#CriticaNera - L’altra faccia dell’amore: “La cicala dell’ottavo giorno” di Mitsuyo Kakuta

La cicala dell'ottavo giorno
di Mitsuyo Kakuta
Neri Pozza, 2014

Traduzione di G. Coci

pp. 400
€ 18




San Valentino è passato da poco. La letteratura media – vedi “Cinquanta Sfumature” – ci ricorda che la passione può portare a delle scelte estreme. Ancor più scandaloso, è che anche la cronaca nera ricorda ai comuni mortali il potere distruttivo della passione: la nostra Barbarella nazionale, alias Carmelita, è pronta a ribadirlo ogni giorno in tutte le salse.

Dal Giappone, Mitsuyo Kakuta tratta proprio questo aspetto turbolento e controverso legato alla passione. L’autrice scava a fondo nell’animo dei suoi protagonisti, senza cercare di far emergere forzatamente delle risposte. Al contrario, esplora le vibrazioni e gli impulsi dettati da sentimenti inconsci incontrollabili ma sinceri.
Sono le azioni, le scelte e il destino delle due protagoniste a parlare: due punti di vista che si intrecciano e si fondano, rendendo difficile una vera e propria distinzione sul piano sintattico e narrativo. Difatti, è la sola narrazione a ritroso degli stessi eventi a lasciar intuire al lettore che si tratta di un altro occhio, di un’altra mente pensante. Eppure, le parole, le espressioni, il destino sembrano essere legati ad una sola anima, ad un solo pensiero.
Le due protagoniste del romanzo sono Kiwako ed Erina/Kaoru. Entrambe giovanissime, ma in anni diversi: Kiwako poco più che ventenne negli anni Ottanta, Erina nel 2005. Entrambe condivideranno un destino crudele, fatto di passioni travolgenti ma distruttive all’ennesima potenza.
Kiwako è l’amante del padre di Erina prima ancora della nascita di quest’ultima. Costretta ad abortire dall’uomo che ama e da sua moglie, Kiwako diventa sterile: è questo senso di vuoto inconscio – il vuoto della maternità, del feto, della procreazione – a portarla ad un gesto estremo. Kiwako rapisce la bambina di sei mesi dell’amante e della sua rivale in amore. Erina, la neonata, diventerà la sua Kaoru, con la quale condividerà quattro anni di amore materno intenso e sviscerato, di fughe, sette religiose e amici veri e fidati.
Erina, d’altro canto, non farà la differenza: tornata tra le braccia della sua famiglia d’origine, vivrà una vita vuota d’affetti se non per una sola e unica passione distruttiva, quella con un uomo sposato che le regalerà una gioia inaspettata.

La trama non è originale: il tema è già stato trattato fino alla nausea. Eppure, questo legame sottile e improbabile tra le due donne, profondo ma vissuto solo a livello inconscio fino all’ultima riga del romanzo, lascia spiazzati. Come viene ricordato ad Erina: “Tu sai benissimo cosa significhi amare ed essere amati, desiderare ed essere desiderati. E questo è tutto ciò di cui si ha bisogno per essere una buona madre”. In una società predominata dal concetto di moralità e dai legami di sangue, Kiwako dimostra che al di là di un gesto apparentemente immorale, c’è solo un grido di protesta. Un vuoto da colmare con tanto amore, quello materno, puro, senza alcun legame carnale. Motivo per cui Kiwako non comunica mai verbalmente i suoi sentimenti alla piccola Erina/Kaoru ma solo a livello inconscio, in un dialogo personale, quasi consapevole che quel piccolo “angioletto” – riferimento indiretto ad un simbolo importante nella vita delle due – potrà leggerle il pensiero.

Una lettura piacevole, intensa, capace di inchiodare fino all’ultima parola. Un modo per celebrare San Valentino all’insegna del vero amore primordiale: quello materno, quello che non chiede e non pretende, sincero e incondizionato.


 Arianna Di Fratta