"La nostra folle, furiosa città" di Guy Gunaratne


La nostra folle, furiosa città
di Guy Gunaratne
Fazi, Roma 2020

Traduzione italiana di Giacomo Cuva

pp. 288
€ 17,58 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)




Un giorno un mio collega a scuola, nato e cresciuto a Londra, ammise candidamente di non aver mai visto lo splendido edificio ottocentesco che fa da sede del museo di Storia Naturale di cui io tessevo con fervore le lodi. In realtà, mi disse di non essere mai stato a Kensington in vita sua. Per una semplice questione di distanze. Per lui, che vive a Bethnal Green nell’East London, raggiungere quelle zone richiederebbe più o meno un’ora di viaggio. In più, per lui, figlio di immigrati provenienti dal Bangladesh, quell’area della capitale britannica rappresenta un mondo altro, alieno e quasi incompatibile: consuetudini, modi e atteggiamenti che non lo riguardano e non lo interessano.
Questo breve aneddoto serve a chiarire subito un punto: andare al cuore di Londra significa contare le infinite città che si dipanano dentro la città, lo sterminato insieme di mondi, culture, lingue e storie che la attraversano. Attorno ai monumenti da cartolina, al Tamigi e alle mete turistiche si propaga un ammasso sterminato di poli e periferie e nuovi poli e nuove periferie. Un amalgama di identità che si mischiano l’una con l’altra. Posti in cui vivere è sempre un con-vivere, un tollerarsi e capirsi a vicenda – e spesso, purtroppo, anche un non tollerarsi reciproco.
Di questa Londra parla Guy Gunaratne nel suo primo fortunato romanzo, La nostra folle, furiosa città, pubblicato in Italia da Fazi (titolo originale In Our Mad and Furious City). L’autore, cresciuto in un quartiere semi-periferico nel nord-ovest della metropoli, figlio di immigrati dallo Sri-Lanka conosce benissimo il mondo di cui ha scelto di parlare. Ne riprende le movenze, i gesti, il linguaggio e la disperazione.

Lo scenario in cui le vicende hanno luogo è quello di un desolato complesso di case popolari del quartiere di Neasden – lo stesso di Gunaratne. In questo contesto sono cresciuti i tre protagonisti: Selvon è un atleta che sogna l’università e le olimpiadi, Ardan un ragazzino timido e bullizzato con un grande talento nel comporre brani di grime music, Yusuf è il figlio di un Imam recentemente scomparso che subisce l’improvvisa radicalizzazione della sua moschea.
Il libro ci racconta il modo in cui i tre adolescenti hanno vissuto le giornate di scontri successive all’omicidio dell’ex soldato bianco Lee Rigby, avvenuto nel 2013 per mano di Michael Olumide Adebolajo. I cortei razzisti, le scritte di odio, le saracinesche frantumate che ne conseguirono fanno dapprima da rumore di fondo, in un contesto ha nella violenza la sua tonalità costante; poi gli eventi prendono una brusca piega, trasformando i momenti di normale “cazzeggio” in tragedia.
Ai tre ragazzi fanno da spalla due personaggi più anziani, Nelson – il padre di Selvon – e Caroline – la madre di Ardan. Immigrati di prima generazione che ci permettono un lavoro minimo di contestualizzazione, mentre affondiamo nei loro ricordi sulla Londra degli anni sessanta e settanta. Lui, proveniente dall’isola caraibica di Monserrat, venuto a Londra alla fine degli anni sessanta per cercare fortuna e trovatosi coinvolto nella lotta contro il movimento razzista dell’ex parlamentare Oswald Mosley. Lei, di origine Irlandese, appartenente a una famiglia di movimentisti dell’IRA, cresciuta con la guerra nel sangue e presto sfuggita al triste destino dei parenti.

Il realismo vivido e cruento del libro è diluito da una narrazione tutta in soggettiva, che filtra ogni avvenimento attraverso lo sguardo – e la memoria – dei personaggi. La focalizzazione interna consente a Gunaratne di mascherarsi dietro i suoi protagonisti, di parlare con le loro voci. Inoltre, fatto più importante, permette una rappresentazione caleidoscopica che spezza la superficie della realtà e ce ne restituisce solo i frammenti. Gli episodi – resi in una moltitudine di capitoletti brevi e brevissimi –, sono spesso raccontati da più punti di vista: un accavallarsi di prospettive che rende bene lo stato di incertezza del mondo rappresentato. Parliamo di luoghi in cui ciascuna identità è un gioco di specchi e di rimandi, in cui le certezze esistono solo se lussate in qualche modo: essere occidentali ma estranei alla cultura dell’occidente, essere inclusi e reietti, essere figli di più terre, di più mondi, appartenenti a molte case, a tutto e a niente.

Con questo romanzo ambizioso, non privo di piccoli difetti, Gunaratne ci tira dentro alcuni dei problemi più urgenti del nostro tempo, quello sulla convivenza e sulla pacificazione delle differenze – e il recente scoppio delle proteste organizzate dal movimento “Black Lives Matter” serve a ricordarcelo una volta di più. Il grande pregio del libro è quello di trattare temi spinosissimi e durissimi con coraggio, evitando atteggiamenti manichei e bacchettoni; il difetto è forse che troppo spesso la presa diretta lo induce ad appiattire il racconto su una sorta di indiretto libero che sa molto di scorciatoia: un costante saltare di confessione in confessione che rischia, a volte, di suonare un po’ scontato.

Una nota finale meriterebbe il lavoro sulla lingua del romanzo, che purtroppo – nonostante il magnifico sforzo di Giacomo Cuva – nella versione italiana non può che andare perduto. Riportare in un’altra lingua le infinite sfaccettature dell’MLE (Multicultural London English), con la cui tavolozza Guranatne ha tratteggiato questo affresco contemporaneo, era un’impresa ai limiti dell’impossibile.


Emiliano Zappalà