#RileggiamoConVoi - #LibriSottoLOmbrellone - luglio 2014


Lago di Devero - Foto di Stefano Crivelli
Buongiorno a tutti! 

Infaticabili della lettura, anche quest'estate? Allora questo post fa proprio per voi: abbiamo pensato di spostarci dalle spiagge affollate e di portarvi in montagna tra Val D'Ossola e Svizzera con le foto del nostro Stefano e tanti consigli di libri da leggere nella tranquillità di una valle così. 

Come sempre, potete leggere le nostre recensioni e gli inviti alla lettura per scoprire se quel titolo fa proprio per voi! 

Buona lettura e ottimo agosto! 
La Redazione

#CritiComics: Viaggio al centro del cervello con "Neurocomic"

Neurocomic
di Matteo Farinella e Hana Roš
Rizzoli Lizard, 2014

pp. 144
€ 16,00 cartaceo

Per sopravvivere come Alice a un paesaggio tanto noioso da sembrare una texture, lo sguardo del nostro anonimo protagonista incontra quello del suo Bianconiglio, in questo caso un'assorta lettrice con cui non ha nemmeno il tempo di scambiare una sola parola perché risucchiato all'interno del graphic novel che stiamo leggendo: “Neurocomic” di Matteo Farinella e Hana Roš (Rizzoli Lizard, 2014). 

La sua immagine filtrata e ribaltata dal nostro occhio, percorre un lungo tunnel (senza mensole e scaffali con barattoli di marmellata d'arance) per poi riprendere consistenza con un OUCH. Subito dopo il dolore onomatopeico della brutta caduta, il nostro protagonista scopre di trovarsi in una foresta. In lontananza, un uomo fissa gli alberi e prende appunti: è il neuroscienziato Santiago Ramon y Cajal, premio Nobel per le sue ricerche riguardanti la struttura del cervello. Ma cosa ci fa un neuroscienziato in un bosco? Se la selva oscura non è colma di alberi ma di neuroni, il mistero è presto svelato. L'uomo si trova infatti all'interno di un cervello (il suo? Il nostro? Quello di un'altra persona?) e attraversarlo è l'unico modo che ha per tornare nel suo mondo e ritrovare l'affascinante lettrice. Ma per farlo dovrà scoprire e capire il funzionamento dell'organo più misterioso del corpo umano, grazie anche all'aiuto dei numerosi scienziati che l'hanno studiato.

#ScrittoriInAscolto - Con Fabio Stassi


Fabio Stassi e Marco Caneschi


Fabio Stassi per Sellerio ha pubblicato un romanzo di estrema delicatezza, “Come un respiro interrotto”, la storia di Sole, cantante dalla voce unica e universale, la storia di Matteo salvato in una serata romana proprio da questa voce, la storia di una famiglia fatta di dialetti e silenzi indecifrabili. Ma Fabio, prima di entrare fra le pieghe del suo libro, ha voluto fare un elogio specifico: «allo stato di distrazione che deve accompagnare chi scrive».

Cosa aggiungere adesso? Intanto chiarisci perché hai scelto e come hai gestito questa struttura dove alterni momenti di trama lineare e memorie di diario scritte in epoche indefinite.
«Questa storia mi abitava da molti anni. Ho scelto di raccontarla in maniera disordinata perché secondo me questi salti temporali e di voci narranti erano l’unico modo per parlare di cose perdute e trasmettere il senso di disorientamento che vivono i personaggi. Volevo che i lettori provassero le loro stesse sensazioni. Per il lettore ho un rispetto profondo, mi piace parlare di patto fra me e lui e il patto deve basarsi su una regola cardine: dichiarare guerra a ogni conformismo. Mi è stato detto: “hai scritto un mosaico degli affetti” ed è una definizione che accolgo. Intendiamoci: non è che anche in un mosaico, in una situazione in cui sono tante le tessere da comporre, non esistano regole da seguire. Intanto i capitoli: mi sono dato il 26 come numero massimo, corrispondente alle lettere dell’alfabeto. Ecco, oltre che un mosaico questo libro è un alfabeto, dove magari la Z viene prima della A ma delle lettere non ne manca una. Se vogliamo dare un’immagine della narrazione potremmo ricorrere al diagramma di un’onda sonora. E se il lettore vuole arrivare a un’integrità può farlo in un processo di acquisizione silenziosa».

"Cento lacrime mille sorrisi" di Chiara Pelossi-Angelucci



Cento lacrime mille sorrisi
di Chiara Pelossi – Angelucci,
Sperling & Kupfer, 2014

pp. 196



Basterebbe il sottotitolo, Storia di una malattia sconfitta, di una famiglia strampalata e della terapia del sorriso a far intendere che la lettura di questa storia è intenzionalmente una testimonianza vera, intensa, difficile, ma profondamente coinvolgente e umana. Con una narrazione scorrevole, leggera, quasi totalmente autobiografica, l’autrice affronta il “problema” che vive la sua giovane famiglia nelle fasi successive all’arrivo gioioso di una nuova nascita. Attese, speranze e progetti che accomunano tante coppie alle prese con la crescita di una nuova creatura. Ma il destino ha riservato per Anna un altro percorso e un’altra via di difficile comprensione:
Chiudo gli occhi. Non voglio sapere, non voglio vedere. Vorrei solo che tutto questo fosse un orribile incubo. Capisco perché gli struzzi infilano la testa nella sabbia: da quella prospettiva tutto è più semplice. Quando li riapro, mi trovo di fronte due medici, uguali nel loro camice, slanciati e sorridenti come le gemelle Kessler. «Carissima», mi dicono all’unisono in tono zelante. Credo vogliano essere rassicuranti. […] Quello di destra, il ginecologo, si accomoda sul letto e mi prende la mano; l’altro, il pediatra, mi porge un libro aperto alla voce «Esofago» e mi spiega il problema di Anna. Per quanto possibile, perché di malformazioni all’esofago ne esistono vari tipi, e solo a Zurigo potranno capire con esattezza di quale  variante si tratta e come si potrà intervenire. Di una cosa però sono certi: piccola com’è, Anna dovrà andare in sala operatoria.[1]

"Tiziano Terzani, cronache di una vita": da oggi con il Corriere una nuova edizione delle opere del giornalista fiorentino


Un indovino mi disse
di Tiziano Terzani




Tempo di celebrazioni. A dieci anni dalla scomparsa di Terzani e a pochi mesi dalla pubblicazione dei diari inediti che ci hanno restituito l’immagine privata e spesso tormentata dell’uomo, il mito del giornalista fiorentino trapiantato in Asia pare conoscere – se mai fosse venuta meno- nuova fama; lettori affezionati che rileggono pagine ormai consumate dei reportage di Terzani, nuovi appassionati che guardano con curiosità a quelle storie su un mondo oggi molto diverso ma dal cui passato, spesso fatto di guerre e distruzione, non si è mai del tutto liberato.

E dieci anni sono quindi il momento ideale per riproporre l’opera del giornalista in una nuova veste editoriale, ma anche per organizzare eventi come il concerto spettacolo di questa sera che urlando #Terzani10 riporta per una volta ancora l’uomo in mezzo al suo pubblico. Tra celebrazione e desiderio di alimentare il mito mai dimenticato di un giornalista italiano d’origine ma come pochi altri cittadino del mondo, il Corriere della sera ha quindi inaugurato oggi la collana “Tiziano Terzani, cronache di una vita” proponendo ogni lunedì in allegato al quotidiano l’opera completa dello scrittore, con una nuova veste grafica. Un progetto interessante, di cui forse poco chiara è l’organizzazione della scaletta, che si unisce alle altre celebrazioni e progetti dedicati allo scrittore in occasione del decennale della sua scomparsa.
Foto © Archivio Terzani

Il primo titolo proposto dal Corriere è Un indovino mi disse pubblicato nel 1995 sull’esperienza in Asia nel 1993, un anno di viaggio e reportage senza prendere un aereo ma spostandosi solo per mare o terra. È il libro che ha segnato il grande successo di pubblico di Terzani scrittore, forse la sua esperienza più stravagante in un viaggio alla scoperta dell’Asia e dei suoi misteri che si intrecciano alla scoperta di sé e a un modo inusuale di viaggiare, più lento e irregolare ma pieno di sorprese e incontri inaspettati. Dopo vent’anni trascorsi in Asia come corrispondente e scrittore, su e giù da un aereo alla ricerca di storie da raccontare, momenti cruciali della politica di cui essere testimone, Terzani ricorda una profezia annunciatagli tanti anni prima ad Hong Kong nella primavera del ’73 da un indovino che lo metteva in guardia dal non volare nel 1993 o avrebbe rischiato di morire. Affascinato da uno degli aspetti forse più esotici della cultura orientale che l’Occidente chiama spregiativamente superstizione, e perché no pronto ancora una volta a mettersi in gioco in una nuova stravagante avventura, decide quindi di piegarsi alla profezia e impegnarsi per tutto quell’anno a viaggiare senza prendere aerei:
La profezia era la scusa. La verità è che uno a cinquantacinque anni ha una gran voglia di aggiungere un pizzico di poesia alla propria vita, di guardare al mondo con occhi nuovi, di rileggere i classici, di riscoprire che il sole sorge, che in cielo c’è la luna e che il tempo non è solo quello scandito dagli orologi. Questa era la mia occasione e non potevo lasciarmela scappare.

#LibrinTrincea – La paura e altri racconti della Grande Guerra, di Federico De Roberto

La paura e altri racconti della Grande Guerra
di Federico De Roberto
edizioni e/o, 2014

pp. 144
€ 14,00


Ci sono molti modi per raccontare una guerra, e alcuni sono ormai così profondamente radicati nell'immaginario collettivo globale da costituire strumenti interpretativi metaforici adatti a descrivere qualunque tipo di guerra. In fondo, anche la guerra in sé e per sé è un classico, nel senso calviniano del termine: vale a dire, un fenomeno che non finisce mai di dire ciò che ha da dire, e – malgrado i secoli, l'affinamento dei mezzi con cui viene combattuta, le motivazioni di cui ogni volta sceglie di rivestirsi – lo dice sempre negli stessi modi. Così, ogni guerra potrà sempre schiantare la propria propaganda supereroistica e le proprie mitologie insensatamente agiografiche contro il crudo realismo di testi come Niente di nuovo sul fronte occidentale di Remarque o Addio alle armi di Hemingway; o scontrarsi, sospinta dai propri afflati pseudo-ideologici, con la comicità paradossale, grottesca e decostruttiva di Comma 22 di Heller, o di Mattatoio n. 5 di Vonnegut.

Tutti nomi stranieri, al solito. Ma in Italia non siamo proprio capaci di fare niente, che dobbiamo sempre rivolgerci all'estero per capire meglio le cose? Mi spiego meglio: abbiamo ovviamente, nella nostra letteratura, testi che hanno saputo raccontare la Grande Guerra con la profondità di osservazione, la crudezza e il realismo, per dire, di Un anno sull'altopiano di Lussu. O dei Giorni di guerra di Giovanni Comisso, o, più recentemente, La pazzia di Dio di Luigi De Pascalis (di cui abbiamo parlato nella prima puntata di #LibrinTrincea). Ma si tratta di testi che, pur nella loro grandezza, restano legati al contingente, in modo che il romanzo di Lussu, ad esempio, perfetto come strumento analitico per la Prima guerra mondiale, non funziona altrettanto bene per la Seconda. Da cui la mia domanda di partenza: se dovessimo citare un testo italiano sulla Grande Guerra che valga come chiave interpretativa per qualsiasi guerra, cosa estrarremmo dal cilindro?

#LibrinTrincea - Il secolo americano di Geminello Alvi (pt. 2)



Il secolo americano
di Geminello Alvi
Adelphi, 1996




«“Il mio sogno è che nel procedere degli anni, e come il mondo saprà di più dell’America, esso … ricorrerà all’America per quelle moral inspiratios  che risiedono alla base di ogni libertà … e che l’America giungerà alla piena lucentezza nel giorno in cui tutti sapranno che essa colloca i diritti umani avanti a tutto, e che la sua bandiera è la bandiera non solo dell’America, ma dell’umanità”. Il bene umano si confonde con il bene degli Stati Uniti, e il bene degli Stati Uniti era deciso dalla pubblica opinione americana: dunque spettava al profeta Wilson che ispirava la pubblica opinione incaricarsi del bene dell’umanità».

Il Segretario di Stato degli Stati Uniti il 15 agosto 1914 aveva spiegato che “i prestiti dei banchieri americani a ogni nazione estera belligerante sono in contraddizione con la vera essenza della neutralità”. E lo spiegò anche alla Morgan & Co.

#Scrittori in Ascolto - Con Nicolai Lilin

Marco Caneschi e Nicolai Lilin

«Tra me e voi c’è una grande differenza. Io ho ucciso e voi no. Non tornerò più quello di prima». Il “me” in questione è Nicolai Lilin, autore di “Educazione Siberiana” e di una vera e propria trilogia personale che dalla Transnistria e i tatuaggi lo ha condotto alla Cecenia e alle pallottole. Nicolai ha scritto e pubblicato per Einaudi il romanzo “Il serpente di Dio” dove pare avere svoltato verso gli orizzonti della fiction rinunciando al prevalente tratto autobiografico. Ma è proprio così?

«Credo che quando uno scrittore apre un dialogo con i lettori porta sempre qualcosa che ha vissuto. Magari tra un libro e l’altro possono esserci varianti stilistiche, l’abbandono di personaggi reali o della trama in prima persona. Ma dentro i protagonisti di una storia resta sempre qualcosa di vissuto».

Dalla sceneggiatura al romanzo: Anime Nere di Andrea Biondi

Anime Nere
di Andrea Biondi
Narcissus.me, 2013



Se inizi a leggere un romanzo dopo cena e ti ritrovi in piena notte ancora incollato al bookreader perchè non riesci a darti pace finchè non arrivi alla parola fine...significa che quel romanzo funziona. Un po' me lo aspettavo perchè di Andrea Biondi avevo già letto con soddisfazione e divertrimento "Due". Ma "Anime Nere" mi ha piacevolmente stupito per diversi motivi: innanzitutto tocca generi narrativi che solitamente non mi appassionano granchè come le storie di guerra, l'horror, lo splatter. In secondo luogo strizza l'occhio all'ucronia e quando ci si imbarca in imprese del genere occorre farlo bene, altrimenti si rischia di inciampare malamente. Ma il risultato finale di questo romanzo nato dalla sceneggiatura di una web serie che sta ottenendo premi in tutto il mondo, è davvero coinvolgente.

Un viaggio on the road quando l'on the road non era più (o ancora) di moda



Gli autonauti della cosmostrada ovvero viaggio atemporale Parigi- Marsiglia
Titolo originale: Los autonautas de la cosmopista , un viaje atemporal Parìs- Marsella
di Julio Cortàzar e Carol Dunlop
Einaudi

pp. 258
traduzione Paola Tomasinelli 

Una delle più apprezzate categoria di lettura, soprattutto nel periodo estivo, è la letteratura di viaggio: meglio ancora se on the road. Ragazzi che vanno fino in Patagonia con un "50 special", autostoppisti che di macchina in macchina arrivano fino alla Grande Muraglia Cinese, monopattini che sfrecciano tra i geyser dell’Islanda: meglio ancora se tutto accuratamente documentato sui vari social. I percorsi diventano sempre più vari e i mezzi di trasporto strani, all’insegna di un viaggiare lento e controtendenza.
A inizio anni ’80, quando i nuovi mezzi di trasporto sempre più veloci avevano reso il mondo molto più piccolo e i viaggi “zingarata” echeggiavano ancora nei ricordi della beat generation, al di qua dell’oceano, una coppia ha scelto un viaggio lento e contemplativo in uno dei paesaggi meno suggestivi che si possano immaginare: l’autostrada Parigi- Marsiglia.

#Scrittori (e disegnatori) in ascolto - Con Marco Steiner e Stefano Babini


C’era una volta Hugo Pratt e c’era una volta… anzi no, lui è per sempre perché Corto Maltese, nato il 10 luglio 1887, è immortale. Tant’è che mi sono trovato a parlarne proprio un 10 luglio, del 2014, mentre Corto compiva 127 anni. Ancora si tiene in forma e guarda un mare qualsiasi del suo universo. Gabbiani che si levano in aria mentre un rito, forse vudù, forse maori, sta per compiere il suo corso. Ero con due compagni d’eccezione: Marco Steiner, autore per Sellerio del gioiello intitolato, a proposito di uccelli, “Il corvo di pietra”, romanzo sulla prima avventura di Corto Maltese quattordicenne, e Stefano Babini, disegnatore del disincantato e anarchico marinaio.

Chi era Hugo Pratt per te, Marco?
«Hugo si definiva un fumettaro e io ero il suo ragazzo di bottega, lo aiutavo nelle storie, mi immergevo nelle ricerche e inevitabilmente nelle immagini che creava. La parte che ho preso di più da lui è stata la sua capacità di raccontare. Ti spiego, quando ci conoscemmo mi chiese quali fumetti leggessi e io gli risposi “Mandrake”, aggiungendo: e Salgari. La sua replica fu: beh… sei già un pezzo avanti. Poi, con Hugo, ecco profilarsi la sagoma di Corto e sai cosa ho scoperto? Che per raccontare una storia a fumetti ci vuole una grandissima cultura, una precisa conoscenza e una documentazione sterminata. Perché se devo disegnare una tavola con un indiano irochese che spara a un cervo in una foresta canadese della metà del Settecento, devo sapere come è fatto un irochese, come è vestito e che capigliatura porta, devo sapere come erano le foreste canadesi dell’epoca e il fucile con il quale uccide l’animale».

Quell'estate indimenticabile

Noi due oltre le nuvole 
di Massimo Cacciapuoti
Garzanti

pp. 144 €
€ 14.90




Ognuno ha impresso nella memoria il ricordo di un’estate durante - e dopo- la quale ha avuto la sensazione che qualcosa fosse cambiato. O, più semplicemente, ci si è sentiti diversi. Uscendo dall’ambiente quotidiano e dalle proprie gabbie, lontani dalle persone che spesso rappresentano quelle gabbie, lontani appunto, liberi. In genere questo tipo di estate viene vissuta durante la delicatissima età dell’adolescenza, l’età della profondità, dell’introspezione, della perdita di certezze, della costruzione della propria identità e dei primi amori. Sì, proprio quelli che sembrano infiniti, tanto intensi da togliere il fiato, tanto che lo stomaco fa le bizze, il cuore scoppia nel petto e le guance esplodono. A quell’età tutto è più forte, ma anche profondamente fragile. Massimo Cacciapuoti nel suo ultimo romanzo Noi due oltre le nuvole racconta proprio una di quelle estati. Gli adolescenti protagonisti non sono di quelli comuni, ma due ragazzi in modo diverso speciali. C’è Nica: carina, magrolina, chiusa, “strana”, un genio in matematica, tanto da innalzare al ruolo di amici i numeri. Nica, figlia unica, oltre che con i numeri e le operazioni matematiche ha un rapporto morboso anche con i suoi genitori e con sua nonna.

"La misura della felicità" di Gabrielle Zevin

La misura della felicità
di Gabrielle Zevin
Editrice Nord, 2014

pp. 320
€ 16,00 cartaceo





Ci sono libri che d’istinto ti conquistano dalla prima all’ultima pagina con egual trasporto, ti stregano con una prosa perfetta, una storia intrigante e personaggi che in qualche modo ti entrano dentro e che ti scrollerai di dosso con un po’ di difficoltà. Libri come questi se ne incontrano raramente, davvero troppo raramente per un lettore appassionato ed esigente che si innamora follemente e in modo totale; ma così travolgenti passioni non capitano spesso e «bisogna leggerne molti, bisogna crederci, bisogna accettare che ti deludano, perché qualcuno, di tanto in tanto, ti possa entusiasmare». Noi, lettori di professione, divoriamo libri su libri sempre con sguardo lucido e attento, leggiamo con la testa e il cuore, pronti a lasciarci travolgere dalla passione e allo stesso tempo critici intransigenti che scompongono l’opera pezzo dopo pezzo, alla ricerca di punti di forza e debolezze. 
Inquadriamo il testo nel panorama letterario del suo tempo, lo confrontiamo con altre opere dell’autore e di scrittori del periodo. Lo viviamo più volte, su livelli differenti di lettura e analisi, senza perdere il piacere primordiale che ci reca la lettura. Qualche volta veniamo conquistati e tessiamo lodi da adolescente innamorato, altre volte restiamo profondamente delusi, le aspettative non soddisfatte, ma consapevoli della responsabilità verso i lettori (di cui il numero non ha importanza: anche solo un lettore della nostra recensione merita l’onestà intellettuale che guida il lavoro di critico) che leggeranno le nostre righe. Come citato poco più sopra, nel marasma di libri che ci passano davanti capita – e mai così di frequente come vorremmo- che uno di questi ci entusiasmi. Ma, molto più spesso, un libro ci suscita sensazioni contrastanti, ci conquista per certi versi e profondamente, ma ci lascia perplessi per altri; difficile in questi casi dare netti giudizi, non possiamo fare altro che scoprire tutte le nostre carte, essere onesti su pregi e difetti che inevitabilmente compongono un’opera e lasciare al lettore il giudizio definitivo. La misura della felicità, appartiene a quest’ultimo caso. È un romanzo che si inserisce nel filone dei libri che parlano di libri, sottogenere interessante per tutti i bibliofili appassionati, autoreferenziale per certi versi ma senza dubbio interessante per i molteplici spunti tra le pagine; in questo caso la riflessione sui libri si giustifica anche nella scelta del protagonista, il libraio A.J. Fikry, proprietario di una piccola libreria ad Alice Island che dopo l’improvvisa morte della moglie si è ritrovato a gestire da solo.

E se a una logorrica proibissero di parlare per sei settimane?


Alla fine andrà tutto bene (e se non va bene... non è ancora la fine)
di Raquel Martos
Feltrinelli, 2014

Traduzione di Enrica Budetta
pp. 272
cartaceo € 15.00



Prendi Carla, una quasi-quarantenne logorroica, «troppo romantica e un po' tontolona [...] in tutti gli aspetti della vita» (p. 20), vivace e simpaticissima, che ha tanti amici, un carattere estroverso e un'opinione sul mondo e sulla sua Madrid.  Qualcosa si incrina, prima ancora che si apra il romanzo: finisce la relazione con Roberto, egoista e menefreghista (ma «a volte succede, ti innamori di quello sbagliato e mandi tutto a rotoli» e «non ascolti quelli che cercano di avvisarti del pericolo di un rapporto così malato», p. 95); il lavoro in radio inizia a pesare, perché le tante aspirazioni di Carla sono via via frustrate e lo stipendio è da fame. A questo si aggiunge la notizia che aprirà la crisi maggiore (e animerà il romanzo): un'operazione alle corde vocali terrà Carla zitta per sei settimane

La lunga convalescenza nasconde altro: costringe la protagonista a fermarsi davanti a questioni che avrebbe probabilmente rimandato ancora. Ad esempio, come affrontare la morte del fratello, dopo due anni di sofferenza? Davvero non c'è modo di dimenticare Roberto? E perché il suo migliore amico Juan si comporta così con lei, dopo una notte "accidentale" di sesso? Come riprendersi e ritrovare sé stessa, se l'intervento avesse danneggiato per sempre la voce? 
Tutte domande che l'io narrante riversa, tratta e almeno in parte risolve in una narrazione fluviale, simpaticissima, facile da deglutire per le lettrici (sì, è un romanzo soprattutto al femminile), che riconosceranno il gusto del precedente I baci non sono mai troppi (sempre Feltrinelli, 2013). Non c'è solo la freschezza di una storia che ti pulisce la bocca da tanti romanzi amari e pessimistici: una punta di asprigno si sparge anche qui, è un retrogusto chiaramente, ma le paure di Carla sono inevitabili, e la sua grinta di tanto in tanto si interrompe per fare posto ai dubbi. 

#LibrinTrincea - Il secolo americano di Geminello Alvi (pt. 1)


Il secolo americano
di Geminello Alvi
Adelphi, 1996





«Quelle anime che, andate confuse tra loro come un fumo, volano nell’aura della terra, paiono distrarre ogni nesso scontato e ogni determinismo. Per loro la storia diviene un angelo e si ritrae dagli eventi; resta l’umano, dunque il più che incerto. Il proseguire della guerra ridiviene incerto, atto umano».

Lasciar raccontare la Prima Guerra Mondiale da Geminello Alvi permette di superare i limiti del manuale, della memorialistica, del saggio più o meno erudito. Si passa invece dalle immagini ad altri frammenti di citazioni e documenti, e poi attraverso caratteri e numeri, quantità e denaro, titoli che si comprano e si vendono da una parte all’altra dell’oceano.
«Tutte le riserve d’oro del’Inghilterra sarebbero servite, ai ritmi di spesa del 1916, solamente a finanziare due mesi e mezzo di importazioni dagli Stati Uniti. I titoli mobilitabili dal Tesoro inglese per essere rivenduti poi a Wall Street, $200MIO, erano per tre quarti esauriti, già liquidati alla fine del 1916. Ormai pesino Morgan & Co. s’ammetteva incapace di soccorrere ancora per molto la causa anglofila. L’indebitamento del Tesoro di Sua Maestà a New York superava quello del governo federale».

CriticaLibera - La storia di Samia Yusuf Omar, piccola guerriera senza paura




C’è stato un tempo, in cui ho sentito quella spinta. Quella dei piedi che devono correre, degli arti che devono stendersi, tirare e non cedere, mentre i muscoli si gonfiano. Un tempo in cui essere un’atleta era tutto ciò che volevo, tutto ciò che mi importava. Io non ero un talento, però, e il mio sport non era correre. Non sono cresciuta in un paese in guerra, non ho vissuto la vita di Samia Yusuf Omar. Così ho mollato, nel mio mondo occidentale, un calmo caos di certezze, non c’è nulla di così importante, che ti spinga a correre. Lei no, lei ha sempre lottato, con il suo corpo esile che correva come volasse, e le scarpe sfondate, la luna sul campo, quando a Mogadiscio c’era il coprifuoco. Perché avere una certezza, e uno scopo, quando vivere è una scommessa quotidiana, quando gli affetti sono uno scudo fragile, perché fragili sono i legami, di fronte alla guerra e fragile è la pietà di fronte alla paura, ecco, avere uno scopo è l’unica cosa che può spingerti oltre. La vicenda di Samia andava raccontata, e Giuseppe Catozzella, giornalista e scrittore, l’ha fatto nel migliore dei modi (leggi la recensione). Non solo perché ci sono milioni di ragazze e ragazzi come Samia che sfidano la sorte ogni giorno, per mesi in cammino su strade di torture e sofferenze, di ricatti e stenti, affrontando il Viaggio come fosse una tappa già segnata, nella vita di chi è nato dalla parte sbagliata del Mediterraneo, ma perché ce ne sono tanti altri che non devono dimenticare che dietro ogni morte c’è una storia, una speranza di futuro uguale alla loro, ci sono sogni, ci sono legami, ci sono valigie con dentro mondi interi, e questa non è un’avventura, non è scegliere di partire, è scegliere di essere. 

La gara di Samia Yusuf Omar, che partecipa alle Olimpiadi di Pechino 2008, rappresentando il suo paese, la Somalia, è una corsa coraggiosa, con un finale già scritto. Tutte le altre atlete, sulla pista, sono veloci “come gazzelle, come libellule o colibrì”, lei corre e arriva ultima, con 11 secondi di ritardo, e in quel momento, inquadrata con il volto sofferente e le gambe esili, senza l’ombra di un muscolo, senza l’opulenza delle forme, Samia rappresenta davvero il suo paese, e l’angolo nascosto in cui l’Occidente l’ha lasciato, per poi accorgersi che esiste solo come un fenomeno di cui impietosirsi. Così, dopo aver perso, con le telecamere e i giornalisti pronti a intervistarla, la giovane somala, riflette, attraverso la voce che il suo scrittore le dona: 
Ero arrivata ultima, eppure, ecco l’incredibile, dopo nemmeno dieci minuti sono stata sommersa anch’io dai giornalisti di tutto il mondo. La ragazzina di diciassette anni magra come un chiodo che viene da un paese in guerra, senza un campo e senza allenatore, che si batte con tutte le sue forze e arriva ultima. Una storia perfetta per spiriti occidentali, ho capito quel giorno. Mai avevo avuto un pensiero simile. Non mi è piaciuto.

"La guerra degli Scipioni" di Luca Rachetta



La guerra degli Scipioni
di Luca Rachetta
Mef, L’Autore Libri Firenze, 2009

Dei molteplici ritratti caricaturali usciti dalla penna di Luca Rachetta, quello dedicato a Giovanni Scipioni, uno dei componenti della famiglia e interprete principale del mondo medio borghese “agiato” rappresentato nella narrazione,  sembra appartenere a quella schiera dei personaggi che lo scrittore ama ritrarre e a suo modo irridere nei suoi romanzi di formazione.
Giovanni è infatti un professore alle prese con un mondo scolastico giovanile falsamente emancipato e un po’ troppo evanescente per un uomo ancora aggrappato a indiscutibili metodologie didattiche e tradizionali forme di comportamento. La conseguenza e il risultato sembrano condensarsi sotto le veci, in particolare,  di uno di questi allievi, Mattia Lepri:

Col braccio destro appoggiato al davanzale della finestra cui era attaccato il proprio banco, guardava insistentemente al di là dei vetri, puntando la facciata dello stabile sito di fronte alla scuola come se volesse scrutare le scene di vita domestica celate dai muri esterni e lampeggianti a intermittenza, attraverso i piccoli varchi delle finestre e dei balconi. Ma siccome era assurdo pensare a una qualsiasi forma di interesse per le vicende quotidiane di persone a lui sconosciute, forse era più plausibile supporre che il ragazzo puntasse il palazzo prospiciente come avrebbe potuto il campanile di una chiesa o qualsiasi altro corpo che avesse occultato, con la sua mole, la vista del paesaggio che si poteva indovinare dietro di esso.[1]

Intervalli delicati tra una voce e un contrabbasso



Come un respiro interrotto
di Fabio Stassi
Sellerio, 2104


pp. 305


Predisponetevi con delicatezza a questa storia di una cantante e di un musicista che mai incideranno ufficialmente un brano ma che dispongono di dosi di tecnica e sensibilità fuori del comune. Predisponetevi con delicatezza a questo libro fatto di intervalli: momenti di trama lineare, con efficaci ricostruzioni di certe atmosfere degli anni Settanta, si alternano ai ricordi di Sole, questo è il nome della cantante, relativi specialmente alla sua famiglia, variegata nell’origine e dunque foriera di infinite suggestioni.

La famiglia di Sole: mi soffermerei su di essa perché è un romanzo nel romanzo. Il padre, la madre, il fratello, gli zii, i nonni che via via scompaiono per ragioni biologiche come dovessero abbracciare il destino del mondo. In casa si accavallano dialetti e silenzi, motti e occhiate. È una famiglia che ha attraversato il Sudamerica e la Sicilia, poi si è fermata a Roma, a Trastevere. Perché più a nord di Trastevere un simile nucleo non poteva andare. Le sue generazioni si sono intossicate dell’aria umida e salata dell’oceano, con viaggi speranzosi, i discendenti riversano conoscenze di vita e ricette culinarie sugli ultimi nipoti: Sole e Tommaso, appunto. Sole però era… Sole, perché «la prima nipote fimmina che nasceva dopo cinquant’anni». Una specie di risarcimento. L’astro di ciascuno, anche se un pizzico di più lo era per nonna Lupe, tutta caponate e cantilene da milonga.

Il Salotto: Firenze e la "poetrice" Rosaria Lo Russo


Rosaria Lo Russo (Firenze, 1964) è una delle voci più forti e generose della poesia italiana contemporanea. Oltre a scrivere, Rosaria Lo Russo traduce, legge, interpreta i testi: si definisce “poetrice”, parola che condensa il suo lavoro di produzione scritta e la sua attività di performer.
A partire dalla fine degli anni Ottanta la Lo Russo ha pubblicato numerosi testi poetici e raccolte. Mi limito a ricordare qui  Commedia (Bompiani, 1998), Penelope (Edizioni d’If, 2003), Crolli (Le Lettere, 2012) e – recentemente – una silloge di parte della sua produzione poetica, Poema (1990-2000) (Zona, 2013). In costante dialogo con la parola della scrittrice americana Anne Sexton, di cui è traduttrice,  ha interpretato numerosi testi suoi e di altri autori (come ad esempio di Piera Degli Esposti e Wisława Szymborska). La sua è una poesia che gioca sulla musicalità dei significanti, una parola che ritorna come un refrain da leggere a voce alta.
Giovedì 3 luglio ho avuto il piacere di incontrare Rosaria Lo Russo nella sua Firenze, torrida e splendente sotto il sole di un pomeriggio estivo. Appuntamento alla Biblioteca Nazionale e poi una passeggiata e un gelato in Oltrarno, che è stata la verdeggiante cornice della nostra chiacchierata. Dalle prime parole sul suo lavoro è emerso con chiarezza che in lei non c’è separazione tra attrice, lettrice, scrittrice e traduttrice: sono tutte attività che si nutrono a vicenda all’interno del suo lavoro. Rosaria aggiunge simpaticamente che lei in realtà fa la locandiera, come Mirandolina: possiede, infatti, una casetta vicino Firenze che affitta ad avventori e a chi ha bisogno di un po’ di quiete. Simpatica e affabile,  Rosaria Lo Russo ha donato ai lettori di CriticaLetteraria queste preziose riflessioni.

Jane Austen, i luoghi e gli amici: un viaggio sentimentale alla scoperta della scrittrice inglese

Jane Austen. I luoghi e gli amici
di Constance Hill
Jo March, 2013

€ 14
pp. 240

Ora chiederemo ai nostri lettori, con l’immaginazione, di rimettere indietro le lancette del tempo a più di cento anni fa e di venire con noi alla presenza di Miss Austen.
Noi, lettori di oggi, facciamo un viaggio nel tempo ancor più lungo, ma con rinnovato piacere, alla scoperta dei luoghi e delle persone che hanno accompagnato la vita terrena di Jane Austen, scrittrice sempre molto cara al cuore di milioni di lettori in tutto il mondo. Per farlo, seguiamo il pellegrinaggio – perché proprio di questo in fondo si tratta, un pellegrinaggio spirituale con la devozione di due fedeli estimatrici dell’opera della Austen- delle sorelle Hill che attraverso queste pagine corredate da schizzi e disegni dal vivo a metà strada tra una biografia e un diario di viaggio, accompagnano il lettore alla ricerca dei segni tangibili della vita di Jane Austen e delle tracce rimaste in quei luoghi da lei amati e delle persone che ha conosciuto, da cui ha tratto profonda ispirazione nel costruire le proprie opere letterarie. Le sorelle Hill hanno intrapreso questo viaggio nel 1901, quando quei luoghi portavano ancora in sé riconoscibili le tracce del mondo conosciuto dalla Austen e proprio nel momento in cui l’opera della scrittrice inglese stava conoscendo una progressiva riscoperta di critica e pubblico.
È quindi prima di tutto un viaggio sentimentale, un pellegrinaggio si è detto, compiuto da due appassionate lettrici che con tono confidenziale e sguardo appassionato ci accompagnano nel sud dell’Inghilterra, da Stevenson a Winchester, passando per Bath e Londra, in cui la Austen ha creato i suoi personaggi e le sue storie, ispirata dal mondo intorno a sé e protetta dall’anonimato.

La biografia di Mackay su Max Stirner tradotta in italiano

Max Stirner, Vita e opere
di John Henry Mackay
Bibliosofica Editrice, 2013


pp. 227




Max Stirner, ovvero il filosofo dalla fronte (max) grande (stirn), e la sua vita; l’uomo dietro la teoria. Questa è l’immagine che voleva restituire al mondo il poeta tedesco di origini scozzesi John Henry Mackay, quando nell’estate del 1887 si imbatté per la prima volta nell’autore dell’Unico, il cui vero nome era Johann Caspar Schmidt. Il poeta, si dedicò assiduamente a questa impresa, a proprie spese, per anni, fino a ricavarne una biografia, anzi una sorta di agiografia. Pubblicata in tre diverse edizioni, in tedesco, nel 1989, 1910 e 1914, mai tradotta in italiano prima d’ora. Giovanni Feliciani, nella sua prefazione scrive: 
Dopo aver letto tante opere di e su Stirner, mi sono sempre chiesto perché non sia stata tradotta e pubblicata in italiano la biografia del Mackay. Finalmente, essendo diventato editore, ottempero a soddisfare questo desiderio.
Ed ecco come nasce, nel dicembre del 2013, Max Stirner, Vita e Opera, traduzione dell’ultima edizione dell’opera tanto diligentemente composta da John Henry Mackay. Opera di certo utilissima a studiosi e filosofi, soprattutto alla ricerca di una dettagliata biografia del filosofo a cui molti hanno dato varie etichettature: nichilista, esistenzialista, anarchista, egoista. Stirner resta un filosofo poco etichettabile, di sicuro imprescindibile per quanti si accostino all’opera di Nietzsche, a cui fornì molto materiale e le basi della sua teoria (addirittura si narra di un forte influsso di Stirner sul padre del superomismo, tale da renderlo quasi succube delle sue teorie); magari, visto l’intento divulgatorio dell’opera, sarebbe servita una appendice più moderna della semplice traduzione delle ricerche dell’appassionato Mackay, per dilatare l’interesse ad un pubblico medio-alto e non relegarlo a quello di nicchia degli studiosi.

#LibrinTrincea - Un rude inverno: La Grande Guerra secondo Raymond Queneau

Un rude inverno
di Raymond Queneau
Einaudi, 2009


€  17


Nel 1939 Queneau dava alle stampe un romanzo intensamente autobiografico, capace di racchiudere nella sua brevità tutta la ricchezza dei temi e delle scelte stilistiche che caratterizzeranno la produzione matura di questo straordinario autore francese. Un rude inverno non è ancora dominato dal gusto per l'arte combinatoria e per i giochi linguistici che ha reso Queneau celebre al pubblico di tutto il mondo, ma vive già interamente della tensione tra umorismo e tragedia, del gusto per l'enigmatico che è sempre già enigmistico, e della passione per la parola come potente creatrice di senso.

Il romanzo racconta la storia di Bernard Lahameau, un tenente francese a riposo per una ferita e in attesa del ritorno in guerra. È innamorato di una infermiera inglese, non crede nella vittoria e trascorre le proprie giornate osservando la sua Le Havre, popolata da personaggi surreali e attraversata da eventi sempre a metà tra il bislacco e il perturbante. Le oziose giornate del protagonista saranno segnate dall'incontro con due ragazzini, dai litigi esistenziali con il fratello e dalle discussioni politiche con stranieri sconosciuti, in un frizzante percorso narrativo capace di raccontare con grande ironia la vita francese di provincia.

Pillole d'Autore - Febbre a 90': due o tre cose sul calcio che ho imparato da Nick Hornby

Febbre a 90' è il primo libro di Nick Hornby. Non è un romanzo, ma nemmeno un saggio. Se volessimo a tutti i costi trovargli un'etichetta, potremmo inserirlo tra i Libri Parzialmenti Autobiografici: cioè quei libri che seguono, sì, la storia della vita di chi li scrive, ma solo come pretesto per raccontare un'altra storia. In questo caso, l'altra storia è quella dell'Arsenal, la squadra di calcio londinese di cui Hornby è tifoso sfegatato dall'età di undici anni; ed è una storia così strettamente collegata alla sua, che i periodi della vita di Hornby e i tempi del racconto sono scanditi secondo le date delle partite dell'Arsenal, dall'anno del battesimo del fuoco (1968) fino a quello della composizione del libro (1992).

Ora, un'autobiografia (anche una del tutto particolare come questa) è un genere a cui di solito si arriva alla fine della propria carriera di scrittore, non all'inizio; non bisogna forse accumulare un bel numero di esperienze, perché la propria esistenza abbia qualche possibilità di diventare interessante anche per gli altri? E poi, un'autobiografia "calcistica" non corre il rischio di interessare solo i tifosi o gli appassionati di calcio?

Nel primo caso, la risposta è senz'altro "sì, ma": dove il "ma" apre la strada a tutta una serie di eccezioni alla regola, di cui le più importanti sono forse le vite degli ossessionati. E Hornby è un ossessionato in piena regola, oh sì. È in grado di citare a memoria nomi, date, episodi, momenti significativi, numero di gol, sequenze di azioni di partite giocate 20 anni prima; non si perde una partita in casa, vive dalle parti di Highbury (lo stadio dell'Arsenal), e ha impostato gran parte della propria vita in parallelo con la sua squadra, arrivando a vedere parallelismi e analogie ovunque. La sua ossessione è tale da portarlo a dire di se stesso: "Per buona parte di una giornata qualsiasi, io sono un rimbambito".

CriticaLibera - La Grecia di cartapesta: Ariadne auf Naxos di Hugo von Hofmannsthal e Richard Strauss


Photo: Jeffrey Dunn.



È il Marzo del 1911, quando Hugo von Hofmannsthal propone a Richard Strauss in una lettera il progetto di 
"un'opera di mezz'ora, per piccola orchestra da camera, [...] un misto di figure eroico-mitologiche in abbigliamento del Settecento, con crinoline e pennacchi di struzzo, e di figure della commedia dell'arte, Arlecchini e Scaramucci, che introducono una componente buffonesca e sempre intrecciata con la componente eroica", 
ossia quel che sarà Ariadne auf Naxos. Qualche mese prima era andata in scena la prima del Rosenkavalier, con la regia di Max Reinhardt, riscuotendo un enorme successo e consacrando il felice sodalizio tra lo scrittore ed il musicista; l'occasione era quindi ghiotta per tributare il giusto merito al regista ed offrirgli una piccola opera, come appendice di una piéce teatrale. 
La scelta di quest'ultima ricadde sul Borghese gentiluomo (Der Bürger als Edelmann) di Moliére, già musicato da Lully più di due secoli addietro, e col testo tradotto e rimaneggiato dallo stesso Hofmannsthal. Dopo un anno di lavoro, in cui Strauss – come testimonia l'epistolario – non lavorò con troppa convinzione ed assiduità, andò in scena la prima, il 25 Ottobre 1912. Non fu un successo, il lavoro fu accolto tiepidamente dal pubblico, probabilmente finanche frainteso, dando ragione allo scetticismo di Strauss ed al suo infallibile spirito imprenditoriale. Hofmannsthal, però, non si diede per vinto ed insistette per una Neubearbeitung, una nuova edizione della sua creatura – rappresentata a distanza di quattro anni, il 4 ottobre del 1916 – staccandola dal dramma di Moliére e dotandola di una sua propria autonomia, con l'aggiunta di un Vorspiel, un prologo, chiaramente epesegetico della propria poetica. Il motivo di questo attaccamento alla sua Ariadne, questa sua ferma volontà di difenderla, non è da ricercare unicamente nel rapporto "filiare" che lega qualsiasi autore – chi più, chi meno – ai propri lavori; si tratta piuttosto di un dato biografico d'una certa rilevanza, penetrato quasi per osmosi nell'Ariadne

"Midnightwalker", di Domenico Cosentino





Midnightwalker
di Domenico Cosentino
Palladino Editore 2014

pp. 156
€ 8,00



Se pensate che la poesia sia esprimere i propri pensieri, la propria visione del mondo con grazia, dolcezza e raffinatezza, quelle di Cosentino non chiamatele poesie.” (citazione dal sito www.domenicocosentino.it)

Infatti, non lo facciamo. Può coesistere il bello e il brutto in un solo volumetto, ci chiediamo piuttosto? Sì, e ve ne porgiamo un esempio diretto, molto più immediato di qualsiasi spiegazione.


Collusion

Mangio il tonno in scatola della
Dicoop
direttamente nella scatoletta
di metallo,
affacciato al balcone
con il vento che mi asciuga il
sudore
osservando il cavalcavia
dove i marocchini vanno a
pisciare di notte
le foglie marciscono e diventano
gialle.
Le finestre dell’asilo comunale
Hanno tutti i vetri rotti
Come gli spazi tra i denti
Di quei vecchi
Che hanno fatto la guerra
E i loro occhi
Sono ancora pieni di stupore.

Cambiare ottica: la formazione secondo Banana Yoshimoto


Andromeda Heights
di Banana Yoshimoto
Feltrinelli, 2014

pp. 100
€ 11,00


Torna Banana Yoshimoto: o meglio, torna in Italia, perché in Giappone la quadrilogia de "Il regno" s'è conclusa quest'anno. E a distanza di dodici anni, approda da noi il primo volume, Andromeda Heights, in cui scopriamo la
"lunga, assurda, indefinibile storia di me e di Kaede. Più infantile di un racconto per bambini, un'allegoria priva di insegnamenti. Gesti insensati degli esseri umani, mondo visto da una prospettiva bizzarra" (p. 16).
L'io-narrante Shizukuishi tiene le fila di quella che definisce "una fiaba", ma "leggermente contorta", e ci accompagna alla scoperta dei pochi ma fondamentali personaggi che contribuiranno alla sua formazione. Innanzitutto c'è la nonna, una figura dai contorni mitici, che affascina con la sua saggezza e con la fiducia nei poteri medicinali (a volte placebo a volte taumaturgici) del tè, che coltiva e mescola con le sue mani. Eppure anche la nonna, da cui Shizukuishi, orfana, ha appreso tutto, si allontana e lascia la ragazza a costruirsi faticosamente la sua nuova vita, lontana dai monti e in città. E qui si respirano le solitudini metropolitane del Giappone, l'essere una capocchia di spillo in una moltitudine sconosciuta. Un grande pericolo, se non fosse per
"quel destino meraviglioso che aveva fatto incontrare - e reso necessarie l'una all'altra - due persone cresciute in circostanze simili" (p. 47). 

Editori In Ascolto - Un'officina per la narrativa italiana

Da qualche mese lo scrittore Michele Marziani dirige le collane Officina Marziani e Oceania per la neonata - ma già lanciatissima - casa editrice AT Editore.
Ho fatto una chiacchierata con Michele per conoscere meglio questa nuova realtà.


A quel che mi risulta, è la prima volta che dirigi delle collane editoriali. Come mai la decisione di imbarcarti in un'avventura stimolante ma decisamente impegnativa?
È una scommessa. Un gioco, molto serio, ma pur sempre un gioco. Il pensare che hai sempre qualcosa di nuovo da fare, da progettare, da scoprire.
È stato l'editore, Antonio Tombolini a cui sono legato da una lunga amicizia, a propormi la direzione di una collana di narrativa. Ci ho pensato e mi sono detto: perché no?
Mi affascinava soprattutto l'idea del digitale, perché azzera le barriere fisiche del mercato del libro: puoi portare la lingua italiana in tutto il mondo dove ci sono persone che leggono l'italiano. Puoi fare arrivare letteratura contemporanea, scrittura fresca, nuove voci.
Poi puoi avere a che fare con pubblici che fanno a meno dei libri ma non possono prescindere dalle storie. Se è vero, come dice Jonathan Gottschall ne "L'istinto di narrare", che nessun altro animale dipende dalla narrazione quanto l’essere umano, la scommessa di una narrativa a orientamento soprattutto digitale non è quella di arrivare ai lettori che vanno ogni settimana il libreria, ma a quel pubblico immenso di persone che non leggono libri ma hanno comunque bisogno di storie. È come andare casa per casa, solo che non si bussa alle porte ma agli smartphone, ai tablet, ai computer, agli ereader e si dice: guarda, ho una storia, una bella storia, da raccontare.

"Non dirmi che hai paura" di Giuseppe Catozzella



Non dirmi che hai paura
di Giuseppe Catozzella
Feltrinelli, 2014

pp. 236
15 Euro



«Ecco, per esempio, la guerra mi ha portato via il mare. Però, in compenso, mi ha fatto venire voglia di correre. Perché grande come il mare è la mia voglia di andare. La corsa è il mio mare».
A Mogadiscio le spiagge dell'Oceano Indiano sono sorvegliate dai miliziani, anche solo avvicinarsi è pericoloso. I ragazzini ci sono abituati a questi divieti così come sono abituati, o fingono di esserlo, ai colpi di mortaio, ai quartieri devastati e, in generale, alla violenza che danni infiamma la Somalia. 
Ma Samia ha la corsa, un dono che la fa arrivare lontano come racconta Giuseppe Catozzella (Milano, 1976) nel suo romanzo Non dirmi che hai paura, ispirato alla vita dell'atleta olimpica Samia Yusuf Omar, finalista del Premio Strega 2014 e già vincitore nella categoria Giovani.
Cresciuta nel quartiere di Bondere in una famiglia di etnia abgal, fin da bambina si allena ogni giorno insieme al migliore amico Alì, il suo primo allenatore, che le prende i tempi e la prepara ad essere una campionessa: «Devi imparare a volare, Samia,» mi ripeteva sempre. «Se impari a volare batti tutti» . Grazie al sostegno della famiglia Samia inizia a distinguersi nelle gare nazionali coltivando il sogno di conoscere Mo Farrah, l'atleta inglese di origine somala campione del mezzo fondo.

#PagineCritiche - Salinger: la guerra privata di uno scrittore


Salinger
di David Shields e Shane Salerno
ISBN edizioni, 2014

pp. 762
€ 49



Ho riflettuto a lungo di fronte alla pagina bianca prima di scrivere questo pezzo. Per quelli della mia generazione cresciuti nel mito americano, J. D. Salinger ha rappresentato una delle figure più affascinanti, enigmatiche e leggendarie del panorama letterario del Dopoguerra. Nell’Olimpo degli dei-scrittori del Novecento americano, insieme a Hemingway, Fitzgerald, Kerouac e soci, fino ai contemporanei D. F. Wallace, Franzen, Roth, Eugenides, Bret Easton Ellis, un posto privilegiato è senza dubbio di Salinger, grande maestro della short story diventato leggenda con l’unico romanzo pubblicato Il giovane Holden manifesto dei dilemmi esistenziali/adolescenziali di lettori di tutto il mondo. Un romanzo degli anni ’50 del secolo scorso che, come ogni classico che si rispetti, non smette mai di affascinare a distanza di generazioni che di volta in volta vi danno letture diverse ma per tutti la stessa, sorprendente sensazione: che quel breve romanzo parli proprio a noi, il disagio di Holden simile al nostro. E soprattutto, sentiamo nei confronti del misterioso Salinger un’empatia difficilmente provata prima, lo stesso desiderio di Holden di fronte a quei libri
che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira.
Come lui avremmo voluto davvero bussare alla porta della casetta nei boschi di Cornish, New Hampshire, dove Salinger si era ritirato a vivere lontano dalla fama, affrontare un viaggio scomodo e assumersi il rischio di un’accoglienza sicuramente poco cortese per conoscere l’uomo che come pochissimi altri ha saputo parlare davvero e così profondamente a generazioni diverse di adolescenti (e no solo) in crisi esistenziale. Fitzgerald ci aveva affascinato con il luccichio dei ruggenti anni Venti, amori struggenti e fiumi di champagne, un mondo già adombrato dal crollo del mito borghese, dalla crisi che di lì a poco avrebbe cancellato ogni bagliore e il profondo disagio di quei giovani figli tormentati nella frenetica ricerca del proprio posto nel mondo. Intanto Papa Hemingway diventava il simbolo di una virilità esibita ed eroica, un’immagine così lontana dalla tradizionale idea di scrittore misantropo e riflessivo che ha segnato per sempre l’immaginario collettivo e ha affascinato milioni di lettori con quella lingua diretta, asciutta, essenziale, in cui il non detto era la parte immersa e più importante di un iceberg tutto da scoprire. Poi è arrivato Salinger, che lentamente ma con caparbietà diventa uno degli autori di punta sul New Yorker (un posto conquistato faticosamente, dopo un considerevole numero di rifiuti da parte della rivista) il testo sacro e la legittimazione per chiunque in quegli anni avesse ambizioni letterarie; una passione per la scrittura che si portava dentro da sempre, in qualunque luogo la vita lo aveva condotto: dall’elegante appartamento di famiglia nell’Upper East Side fino all’orrore dei campi di battaglia europei nella Seconda Guerra Mondiale.

#LibrinTrincea - "La pazzia di Dio" di Luigi De Pascalis: un piccolo mondo antico distrutto dalla Grande Guerra

La pazzia di Dio
di Luigi De Pascalis
La Lepre, 2010

pp. 302
€ 22,00

(1° ed. tascabile 2014, pp. 304, € 14,00)


Tra i tanti racconti mitici sull'origine della guerra di Troia, una particolarmente bizzarra è contenuta nei Cypria, poema epico anonimo di cui ci sono giunti solo una cinquantina di frammenti. Secondo quella versione, Gea, la Terra, appesantita dall'eccesso di uomini che vivevano su di lei, un giorno avrebbe pregato Zeus di inventarsi qualcosa per "sfoltirci" un po'; e Zeus, senza pensarci troppo, scatenò una bella guerra – la guerra di Troia, appunto. Con il duplice risultato di alleggerire di parecchio la povera Gea e inaugurare, a modo suo, una versione embrionale del concetto di "guerra sola igiene del mondo". 700 a. C.: Zeus 1, Marinetti 0.

Questa storiella per dire che, anche se siamo abituati a pensare alla guerra come a una punizione divina, non sempre è così. A volte gli dèi (o Dio, come volete) hanno motivazioni più egoistiche, come nella versione dei Cypria.

A volte si limitano a distogliere lo sguardo, abbandonando l'uomo alla violenza della natura e dei suoi simili (come in alcune interpretazioni dell'Olocausto).

E a volte, semplicemente, impazziscono. Come avvenne nel 1914, quando gettarono il mondo in una guerra di proporzioni così immani da meritarsi, per la prima volta nella storia, la qualifica di "Mondiale". Una guerra che, per estensione territoriale, quantità e potenza dei contendenti, modalità di svolgimento, numero di morti e ricadute sulla psiche collettiva, non aveva nulla in comune con nessun altro conflitto precedente. Nessuna sorpresa, dunque, che la Grande Guerra abbia agito fin da subito da spartiacque storico, scavando un solco profondissimo in cui si inabissarono, disperdendosi, storie e memorie di quel piccolo mondo antico che precedette l'inutile strage, e che non potè mai più essere, per nessuno, lo stesso di prima.

#LibrinTrincea - una rubrica per non dimenticare



#LibrinTrincea. Abbiamo scelto di usare questo hashtag per la nuova rubrica di Critica Letteraria dedicata alla Prima Guerra Mondiale. Lo abbiamo scelto perché unisce la trincea –  simbolo della tragedia bellica – e i libri, ovvero ciò di cui parliamo con passione da anni nel nostro blog. Ma nello stesso tempo, avvicinare libri e trincea significa anche costruire un legame tra la battaglia e la letteratura, tra le scelte politiche e civili che cambieranno per sempre gli assetti mondiali.

In occasione del Centenario della Grande Guerra, noi di Critica Letteraria daremo il nostro contributo nel ripercorrere la storia della Prima Guerra Mondiale non solo da un punto di vista storico, ma culturale nel senso più ampio. Saremo periodicamente presenti con le nostre recensioni lasciando raccontare quel primo quarto del Novecento da romanzieri, poeti, artisti e storici, cercando di capire meglio anche il ruolo  dell’artista e le sue scelte estetiche. Quale impegno, quali successi e quali delusioni.

Da questa settimana la rubrica prende vita con un contributo di Luca Pantarotto. Come sempre potrete seguirci sui social network e usando l’hashtag #LibrinTrincea. Come sempre, buona lettura.




Scrittori in ascolto - All'ombra del Ninfeo: #Strega14



I paradossi, a volte, si insinuano nelle pieghe più inaspettate, e si manifestano all’improvviso, senza dare preavvisi o segnali. Accadono, e basta. 
Il Ninfeo di Valle Giulia è stata il palcoscenico di un paradosso che è balzato agli occhi di tutti, come una folgore, più luminosa del (troppo) glitter disseminato tra i partecipanti. 
«Il desiderio di essere come tutti» rende diverso da tutti gli altri (scrittori) un autore che, da oggi, non sarà più tanto «Piccolo». 

Francesco Piccolo ce l’ha fatta: con centoquaranta voti si è lasciato alle spalle «l’infedele» Scurati. E ha vinto il Premio Strega scrivendo di un uomo grande, Aldo Moro. 
Un romanzo che può far parlare, nel bene o nel male, alla stessa tavola generazioni diverse, lasciando sempre il dubbio su quale sia la prospettiva privilegiata: se quella del lettore invischiato nella «gelatina della storia» (si cita Alberto Savinio) dei fatti in questione, o se quella del lettore di generazione novella, che conosce la vicenda solo attraverso gli aedi. 
E un testimone della storia, ieri sera, al Ninfeo, mancava: tra tanti volti vecchi e nuovi nessuno ha visto Maria Luisa Spaziani, intellettuale militante fino alla fine. La poetessa nel Premio Strega ci credeva: e il modo con cui lo dimostrava era la sua presenza. 

Una serata all’insegna del glitter e del giallo: come il liquore, da cui il Premio prende il nome; come i fiori che ornavano i tavoli. 
Volti noti e volti meno noti hanno assistito al duello Piccolo-Scurati, che si è chiuso con un vantaggio del primo di soli cinque voti: numero che, però, vale il Premio. 

Pillole d'Autore: "Quando si spengono le luci" di Erika Mann

Erika Mann ha trentaquattro anni quando, nel 1939, tiene a Princeton una conferenza in cui legge di fronte al pubblico americano alcuni brani da The Lights Go Down, libro che ha appena finito di scrivere. Da sei anni la primogenita di Thomas Mann ha lasciato la Germania insieme al fratello Klaus, scegliendo, come molti giovani tedeschi della sua generazione, la via dell'esilio intellettuale. 
Scrittrice, giornalista, attrice, reporter, eccellente conferenziera, ha intrapreso una carriera che l'ha portata in Svizzera, in Inghilterra, negli Stati Uniti. 
Dall'Europa e dall'America non abbandona mai la riflessione sulla situazione politica della Germania e dell'intero continente, da poco affacciatisi sul baratro del secondo conflitto mondiale. 
The Lights Go Down (traduzione italiana: Quando si spengono le luci) è la prova brillante di un'intellettuale che ha colto con straordinaria lungimiranza tutte le dinamiche - anche le più sotterranee - della macchina dello Stato totalitario. 
Il libro è una raccolta di racconti brevi ambientati nella Germania del 1938; animata dalla volontà di comprendere la natura degli orrori e degli errori nazisti, Erika Mann ha scritto un testo che sta sottilmente al confine tra la narrativa e la saggistica di taglio sociologico. Le storie, dieci in tutto, sono ispirate a fatti realmente accaduti. Ogni singolo racconto si basa sulla raccolta precisa di testimonianze e documentazione: la fiction si serve dei tasselli del reale per costruire un discorso che racconta la vita politica e sociale della Germania del Terzo Reich. 
Ogni vicenda è uno spaccato di vita comune, non ci sono né eroi da film che titanicamente sfidano il destino, né eserciti di buoni e cattivi. Ci sono impiegati, professori, medici, ufficiali, intellettuali, contadini che ogni giorno vivono immersi nella pubblica menzogna, piccoli soldatini di uno Stato che se ne serve per volontà di potenza.