Due parole sull'America profonda, partendo da "Hud il selvaggio" di Larry McMurtry

Hud il Selvaggio
(Horseman, pass by, 1961)
di Larry McMurtry
Mattioli 1885, 2006

traduzione di Sebastiano Pezzani

pp. 200
€ 16,00 (cartaceo)


"The small town in America is almost legend" (D.M. Cook, C.G. Swauger, The Small Town in American Literature, 1977)

"Now Main Street's whitewashed windows and vacant stores / Seems like there ain't nobody wants to come down here no more" (Bruce Springsteen, My Hometown, 1984)

Warning (che vuol dire “avvertenza” ma fa più scena): in questo articoletto si parlerà brevemente, oltre che del bel romanzo d’esordio di Larry McMurtry, anche della Smalltown America, quella provincia mitizzata o esecrata, a seconda dei punti di vista, ma elemento sempre presente in larga parte della letteratura nordamericana, da Thornton Wilder a Willa Cather, Sinclair Lewis, Ring Lardner e via elencando. Argomento già accennato in altre recensioni, qui propongo una riflessione un poco più profonda. Il pezzo, quindi sarà più lunghetto del consueto. Siete avvertiti (anzi, warned).
Pressoché sconosciuto in Italia, Larry McMurtry è un autore di tutto rispetto, con una trentina di titoli all'attivo, sia nell'ambito della fiction sia in quello della saggistica. Inoltre è un importante sceneggiatore cinematografico (suo l'adattamento de I segreti di Brokeback Mountain) e alcuni dei suoi romanzi, fra cui quello di cui vi parlerò fra poco, sono diventati film di un certo successo: tra questi L'ultimo spettacolo di Peter Bogdanovich, film cult degli anni Settanta, e Voglia di tenerezza, “classicone” dello smielato e banale decennio successivo.

Hud il selvaggio ci porta nel Texas settentrionale, vicino al confine con l'Oklahoma, l'area dove McMurtry ha sempre vissuto e ha ambientato la gran parte dei suoi lavori; un Texas rurale, dove le giornate sono scandite dai ritmi del lavoro nelle fattorie e dense di un nulla destabilizzante. Un nulla esistenziale che deriva da un nulla geografico, perché è davvero dura sopravvivere lontano da tutto, a miglia di distanza dalla cittadina più prossima, dove l'unico diversivo alla routine quotidiana, oltre al consumo smodato di alcol, è il rodeo itinerante che vi fa tappa una volta l'anno.

È questo il mondo in cui si trascinano, quasi per inerzia ma senza troppi patemi d'animo, le vite dei Bannon, piccoli proprietari terrieri dediti all'allevamento del bestiame. Ed è proprio quel mondo ad andare in frantumi quando il loro bestiame rimane vittima di un'epidemia di afta epizootica. Epidemia solo sospetta, in realtà, perché un solo capo è stato trovato morto, tuttavia il veterinario della contea, irremovibile nel timore del propagarsi del contagio, ordina l'abbattimento dell'intera mandria. Questo fatto avrà conseguenze letali per gli equilibri all'interno della famiglia; in particolare esploderanno le tensioni covate a lungo fra il capofamiglia e Hud, il figlio della sua seconda moglie.

Hud è il personaggio più controverso del romanzo, descritto in modo impietoso eppure mai completamente negativo da McMurtry; lungo le pagine del romanzo scopriamo che è un reduce della guerra nel Pacifico e che il suo atteggiamento ribelle deriva dal fatto di non essere mai stato completamente accettato dal patrigno. Violento, cinico e spregiudicato, Hud incarna in sé tutto quel disagio giovanile - ma non solo - che ai tempi in cui il romanzo è ambientato (i primi anni Cinquanta) era una dinamica non ancora scandagliata e compresa; il fatto che Hud sia un adulto non costituisce una contraddizione ma, al contrario, conferisce al personaggio una carica (auto)distruttiva che diviene una sorta di cappa minacciosa incombente sul mondo piccolo in cui i protagonisti prendono vita.
La vicenda è filtrata attraverso la narrazione in prima persona a opera di Lonnie, il nipote adolescente del capofamiglia, con cui vive dalla morte dei genitori e con cui è l'unico ad avere un rapporto decente, basato realmente sull'affetto reciproco. Lonnie è testimone degli scontri fra il nonno e Hud, che al nonno rinfaccia l'incapacità nella scelta e nell'allevamento dei bovini, addebitandogli la responsabilità per il disastro avvenuto.

Come prevedibile, nessuno uscirà indenne dalla vicenda; il romanzo si conclude con Lonnie che, al pari del George Willard di Winesburg, Ohio si allontana alla ricerca di un posto dove valga la pena crescere.

Hud il selvaggio, romanzo che segnò l’esordio letterario di Larry McMurtry nel 1961, anticipa, seppure di poco, quello di un altro texano (d’adozione però) come Cormac McCarthy, differenziandosene per lo stile narrativo più asciutto, più sintetico e dal lessico meno elaborato. McMurtry riesce a descrivere i personaggi con poche parole e facendo in modo che gli stessi prendano forma con lo scorrere delle pagine, inserendo dati e altri elementi chiave all’interno del testo in modo apparentemente casuale, dando al lettore l’incombenza di individuarli e ordinarli in modo da scoprire il quadro generale.

Thalia, Texas: è qui che si svolge la vicenda narrata in Hud il selvaggio. Un posto infame, anonimo e identico a mille altri, dove la vita è durissima, fatta di isolamento fisico e psichico. Lo era negli anni Cinquanta, lo è oggi nonostante la maggiore facilità di comunicazione, sia fisica che attraverso i media, con il resto del mondo. Thalia, come qualsiasi altra cittadina, è paradigma della provincia americana più profonda, quella che Norman Rockwell celebrava come locus amoenus dipingendo famigliole sorridenti davanti al pranzo della domenica e benzinai con camicia e cravatta sotto la tuta di lavoro. In realtà sappiamo bene come la provincia americana, la Smalltown America, sia un luogo da cui in tantissimi cerchino di fuggire, perpetuando un meccanismo circolare che ne provoca l'impoverimento umano e culturale. Un fenomeno analizzato e descritto più volte, ormai da decenni, nella musica (Allentown di Billy Joel può essere l'equivalente di American Rust di Philipp Meyer) e nelle scienze sociali, con saggi lucidissimi come Main Street Blues (1998) di Richard Davies, in cui l'autore descrive il declino delle piccole città, confinate dalla cultura urbana alla "crudele oscurità che deriva dall'essere abbandonati dalla ferrovia o lasciati fuori dalla rete autostradale federale". Anche Joseph Amato, nel suo The Decline of Rural Minnesota (1993), denuncia il problema del "ruolo passivo degli insegnanti" in un sistema educativo che spinge gli studenti migliori a trasferirsi. Da tutto ciò non è difficile comprendere come in questi piccoli centri dispersi in mezzo al nulla il carico esistenziale sia più greve rispetto alla grande città, spersonalizzante ma protettiva: è infatti nelle piccole città che avvengono gli episodi di scompenso più eclatanti, in cui individui che non hanno gli strumenti per sostenere la fatica di vivere e, soprattutto, per evitare il crogiolamento nel vittimismo ("la big city è cattiva e quei banditi di Washington minacciano la mia libertà di dire, fare e sparare") tendono a ricorrere alle soluzioni più a portata di mano (la violenza verso sé e gli altri).
Va detto anche che queste tematiche legate ai problemi sociali nei piccoli centri non sono una novità degli ultimi decenni: già Mark Twain, ad esempio, in Huckleberry Finn (1885) descrive le cittadine sparse ai bordi del Mississippi come luoghi da cui è meglio tenersi a debita distanza, descrivendone con toni accesi lo squallore e l'arretratezza culturale.

Ma allora sorge un interrogativo: come mai, nonostante la provincia americana assomigli all'Inferno - almeno secondo quanto descritto qui sopra - in tantissimi ne percepiamo un fascino ineguagliato? Perché non succede la stessa cosa, che so, per le pianure della Polonia, per le montagne dell'Albania o per la Bassa vercellese?
Trovare una risposta è davvero difficile: in tutta onestà riconosco che, per quanto mi riguarda, il fenomeno della colonizzazione culturale può aver avuto il suo peso; eppure il mio rapporto di amore/odio con l'America, viscerale e assoluto in entrambe le sfaccettature, mi fa pensare che non sia tutto qui.

La provincia e i suoi spazi sconfinati sono, secondo una che di America se ne intende davvero, "la più imponente manifestazione di autenticità americana" (potete leggerne qui); a noi europei, che vediamo la vita da una prospettiva spesso agli antipodi, può venire in aiuto la letteratura: l'America profonda è un tema spesso imprescindibile per gli scrittori americani, narratori come pochi altri al mondo. Ecco, forse questa imprescindibilità conferisce all'ambiente una ricchezza unica, singolare nella propria aridità. Da Edgar Lee Masters a David Foster Wallace, passando naturalmente per Larry McMurtry, la letteratura americana è probabilmente la chiave che permette di apprezzare questa realtà nonostante i problemi che la affliggono. O forse è solo che, come dice La McMusa (quella che se ne intende davvero), noi possiamo chiudere il libro quando vogliamo.

Stefano Crivelli