In principio era un romanzo

Tecniche di seduzione
di Andrea De Carlo
La nave di Teseo, 2018

pp. 441
11 (cartaceo)


Io non so voi. Ma non appena qualcuno mi porge un libro invitandomi a leggerlo, le alternative sono inevitabilmente due: finirlo o scaraventarlo dalla finestra. E devo dire che si è profilata la seconda non appena mi è stato dato Tecniche di seduzione, un romanzo che Andrea De Carlo ha pubblicato con Bompiani nel 1991. Una vita fa. E non solo mia. Sto dando infatti a questa espressione, riconosco con un pizzico di protervia, un profilo politico-sociologico che porta a dire: pensiamo a cos’era davvero l’Italia nel 1991, a chi c’era al comando. Dopo di che: dove eravamo noi?
Scaraventarlo dalla finestra è stato il primo impulso, dicevo. Dettato da questa forzata retrodatazione di cui non sentivo il bisogno. Francamente: ma che m’importa di una storia da prima repubblica con il giornalista frustrato che sfoga rabbia e sogna la rivincita grazie al fatidico manoscritto? Ovviamente nel cassetto. Aggiungerei, tra i motivi della defenestrazione, lo scarso amore per De Carlo, per le sue alchimie sentimentali che ho trovato sempre piuttosto algide e ripetitive, e dunque a rischio indifferenza, e, last but not least come dicono oltremanica, l’analogo “affetto” per l’editore, che guarda caso ha appena pubblicato l’ultimo romanzo dello scrittore milanese. Ecco, mi è parso il classico precedente di successo da riproporre per tirare la volata a questa nuova operazione editoriale. Ma facciamo gli uomini di mondo e andiamo avanti.
Tecniche di seduzione finisce per farsi leggere perché è pulito da estetismi, alla De Carlo per l’appunto, e, al di là della storia, perché vi ho trovato due cose che all’epoca della prima edizione erano scontate ma che oggi paiono addirittura esotiche: amori eterosessuali e pagine fortemente politicizzate. In merito a quest’ultimo aspetto, la sensazione di novità si trasforma presto in qualcosa di stantio in termini contenutistici. Si parla giocoforza di democristiani e socialisti, pentapartiti e consociativismi, tv di stato – che c’è ancora, ma nel libro pare rimasta quella di Bernabei – e feste di regime in mezzo al barocco e ai soffitti affrescati – milieu che mi hanno ricordato una Roma, perché là siamo, buona per Vittorio Sbardella, chi lo rammenta? – per concludere con il pistolotto sull’impossibilità del cambiamento.
Il lettore del 1991, il lettore impegnato e di sinistra diciamo, quello della Rai 3 e dell’Espresso, veniva investito da un pugno brusco e cazzuto, s’indignava, o deprimeva, più di quanto già non facesse. E dunque erano pagine potenzialmente salutari. Il lettore del 2018, tipo lo scrivente, ci sorride sopra. Gli sembra di vedere sfilare l’avanspettacolo del Bagaglino, qualcosa di simile a certi racconti e romanzi “teatrali” della letteratura russa, mi viene in mente Pietroburgo di Belyj ma mica con quella potenza narrativa. Prova perfino un po’ di nostalgia perché è passato così tanto tempo. Infine riflette: quei frequentatori non esistono più. È indubbio. Eppure, nonostante l’inevitabile cortocircuito, resta un De Carlo capace di passaggi accorati, come non se ne leggono, presi come siamo da solitudini e commissari. E quindi tocca dire: magari tornassero.
E ancora: benedetto sia un po’ di amore eterosessuale. Se non altro per una questione mia. Ma anche perché va a comporre una triangolazione narrata al punto giusto, con i toni e uno sviluppo adeguati, che cova sotto la cenere e quando un po’ tutti ci prefiguriamo l’epilogo trova il rintocco della rivelazione. Sì, non è che siamo dinanzi all’originalità: il primo vertice lo abbiamo accennato all’inizio, il giornalista frustrato che da Milano piomba a Roma. Il secondo è costituto da uno scrittore famoso, organico tuttavia lucido sulla natura del potere, il terzo da un’attrice di teatro bella e con un tocco maudit. Poi c’è robetta di contorno, tipo le mogli dei due uomini: quella intristita ma piena di comprensione del giornalista e quella giovane e straniera dello scrittore, antipatica come una spinta per le scale.
La seduzione è quella che lo scrittore famoso e celebrato produce sul giovane giornalista, che ha fra le mani un manoscritto giudicato molto buono. Lo scrittore vaticina trionfi e celebrità ma il giornalista cade in una crisi esistenziale – prodotta indovinate da chi – che lo porta a rimettere mano al testo e a una revisione profonda. Così, se nella testa del giovane, il romanzo pubblicabile diventa quello della seconda versione, nella testa dello scrittore i romanzi sono due: il primo, l’originario, su cui il parere resta ottimo e il secondo diventato carta da cesso. Allora verranno a galla le ambiguità, si compirà uno “scippo” devastante e il lettore sarà condotto su un piano in cui l’uno e l’altro protagonista faranno valere, coerentemente peraltro, le loro ragioni.
Per quanto riguarda la seduzione che i due uomini esercitano sull’attrice, anche qui si viaggia sul binario dello scontato: ognuno usa le proprie armi a disposizione, vita vissuta contro innocenza. Che poi è ingenuità allo stato puro. Devo dire però che il romanzo non accampa troppe pretese e si offre con una semplicità che non lascia cadere le braccia ma spinge a usarle per sfogliare le pagine che restano. Chissà se il giovane giornalista imparerà le tante lezioni che il suo maestro, mefistofelico a questo punto, gli ha impartito. A giudicare dal finale, ottimo peraltro, parrebbe di sì.


Marco Caneschi