa rivalità). Ed è difatti impossibile non ricordare la persecuzione (montanelliana in primis) di quando, ormai affermatasi in un evanescente compartimento frou frou in cui la si credeva comodamente blindata a tenuta stagna, volle occuparsi delle questioni scomode e non più solo episodiche che stavano drammaticamente cambiando il volto dell’Italia: certi attentati (la bomba alla Banca dell’Agricoltura), certe morti accidentali (Pinelli. Una finestra sulla strage è il titolo del suo libro del 1971 dedicato al celebre caso dell’anarchico “volato giù” dalla Questura milanese), certi Presidenti della Repubblica (il testo incentrato su Giovanni Leone, uscito nel 1978 e venduto in seicentomila copie, le valse una condanna per diffamazione). Irene Soave, tuttavia, fa di più, e senza indulgere in stucchevoli panegirici atti a dimostrare che “le cose stavano così e non cosà”: queste stesse conclusioni sono affidate direttamente a chi legge, perché la cura con cui sono stati selezionati i vari articoli conferma come l’intenzione dell’ammiratrice vada oltre il desiderio (pur legittimo) di erigere un monumento a una diva della macchina da scrivere che vantava le stesse iniziali di Claudia Cardinale (o non era forse vero il contrario?).

Nel bouquet confezionato da Irene Soave ci sono fiori di oggi foggia, e il disegno circolare con cui sono disposti fa sì che il più antico (il fatidico La moda nera del 7 settembre 1943, dedicato all’abbigliamento femminile durante il regime, che per infausto tempismo fece passare alla quasi esordiente Cederna dei brutti quarti d’ora) combaci a perfezione con il più recente (il conclusivo Paura a Sondrio, del gennaio 1992, in cui vengono ricordati proprio i paurosi giorni dell’arresto a cui seguirono un processo e una condanna a sette anni, poi decaduta per amnistia). Nell’ampia rassegna di brani dedicati agli usi e costumi nostrani dagli anni Cinquanta agli anni Novanta è sempre possibile constatare l’applicazione di quelle che furono le tre regole auree della giornalista: 1) descrivere le persone come un entomologo descrive gli insetti; 2) non smettere mai di indignarsi perché l’indignazione funziona come un vero e proprio elisir di giovinezza interiore; 3) trattare con serietà le cose frivole e con leggerezza le cose gravi. In una sfilza di sublimi affondi all’ipocrisia perbenista e borghese in cui “non ce n’è per nessuno” e “si salvi chi può”, si è ben presto conquistati dalla felicità di una prosa che mette a verbale l’avvento di tic, manie, fissazioni e ossessioni, consegnando ritratti allusivi di tipologie femminili degni di un catalogo esiodeo aggiornato al secondo Novecento e novelle categorie sociali che fanno il paio con bozzetti fulminanti di cronaca mondana da fare invidia al più smagliante reporter di Dagospia (si vedano anche solo gli incipit magistrali di Oh, fossi almeno bastarda del re d’Inghilterra! e La duchessa in fiamme, il primo dedicato all’esemplare parabola dell’arrampicatrice sociale Andreina presto detta Andrée, il secondo a un’attempata dama di ribollente sangue blu).

Se è vero che Irene Soave stuzzica la nostra golosità offrendoci queste prose brevi come fossero un invitante cabaret di piccola pasticceria assortita – e c’è davvero l’imbarazzo della scelta nell’eleggere il proprio bonbon preferito – non si può peraltro non notare come certi contributi agiscano quasi da mezzo di contrasto nelle vene del corpo del dibattito attuale. Alcuni, per esempio, instaurano un dialogo diretto con le diatribe più pruriginose legate alle questioni di genere, alla sessualità e al rapporto tra i sessi: così, se A tredici si bara constata già nel 1960 la precocità di fanciulline in boccio esplicitamente bramate da uomini tanto adulti quanto occhiuti, Signore in vendita, dell’anno dopo, descrive la popolarità di un gioco detto “L’antiquario”, in base al quale, nel corso di serate mondane soprattutto romane, spiritosi banditori mettevano all’asta corpi femminili alla stregua di mobili in buono o cattivo stato; mentre del 1973, invece, è la pronta recensione con vivo consiglio di lettura «alle giovani madri e soprattutto alle nonne, nonché alle maestre di scuola materna ed elementare» (p. 331) dell’appena pubblicato Dalla parte delle bambine di Elena Giannini Belotti. A chi invece, scioccato dagli scandali della cosiddetta Megxit, abbia dimenticato i numerosi precedenti della casa reale britannica, Irene Soave rinfresca la memoria inserendo i lunghi articoli che Cederna dedicò più di cinquant’anni fa alle nozze della principessa Margaret con il chiacchieratissimo Tony Armstrong Jones (ben due, nel maggio 1960), e restituisce un efficacissimo ritratto di un’inossidabile Elizabeth “senza gambe” (parola del suo sarto ufficiale) risalente alla primavera successiva (Il mestiere di regina). E come non notare, poi, l’omaggio incrociato rivolto alla da poco scomparsa Carla Fracci, che nel garbo a lei riservato in Il tango di papà (1962) offre quasi un contraltare (anche stilistico) alla mestizia per l’infelice Silvana Mangano o all’insistenza un po’ ossessiva con cui Cederna si occupò invece della divina Maria Callas (al punto da dedicarle un apposito libro nel 1968)?

Non si compie certo peccato di iperbole a considerare questa raccolta come la summa di un corso di giornalismo, storia, antropologia, sociologia e psicologia. E se è vero che nelle prose di Camilla Cederna ci sono tutti gli elementi per soddisfare le categorie, ciò che più si apprezza è il modo in cui la libertà di idee vi si coniuga sempre con la felicità espressiva, anche quando l’esito coincide con articoli la cui pubblicazione sarebbe oggi impopolare se non addirittura impensabile e vivamente sconsigliata. Basti pensare, per l’appunto, proprio ai suoi ritratti femminili, nei quali si realizza il connubio perfetto tra eleganza di stile e assenza di vuota retorica “in rosa”. Come ben li definisce Irene Soave, essi sono

«tutti lontani dal tono generale della narrazione del femminile che vige oggi, e che ci vuole tutte Fride Kahlo, Giovanne d’Arco, Samanthe Cristoforetti […] un’alternativa speculare alle agiografie in versione empowerment che oggi vanno per la maggiore quando si tratta di definire collettivamente che cos’è, e a che cosa ha diritto, una femmina. Chissà che non ci somiglino anche di più. E che empowerment significhi anche non considerarsi appartenenti a una categoria così fragile da non poter sorridere di uno sguardo meno che reverente, meno che agiografico, su di noi; qualunque cosa “noi”, nell’epoca dell’identità, voglia dire» (pp. 31-32).

Pagine, dunque, più attuali che mai. Pagine, non da ultimo, a prova di benpensanti: «quelli che vivono nel chiuso di poche idee sbagliate», precocemente invecchiati nel fare da badanti alle proprie certezze custodite in cassaforte; quelli, insomma, che Camilla Cederna amava così tanto scandalizzare, e che qui, tra le prose di questo manuale, troveranno il giusto slancio giovanile per compiere il tipo di evasione per cui si è sempre in tempo.


Cecilia Mariani