A bocca chiusa non si vedono i pensieri. Nel mondo di Ginny: l'autismo non è un ostacolo alle emozioni

A bocca chiusa non si vedono i pensieri
di Benjamin Ludwig
HarperCollins, 2017

Traduzione di Claudia Lionetti
pp. 429

18 euro

A bocca chiusa non si vedono i pensieri è il primo romanzo di Benjamin Ludwig, insegnante di letteratura e scrittura creativa nel New Hampshire.
Nella sua prima prova narrativa, Ludwig si è cimentato con un tema e una forma stilistica assolutamente innovative: si tratta infatti di un romanzo scritto in prima persona, dove l’io narrante è Ginny, quattordicenne dal passato travagliato, fatto di abusi, violenze e trascuratezza, adottata da qualche tempo da una nuova famiglia. Come se non bastasse il già pesante fardello che la ragazzina si porta appresso, Ginny è anche autistica, una condizione esistenziale (non una malattia) che le fa guardare il mondo da una prospettiva differente rispetto a quella da tutti considerata “normale” e “giusta”.

Nella sua «Casa per sempre», con i suoi «Genitori per sempre», Ginny conduce finalmente una vita tranquilla: va a scuola, ha un papà che la accompagna a fare sport, una mamma che le prepara il pranzo e, soprattutto, una sorellina in arrivo. Ma Ginny non è felice: le manca molto la sua vita con Gloria, la madre biologica, anche se vivere con lei significava non mangiare per giorni e subire violenze e soprusi. A mancarle è, soprattutto, la sua Bambolina, di cui si prendeva cura giornalmente. Per queste ragioni, Ginny progetta costantemente la fuga. Il desiderio di tornare nel passato, unito ai problemi che la sindrome autistica comporta nella vita quotidiana di chi la ha e di chi sta attorno, fa incrinare il rapporto tra la ragazzina e i suoi genitori adottivi.

È questo aspetto del racconto, la relazione tra Ginny e i suoi genitori adottivi, l’elemento che suscita le maggiori riflessioni nel romanzo. A ben vedere, quella di Ginny, potrebbe essere la storia di una qualunque adolescente adottata, con un passato difficile con cui fare i conti; un passato che lascia strascichi profondi nella psiche e nel corpo, ma che rappresenta comunque la prima e più radicata idea di famiglia che un bambino ha: benché sbagliata, pericolosa, irresponsabile, Gloria è la madre di Ginny, e Ginny non sa, non può, spezzare questo legame atavico, fatto anche di sangue e carne. Una madre è sempre una madre, anche quando non ha la capacità di rivestire questo ruolo.
Una riflessione sul concetto di famiglia, su quello che tutti noi intendiamo con questa parole, sulle complicanze, le ombre e i dolori che inevitabilmente questo concetto trascina con sé, anche per chi è stato “fortunato” nel crescere in una “normale”, è forse il più grande lascito che questo romanzo fa al lettore, una volta conclusa l’ultima pagina.
Accanto alla famiglia d’origine c’è anche quella adottiva, che, seppur con alcune eccezioni (il padre adottivo di Ginny, per esempio) suscita in questo racconto una grande perplessità: sebbene intuisca che l’intento di Ludwig fosse quello di mostrare le difficoltà di crescere un’adolescente, per giunta autistica, adottata a un’età non proprio infantile – dodici anni – (vicenda autobiografica, peraltro), l’opinione dei «Genitori per sempre» che ci si fa proseguendo nella lettura è altamente critica.
Adottando il punto di vista della ragazza, e trattandosi di un punto di vista assolutamente diretto, privo di fronzoli, poiché scaturisce da uno sguardo speciale come è quello di Ginny, non si può non provare profondo fastidio e disagio di fronte a una donna che adotta, consapevolmente, una adolescente particolare e, dopo qualche mese di tentativi e di affetto, la tiene a distanza, la disprezza, addirittura la allontana dalla sorellina appena nata, perché convinta che possa «farle del male». La sensazione che se ne ha non è di una donna che non sa come approcciarsi a una ragazzina speciale, ma di una madre che rinuncia al suo ruolo nei confronti della figlia adottata perché finalmente conosce le gioie della maternità fisica e perché la ragazzina è troppo problematica, fastidiosa, pericolosa forse.
Si sperimenta un crescendo di disagio, fino a che non è la psicologa di Ginny a dare voce a quello che il lettore prova:
«Non ho il permesso di toccarla. (la sorellina Wendy, ndr). Mai e in nessun caso. Questa è la regola più importante.»
Patrice distoglie lo sguardo. «Giusto» dice. Ha gli occhi lucidi. «Nemmeno quando piange. Nemmeno quando sei convinta che abbia bisogno di mangiare. Nemmeno se a questo punto toccare la bambina ti aiuterebbe più di ogni altra cosa.» (p. 236)
Al di là delle riflessioni sui contenuti, è mirabile lo sforzo dell’autore di dar voce diretta a una ragazza così speciale: l’autismo non è una malattia, è un modo di vedere il mondo, di catalogarlo e interpretarlo. Per questo, è molto molto difficile rispondere alla domanda: come pensano gli autistici?
Ludwig ha avuto un’insegnante speciale, la figlia adottiva, che ha senz’altro contribuito (inconsapevolmente) a dar forma a questo romanzo. Probabilmente non sempre si tratta di una ricostruzione realistica (forse gli autistici non ragionano esattamente così, chi può davvero dirlo?), ma è senz’altro un esperimento ben riuscito.

Che mi ha lasciato due grandi eredità: la consapevolezza che si può sorridere anche delle nostre differenze, delle particolarità di ognuno, senza scherno né vergogna (e più di un sorriso mi ha strappato il passaggio: «Tutti sanno che il vero significato del Natale è nascita di Gesù Cristo Salvatore del Mondo ma il vero scopo sono i regali»! - p. 244) e, all’opposto, che tali particolarità e differenze sono solo una infinitesimale parte di un complesso sistema di stranezze in cui rientriamo tutti, ognuno con le proprie manie e piccole ossessioni, a formare quella che, superficialmente, definiamo “normalità”. Un concetto grande (e capiente) quanto il mondo intero.

Barbara Merendoni