"Carne Sacra" di Valentina Calista


Carne Sacra 
di Valentina Calista
Edizioni Ensemble, 2015


pp. 74
€ 12,00



Valentina Calista, giovane poetessa di origini romane, consolida il suo spazio nell’attuale panorama della poesia italiana e giunge alla sua seconda prova letteraria con Carne Sacra, una raccolta di cinquanta poesie edita da Edizioni Ensemble. È un libro che porta con sé il segno del suo antecedente, La vertigine dell’andatura, e dei temi lì ricorrenti – il tempo, il divino, le mani e le rughe – che qui sono traccia per nuove riflessioni che mostrano la crescita poetica della Calista e la maggiore maturità acquisita dalla sua parola. 
Ora il tempo diventa riflessione sull’origine, che è nome che radica alla provenienza (da qui il titolo della prima sezione L’origine e il nome), ma che è anche movimento, quello “dall’etere all’utero/dall’utero all’umano”, o quello di un “treno dissennato”, o una danza della carne e dell’anima: 
Carne sacra ai vapori dell’anima, siamo
costellazioni simultanee di preludi alla vita,
eternamente danzanti sulle tracce di un Bene.
Carne per la Calista sono le mani, anche loro in associazione con l’origine, “lanterne indicatrici di vita”, ruvide come gli alberi, e anche loro in divenire, poiché “allestite per modellare”. Il movimento, la danza, il divenire sono le variazioni dell’andatura della prima raccolta della scrittrice, ma se lì l’andatura provocava vertigine, ora la Calista associa nuove immagini alle trasformazioni del corpo e dell’anima. Senza venir meno alla fiducia nella forza della parola e dell’amore, la possibilità di consolazione si percepisce più labile qui rispetto alla prima silloge. La spiritualità, a volte rappresentata da un un Dio cristiano, si lega alla sacralità: sacra è la carne per l’anima, come testimonia il titolo della raccolta e la precedente citazione, ma non è certo un caso che la parola ‘sacro’ si ritrovi solo vicina a “incertezza” (“sacra incertezza / di poterti guardare / fino all’ultimo dei giorni”). 
Probabilmente l’incertezza è segno di una crescita, del dubbio che affiora con la maturità, di un divenire nella consapevolezza del tempo che scorre e che inesorabilmente conduce alla morte. E la riflessione sulla morte come variante dell’intendere la relazione col futuro percorre tutta la seconda parte della raccolta intitolata Cronache dal silenzio. Stanno qui le poesie più dolorose del libro, quelle in cui la carne sacra viene descritta nel suo declino, nel suo sfarsi, “carni strapazzate, disgraziati corpi / vestiti di nulla”. Ma poi, come ad alleviare la sete affannosa del corpo morente, giungono i testi della terza sezione, l’Acqua del prigioniero. Già in dialogo con i gli autori e i testi di riferimento della Calista (Wisława Szymborska, le sacre scritture, David Maria Turoldo e, vero nume tutelare, Paola Malavasi), ora l’io poetante dialoga con un “tu”, con un altro che la poetessa definisce “gaiezza di me” e che è necessario per ricomporre e percepire di nuovo la carne in sodalizio con l’anima. Torna quindi la gioia di sentire di sentire le radici, condivise con chi ha partecipato all’esperienza della morte e del silenzio e ora partecipa alla “nostra semplice presenza”. 
Valentina Calista
Nella terza sezione della raccolta (di cui qui sotto è riportata per intero la quarta poesia) ci sono forse i testi che più corrispondono all’idea di scrittura femminile così come intesa da Hélène Cixous quando urlava dalle pagine dei suoi scritti che la donna deve scrivere se stessa, inserendosi nella storia e nel mondo con un suo proprio movimento. La più grande forza della poesia della Calista è proprio quella di scrivere se stessa, la sua carne e la sua andatura, senza nessun facile lirismo e senza nessuna celebrazione della propria soggettività rispetto alle altre, ma forgiando la parola a partire dalla sua esperienza sensibile col mondo che la circonda e con cui dialoga. 






Hanno detto che questa sera 
c’è luna piena, che capiterà 
nuovamente nel duemilaquarantanove. 
Avere sessantasei anni e cercare 
il ricordo nella piena luna d’allora. 

Vedrò ancora il sorriso latteo? 
Si manifesterà ingenuo lo sguardo? 
E chi sarò io, a sessantasei anni? 
Ci baceremo alla luce delle nostre somme? 
Quella vita – di oggi, intendo – ci apparirà 
lieve in assenza di gravità? 

Limpide e rugose come la terra riarsa, 
bianche come le vette delle splendide altezze 
- irraggiungibili per chi non ama la montagna -
dorate come i caldissimi unguenti d’estate, saremo. 
Hanno detto che questa sera 
c’è luna piena, che capiterà 
nuovamente nel duemilaquarantanove. 
Avere trentuno anni e sentire 
l’oceanica presenza delle nostre somme. 



Serena Alessi