Il Salotto - "La lingua che ti ricorda di cosa sei fatto": una conversazione con Daniele Mencarelli

Ho letto Tutto chiede salvezza (trovate qui la recensione) prima che venisse resa nota la selezione dei dodici titoli per lo Strega. L’amore è stato totale quanto incondizionato, e subitaneo, così come il desiderio di approfondire gli spunti offerti dal romanzo parlandone con l’autore. Non avevo mai sentito parlare di lui, non ho (ancora) letto il romanzo precedente, quindi il mio è stato un moto irruente, un impulso generato dalla pura forza della scrittura, che per ore mi ha tenuta avvinta alla pagina. La stessa forza trascinante ho percepito nel momento della nostra conversazione telefonica: Daniele Mencarelli mi ha accolta con un’immediatezza che ha scardinato tutte le mie domande, la mia scaletta ben confezionata. Ha aperto finestre su panorami inaspettati, ha lasciato fluire la parola senza sentire la necessità di imbrigliarla, con insperata generosità. Ma soprattutto, cosa mai successa, ha iniziato la sua intervista chiedendomi di me. In queste giornate lunghe e strane, paralizzate e in qualche modo sospese, voleva sapere come il nord Italia, il posto in cui vivo, sta affrontando l’emergenza, come stiamo, cosa pensiamo. E il Covid-19, come spesso in questi ultimi tempi, si fa presto metafora per parlare di istanze forse ancora più urgenti:

“Vivere la vita in perenne equilibrio precario non è per me una novità legata al coronavirus; purtroppo, senza sceglierlo, io ho investito la vita intera sulla consapevolezza che non tutto sia per sempre, sul tema del significato, della salvezza, sull’idea di vivere su questa soglia in cui quello che per tanti altri sembra immobile e invincibile è invece fragile (la vita stessa, quello che si ama, il mondo). Per me, vedere da parte di tutti una rinnovata attenzione rispetto a quello che siamo veramente come essenza, come natura, è l’unico elemento che mi fa sperare, perché può essere una grande occasione per tornare in maniera un po’ più profonda e attenta a ragionare su noi stessi. Vedere che tornano a girare riflessioni che non si facevano più, sul fatto che tutto è precario e la vita va vissuta in maniera straordinariamente eccezionale, perché ogni istante deve essere quello da mettere a frutto, mi fa ben sperare che magari ne usciremo leggermente migliorati.”

Tu sei un ottimista… c’è anche la concreta possibilità che la gente si dimentichi di tutto questo appena sarà finito, se non ne sarà stata toccata personalmente. 
Io collaboro con Avvenire e altri giornali e mi rendo conto che uno a volte deve scrivere sull’onda di un ottimismo che si vuole infondere. Una frase che in questi giorni si sente spesso e mi fa sorridere è “Nulla sarà come prima”: una frase che negli ultimi decenni ho sentito ripetere più volte (dopo le Torri Gemelle, la crisi finanziaria del 2008) e alla fine tornava tutto come prima. La vera sfida infatti va giocata individualmente: bisogna dire “per me nulla sarà come prima”. Perché poi il mondo non l’hanno cambiato le pestilenze vere, non l’ha cambiato il Novecento, con tutto quello che c’è stato, perciò non credo che lo cambierà nemmeno il Coronavirus. 

Possiamo allora sperare che qualcuno cambi.
Esatto. Se hai letto il romanzo saprai che io mi definisco un “aspirante credente”: io credo che il Cristianesimo sia stata una rivoluzione attuale ancora oggi, a prescindere addirittura dal discorso della fede. La più grande rivoluzione cristiana è questa eversione rispetto al modo di giudicare, perché tu cambi il mondo cambiando te stesso. Questa è oggi, come duemila anni, fa l’unica rivoluzione possibile: non ragionare in termini di mondo, di umanità, di società, ma in termini individuali. Quello che ho vissuto deve diventare per me un momento di non ritorno, qualcosa che mi deve far cambiare veramente. Aspettare i cambiamenti dagli altri e dal mondo è un modo per non cambiare mai.

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Dalla narrazione pare evidente che esistano due polarità per la salvezza tanto ricercata dal protagonista: gli altri, quelli con cui si può condividere una verità, una condizione di diversità, e la parola. In che modo quest’ultima può salvare?
Per me la parola è diventata nel corso degli anni il cemento che media il primo elemento che può portare salvezza, l’elemento concreto dell’altro. Noi da soli possiamo veramente poco, meno che mai possiamo crescere senza l’aiuto di qualcun altro: uno cresce nel momento in cui c’è qualcun altro che lo fa crescere, in qualche occasione anche facendogli del male. La parola è lo strumento che in qualche maniera esalta questa relazione, questa dedizione verso l’altro. Ti ripeto questa cosa che ho già detto, ma che per me è fondamentale: io sto facendo il minatore, che scava sempre più indietro nel tempo, perché le figure che ho incontrato e che sto raccontando in questi romanzi che partono da dati biografici continuano a interpellarmi, chiedono a me di restare in vita, e io, a parte il ricordo individuale, a parte la mia memoria, ho un altro straordinario strumento per farli rimanere in vita, cioè la scrittura.

A proposito di questo, tu che ti occupi sia di prosa che di poesia, da quale forma ti trovi più rappresentato, o quali sono le differenze, quali le specificità di ognuna di queste diverse forme espressive? 
Che bella domanda. Secondo me la poesia è quella forma meravigliosa che permette di imprimere, di tratteggiare, di fare un ritratto indimenticabile; è quella forma espressiva che scava nella carne l’immagine di quello che vuoi raccontare ed è l’esaltazione massima di quello che per me è la scrittura. Prima ti dicevo che l’altro è un elemento fondamentale della crescita, ma il grande teatro in cui gli altri sono per noi fonte di crescita, o fonte di malattia, o fonte di morte, o fonte di tutto quello che gli uomini condividono, è la realtà, il palcoscenico su cui noi esseri umani giochiamo la nostra vita. Per me la poesia è straordinaria perché riesce in poco a restituire in profondità una scena, quel momento essenziale in cui due elementi entrano in contatto e uno dei due ne esce accresciuto. La narrativa è più un processo, ragiona in termini di architetture, di strutture (narrative quanto psicologiche) e, se non può raggiungere la profondità concessa alla poesia nella rappresentazione della scena, offre però la possibilità di ampliarla, allargarne la prospettiva. 

I due romanzi che hai pubblicato finora si inseriscono nel genere che viene definito dell’autofiction.  Innanzitutto, ti senti rappresentato da questa etichetta di genere? E poi, perché sceglierla, quali opportunità offre?
Io faccio molta fatica a rappresentare ed etichettare la letteratura, la poesia, la prosa. Venendo dalla poesia, il dato esistenziale e biografico è un dato di partenza anche quando viene negato o traslato, è un dato quasi imprescindibile. E, rovesciando il discorso, credo che anche chi fa fiction pura e crede di partire da un elemento di invenzione, in realtà poi, magari in maniera irrazionale e subcosciente, lavora sempre su qualcosa di suo. Ovviamente per chi parte dalla poesia il confronto diretto con la realtà è il primo motore, anche linguistico, che genera scrittura. Questo in qualche modo è stato anche l’approccio rispetto alla mia narrativa. Tieni pure presente che, tanto in poesia quanto in narrativa, io ho sempre scritto come dedica all’altro, come segno di dedizione, di gratitudine, d’amore per chi vive con me. Rispetto alla domanda iniziale, il mio editore ideale dovrebbe avere una collana al cui interno non vi siano distinzioni di generi. Per me infatti esiste una letteratura vera per me, utile al mio sguardo, e poi c’è tutta l’altra letteratura, di qualsiasi genere, che non contribuisce minimamente a qualcosa che sento importante per me, ed è quindi né più né meno che una specie di intrattenimento. 

E quali sono le letture imprescindibili, quelle “utili al tuo sguardo”?
Io qui sono quasi monotono… il mio è stato un approccio anarchico, selvaggio, rispetto a quello scolastico. Ho iniziato a conoscere la scrittura per conto mio e ho immediatamente sentito una corrispondenza con la lingua dell’esistenza che è la poesia. Devo tornare indietro nel tempo, perché secondo me le vere letture fondamentali per noi sono quelle che facciamo tra i sedici e i vent’anni, che diventano una sorta di nostra struttura mentale, linguistica, psicologica… e qui ti devo mettere dentro i poeti, da Camillo Sbarbaro a Dario Bellezza, Caproni, Luzi… La poesia è il contenitore naturale di tutti quei temi che io non ho scelto di vivere e che racconto anche nei miei romanzi: il tema del significato, del senso, quello della salvezza; il tema di Dio; il fatto è che, checché se ne dica, io sento la vita utile nel momento in cui mi sfido su questi terreni e se tu prendi il Novecento italiano, che è stato un secolo poeticamente unico, intervengono tutti su questi argomenti, da Ungaretti a Rebora, Saba, Fortini, Sereni, Bertolucci… mettiamoli dentro tutti. Il Novecento è stato il mio secolo: forse rischio di sembrare presuntuoso, ma io ho trovato in quella letteratura quello che cercavo io. Io sono nato in quel secolo e, in maniera naturale, ho sentito nelle voci venute prima di me questo tipo di discorso che per me valeva la pena continuare.

Da insegnante, trovo molto interessante quello che dici sulle letture formative. Io lavoro proprio con studenti che si collocano nella fascia d’età di cui parli, nel pieno del passaggio dall’adolescenza all’età adulta, e mi rendo conto spesso che il rischio è quello di imporre uno sguardo esterno proprio quando bisognerebbe aiutare i ragazzi a trovare uno sguardo proprio sul mondo. 
Questo è un punto centrale. Il primo motivo per cui ho scritto Tutto chiede salvezza, come ti dicevo, è tornare a quelle figure, a quegli incontri fondamentali per la mia vita; ma c’è un secondo motivo: rispetto al primo romanzo questo è molto più attuale. Il ventenne che racconta nel romanzo assomiglia a tanti ventenni di oggi; io sono stato ventenne nel ’94, ma in questi venticinque anni non c’è stato un allargamento, bensì un ulteriore restringimento rispetto al campo d’azione che ha ognuno di noi per cercarsi, per affermare quello che per lui è importante, per rifare la storia dell’umanità. Ogni uomo, vuoi o non vuoi, tante cose le deve riverificare, le deve vivere lui, e oggi tutto questo è negato. Soprattutto è negato tutto ciò che appartiene al nostro trascendente, a quello che interroga più di tutto. 
C’è un cortocircuito pericolosissimo: io credo che il grande tema della nevrotizzazione, della medicalizzazione dell’uomo nasca proprio da questo. Se tu, come racconto nel romanzo, a un ragazzo di vent’anni che chiede di essere ascoltato sui temi che riguardano l’uomo, dal primo venuto all’ultimo, dici: “No, guarda, questi temi non vanno bene, non sono veramente naturali, sono riflessioni per un malato”, puoi scatenare una grande confusione. Io penso che tanti conflitti debbano essere tirati fuori, sputati fuori. Il fatto che uno non ne parli non significa infatti che non li viva, e questo è un dramma.

Questo emerge chiaramente dal romanzo, la cui conclusione è al tempo stesso un monito per il lettore e un attacco a un certo tipo di umanità, che pretende di porre etichette, di distinguere in modo netto ciò che è giusto o sbagliato, ciò che è sano e malato. L’invito è quello a stare, in qualche modo, dalla parte del diverso, cioè di chi guarda il mondo con una sensibilità propria, si interessa dell’altro, si lascia toccare dalle cose. In che modo questo, che generalmente viene visto come una forma di debolezza, può diventare cifra d’elezione?
L’uomo ha una fiamma dentro, che può essere un meraviglioso carburante in grado di dare una marcia in più, ma, come ogni forma di energia, se non è in qualche modo controllata, disciplinata, può diventare un incendio che divampa e ti divora.

È in questo modo che la salvezza può diventare malattia?
Esattamente, a partire da un desiderio assolutamente naturale, perché io penso che sia naturale per l’uomo, da sempre, farsi domande. Mi chiedo, un po’ provocatoriamente: un uomo che non si interroga mai sulla salvezza di quello che ama, quanto ama? Questo è un limite connaturato che esiste dentro l’amore, che può diventare (ce lo mostra anche Dante) un meraviglioso strumento di conoscenza. Nel romanzo ognuno troverà quello che vuole, ma una cosa a cui tengo particolarmente è l’idea che possa esistere un altro da noi, non necessariamente qualcuno che, socialmente, abbia i “titoli” per insegnarci qualcosa, magari anche un reietto, che però in realtà, nel momento in cui si interfaccia con noi è in grado di accrescere il nostro sguardo. Quando nel testo io dico “la vera pazzia è non cedere mai, non inginocchiarsi mai” intendo questo. Lì, dentro quell’ospedale, soprattutto in relazione a quello che succede negli ultimi due giorni, c’è tutta un’obbedienza a quella che è la “gerarchia del mondo”: i pazzi non li puoi ascoltare mentre ti dicono quel che è successo, i pazzi non possono essere accontentati rispetto a una richiesta che, tutto sommato, non è poi così impegnativa… c’è un’obbedienza al mondo che non interroga veramente chi non è conforme a determinate aspettative. 

A tal proposito, ho trovato suggestivo e interessante il parallelismo che crei tra folli e poeti, che è ben radicato nella nostra tradizione letteraria, ma qui ancora più calzante, visto che le due realtà paiono coesistere. I poeti, a differenza dei folli, possono oggi essere ascoltati?
Questa mia seconda carriera da narratore mi ha fatto sperimentare con mano, fino a nutrire una certezza quasi incrollabile, che quello che manca all’uomo moderno è proprio la parola dei poeti. In fondo, nel romanzo, con una parola diversa, una lingua diversa, provo a raccontare una storia in cui c’è un uomo che si interroga su se stesso e sul mondo senza nessun tipo di tabù. Questi sono i temi che normalmente vive anche la poesia. Se tu presti ascolto alla poesia, è quella lingua che ti ricorda di cosa sei fatto. 
La tua domanda è però un Giano bifronte, perché una parte di responsabilità l’hanno anche i poeti; non solo il mondo dell’editoria, non le librerie, in cui lo scaffale di poesia – se c’è – sta tra le cucine e i bagni… eppure c’è un bisogno enorme di poesia, perché l’uomo ha sempre avuto in quel riparo un luogo in cui riflettere su se stesso, riflettersi davanti a uno specchio che non era lui, ma un altro che parlava di lui meglio di quanto lui sapesse fare.  

Esistono però sempre di più forme ibride, che abbattono i confini tra prosa e poesia. Il tuo stesso romanzo è impastato di poesia…
La relazione tra due individui passa sempre attraverso una forma, la lingua. Io non posso dimenticare la lezione della poesia, che influisce su di me: quando costruisco una parte del libro, non appena arrivo al momento lirico della scena, al momento più alto, quello in cui qualcuno cresce, inizio ad andare a capo, devo vedere la plasticità della parola. Mi rendo conto che il verso in certi momenti diventa molto più adatto, molto più in grado di contenere la profondità di chi vive dentro quella scena. La poesia diventa quindi, anche nel contesto del romanzo, una meravigliosa possibilità. 

a cura di Carolina Pernigo


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Quando Daniele si risveglia in un ospedale psichiatrico, dove è stato ricoverato in seguito a un trattamento sanitario obbligatorio, il suo spirito è gravato da una sofferenza indicibile. La solitudine, i sensi di colpa, l’incapacità di trovare un senso per l’esistenza sono pesi quasi insopportabili. Ma lì, in un ambiente che sembra totalmente sradicato dal mondo esterno, in mezzo a figure che all’inizio paiono inquietanti, è forse possibile trovare ciò che l’anima e il corpo chiedono disperatamente, e da anni: la salvezza. Con una prosa pungente, dolorosa, Mencarelli ci racconta una storia che trasuda di vita, di umanità, e la nostra @quinquilia non vede l’ora di scriverne. Voi conoscevate già questo autore? Cosa ne pensate? #mondadori #danielemencarelli @librimondadori #instabook #instalibro #bookstagram #bookoftheday #bookish #igreads #igbooks #readingnow #newbook #bookaddict #booklover #cover #bookcover #inlettura #cosebelle #follia #senso #vita
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