#critiCinema: Un film, un cupcake. Paterson, di Jim Jarmusch

«Chi son? Sono un poeta.
Che cosa faccio? Scrivo.
E come vivo? Vivo.»

Altro che Bohème.
Nella città di Paterson, in New Jersey, non succede mai niente.
Nella vita di Paterson (Adam Driver), che abita a Paterson, in New Jersey, non succede mai niente.
Vive in una casetta tutta fantasiosamente decorata a mano con sua moglie Laura (Golshifteh Farahani) - fricchettona ed entusiasta, che sembra esistere in un mondo suo pieno di progetti e sogni strampalati e inconcludenti, come diventare una stella del country o arricchirsi sfornando cupcake – e con il bulldog Marvin.
Ogni mattina si alza alla stessa ora, esce di casa, va al lavoro: guida il suo autobus e ascolta i discorsi della gente, che possono variare dai commenti sul tempo a una discussione su Gaetano Bresci, per bocca di due giovanissimi neoanarchici - che strano ritrovare i protagonisti di Moonrise Kingdom (Wes Anderson, 2012), che sembrano essere scappati ancora, ma questa volta dal quadro andersoniano per calarsi in una realtà di adolescenza di provincia!


Sembrerebbe che non ci sia nulla, della vita di Paterson, di cui varrebbe la pena parlare.
E invece lui scrive, anzi circo-scrive la minuscola realtà e la ingrandisce, fino a ritagliarsi una dimensione tutta sua, nello spazio di un quadernetto su cui annota poesie.
Versi che partono da una quotidianità, versi che sembrano passi da uccellino che lasciano un'impronta lieve sulla polvere dei giorni che passano e che si ripetono da un giorno all'altro, come onde concentriche di un lago immobile.

In fondo, Paterson, fratello di Don Johnston (Bill Murray) di Broken Flowers (2005) e dei vampiri di Only lovers left alive (2013, di cui avevamo già parlato, qui) e di altri personaggi del regista Jim Jarmusch, è uno che fa una gran fatica a trovare il suo posto nel mondo dove si è trovato a vivere.
Usa la poesia per dare senso e consistenza ad una vita ordinaria. Ma non trova la poesia nelle piccole cose, anzi. Lui usa le piccole cose per cercare la Poesia.
E se Dante è un modello troppo alto e irraggiungibile, un santino da riporre in una scatola, è William Carlos Williams, il poeta originario di Paterson, New Jersey, l'esempio materiale, il libro consumato a forza di essere letto.
Quel William Carlos Williams che nel 1934 lasciava alla moglie questo bigliettino, che è diventato una delle sue poesie più famose, Solo per dirti (This is just to say):

«Ho mangiato io
le prugne
che erano
in frigorifero

e che tu
probabilmente
avevi tenuto da parte
per colazione

Scusami
ma erano deliziose
così dolci
e così fredde»

Quello stesso William Carlos Williams il cui nome viene emblematicamente storpiato da Laura, che nonostante le sue manie artistiche rimane, in fondo, una superficiale, incapace tanto di capire la poesia, quanto di capire Paterson.

L'impressione è che la poesia serva a impacchettare la tristezza, serva quasi alla redenzione dal disagio esistenziale di un ragazzo troppo sensibile che si è arreso all'anafora dei giorni, e ha anzi deciso di usarla per crearsi una comfort zone nella quale raggiungere una sua (precaria, ma quotidiana) soddisfazione.

Delicato e minuziosamente struggente, esteticamente perfetto fino alla saturazione visiva, Paterson di Jim Jarmusch (2016), è un film-gioiellino in fondo un po' stucchevole.
A pensarci bene, proprio come un cupcake.


Giulia Marziali