#RileggiamoConVoi - Marzo

Campagna pavese, vista da @GloriaGhioni il 19 marzo 2014

Buongiorno primaverile a tutti i nostri lettori! 
Come alla fine di ogni mese, tornano i consigli di lettura con i link alle recensioni e agli altri contributi su CLetteraria. Se la primavera si fa un po' attendere, noi abbiamo immaginato questi libri adattissimi a un pomeriggio al parco. 

Buona lettura e ottimo aprile!
La Redazione

Corpi celesti e meteore della poesia "d'oggi"



Quadernario. 
Ventisette poeti d'oggi e un omaggio a Giuseppe Piccoli
a cura di Maurizio Cucchi
LietoColle, 2013

Euro 20,00



Forse perché ormai reietta e confinata ai margini della cosiddetta società civile, per tacere di quella letteraria, vittima della "poca attenzione dei media" come scrive Cucchi in Prefazione, l'opera che il poeta e critico milanese intraprende in questo Quadernario di poesia contemporanea (con l'ausilio redazionale di Mary Barbara Tolusso, Alberto Pellegatta, Fabrizio Bernini e Valeria Poggi) è una mappatura 'stellare' della scrittura in versi in tempi non sospetti. Aggettivo, quest'ultimo, che trova giustificazione nella ripartizione interna del volume, suddiviso in tre sezioni che rimandano ad altrettante configurazioni astronomiche: "Poeti stranieri" (Sigizie); "Poeti italiani" già affermati (Plenilunio); "Esordienti italiani" (Novilunio). Chiude infine un contributo critico di Maria Piccoli sull'opera del poeta Giuseppe Piccoli intitolato Corpo celeste
Poesia come "corpo celeste", dunque; luogo 'altro' e alto, e perciò distante da certe meschinità terrene. Sembra essere questa, in sintesi, l'idea neanche troppo velata che il curatore e la sua equipe vorrebbero veicolare attraverso la mappatura (va da sé, arbitraria e necessariamente parziale) di "ventisette poeti d'oggi"; ventisette prospettive, puramente indicative e per ovvie ragioni in fieri, sulla realtà del nostro tempo, liquida e poco incline a lasciarsi dire, soprattutto se a provarci è la parola poetica.

Conoscere quindi comprendere; comprendere quindi riconoscere: Ezio Raimondi


Scrivere di Ezio Raimondi significa parlare di letteratura: non quella racchiusa nei manuali, o nelle aule (scolastiche e accademiche), o nei convegni. Significa, bensì, parlare della Letteratura, quella che ha carne, pelle, sangue, respiro. Quella che si sceglie, quella che totalizza, quella che complica, quella che dà un po’ più di senso al viaggio esistenziale e sapienziale. 
In questi giorni tanto si è scritto, tanti hanno scritto, di Raimondi, su Raimondi, quindi è inutile ripetere qui la sua biografia, la sua carriera, la sua (sterminata) bibliografia. 
Si dice che «muore giovane chi è caro agli dei». Non sempre, verrebbe da chiosare: Ezio Raimondi aveva quasi novanta anni, eppure era caro agli dei, o meglio a Dio. Era «uomo di fede, senza fronzoli», come ricorda Davide Rondoni. Era caro alla letteratura, perché egli aveva cara la letteratura, e l’aveva eletta a casa incrollabile della sua vita: «Ezio tiene i libri anche sotto i tavoli dei piedi, e non serve a niente che lo sgridi», raccontava la moglie. 

Per insaziabile curiosità: un ricordo di Cesare Segre




«Chi scrive sa di non avere davanti un avvenire luminoso, ma al massimo una breve sopravvivenza dignitosa. Sa, d’altra parte, che sarebbe illusione attribuire a un bilancio una funzione pedagogica, dato che l’umanità rifugge sempre di più dall’esercizio della memoria. Il bilancio serve dunque soprattutto a chi lo fa; per gli altri funge, semmai, da tassonomia» [1]. 
Con questa considerazione Cesare Segre apriva una raccolta di suoi interventi sull’ultimo Novecento, Tempo di bilanci. Penso a questo titolo, mentre percorro le pagine del Meridiano che raccoglie tutti gli scritti critici della sua lunga carriera intellettuale, uscito proprio pochi mesi fa, ed è assai difficile arrischiare, anche in minima misura, un bilancio dei suoi studi, e insieme a questi della preziosa eredità che ci ha lasciato. Se una cosa, infatti, si può affermare con certezza, è che le ricerche di Segre sono state tanto varie e eccezionali nei loro risultati da poter trovare una degna controparte, nel nostro Novecento, soltanto in quelle di Gianfranco Contini (il quale, tra l’altro, fu uno dei suoi maestri). Non è un segreto: per chi intraprenda studi letterari in Italia, Contini e Segre sono – e resteranno, immuni alle mode – due imprescindibili maestri, sulle cui pagine imparare la salda armonia del metodo e la fiamma di un'insaziabile curiosità. Che ci si voglia occupare della lingua dei volgarizzamenti medievali o di Primo Levi, che si voglia studiare l’Orlando furioso o Se una notte d’inverno un viaggiatore, Vincenzo Consolo o la Chanson de Roland, il Don Quixote o Carlo Emilio Gadda (mi fermo qui ma potrei proseguire), Cesare Segre sarà sempre un passaggio obbligato.

L’attività di Segre ha attraversato praticamente tutto il secondo Novecento, e con questo le diverse correnti culturali che si sono avvicendate, ma alcuni elementi sono stati sempre costanti – di una costanza palpabile, non forzata – nelle sue pagine:

"Morto a 3/4" di Francesco Balletta

Morto a 3/4
di Francesco Balletta
Bookme, 2014

pp. 315

Un giallo fuori dall'ordinario: Morto a 3/4, l'esordio narrativo dello sceneggiatore Francesco Balletta per Bookme, ha tutti gli elementi classici del genere ma li riutilizza in chiave nuova e dissacratoria. Ci sono le indagini, gli interrogatori, i moventi nascosti e le ambiguità dei personaggi, ma non vi aspettate un investigatore-eroe né una tradizionale dinamica di intreccio. Quello che più distingue Morto a 3/4 da un classico giallo è l'ambientazione. Il protagonista, Domenico Campana, indaga tra l'aldilà e l'aldiquà. Non più in vita ma non del tutto morto, il maresciallo si congeda dalla sua avventura terrena per colpa di un ossicino di pollo incastrato in gola mentre è impegnato a lavorare sulle carte del suo ultimo caso. Quella che a molti potrebbe sembrare una fine ingloriosa è per lui un distacco da una vita di stanchezza, frustrazione, problemi sempre dietro l'angolo.

#vivasheherazade- Il Salotto: l'intervista a Rosanna Filomena


C’è una certa propensione ad attribuire le cause del femminicidio alla sfera dell’inconscio e precisamente alla follia d’amore e alla malattia; bisogna ragionare, invece, sulle radici culturali del fenomeno, che vengono da molto lontano nel tempo; l'odio per le donne, la così detta  misoginia,  ha le sue radici nella religione e nella filosofia, da Platone  a  Nietzschein, che hanno sempre tentato di inculcare lo stato di subordinazione della donna all’uomo e l’avversione verso il genere femminile per il solo fatto di essere tale.
Fondamentalmente perché la donna fin dai tempi più antichi è stata identificata in un ruolo,  nei casi più estremi concepito solo per la  procreazione, altre volte nella funzione di madre, moglie, figlia e così via.
Chi uccide una donna, è principalmente, un uomo tradito, abbandonato, rifiutato, non ubbidito, che arriva all’atto violento quando la donna esce fuori dagli schemi predefiniti della  nostra società, non uccide per amore o malattia, lo fa perché non riesce a concepire la donna “fuori dalla sua funzione”.
Bisogna cominciare a cambiare (e già molta strada è stata fatta!) il concetto stesso di donna; non funzione ma equazione, non ruolo subordinato ma individualità.


Benvenuta Rosanna!
Il tema centrale della tua ultima opera è il femminicidio. Giacomo Devoto lo spiega come “qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale”, mi pare tu sia ben cosciente di questa “sovrastruttura”, dandone prova nella tua ultima pubblicazione Lo scettro del re, edita il mese scorso per Edigrafema Editore. Da dove nasce la tua opera?

Grazie! Lo Scettro del re nasce dalla mal sopportazione che una donna debba difendersi proprio nella sua casa, dove offre se stessa ogni giorno, e dalla persona cui sta dedicando la vita, portando su di sè il peso di ricatti, soprusi, sopraffazioni; costretta a rimanere col proprio aguzzino, perché se osa reagire, semplicemente opporsi a una condizione di disagio che il partner le procura e le impone, viene minacciata, intimidita, ostacolata, perseguitata dalla furia ossessiva di un uomo che non sa amare. Un uomo che ha scambiato e confuso l'amore con il senso del possesso, col pensare che una donna sia di sua proprietà e che ella non può disporre liberamente del suo essere se non dietro il suo consenso.

Nulla è come sembra: tra thriller, storia e psicologia "La madre assente" di Hanne - Vibeke Holst

La madre assente
Di Hanne-Vibeke Holst
Mondadori, 2014

pp. 420
€ 19 cartaceo

La danese Helena Tholstrup, direttrice dell'Opera di Berlino, è in procinto di ricevere un prestigioso premio e chiede alla sua unica figlia Sophie, che ha sempre trascurato in nome della carriera, di condividere questo momento importante. Sophie si presenta poche ora prima della premiazione col fidanzato, musulmano, Khalil, sorprendendo e imbarazzando la madre che non era stata informata della relazione. La sorpresa e l'imbarazzo si trasformano in angoscia quando Khalil, dopo la premiazione, prende in ostaggio madre e figlia.
Inizia così "La madre assente" di Hanne-Vibeke Holst, un romanzo in cui nulla è come sembra. Innanzitutto perché si è convinti di avere a che fare con un thriller ma ben presto ci si accorge che la vicenda si svolge su due piani spazio-temporali diversi: la Berlino di oggi e la Danimarca dagli anni '40 agli ultimi palpiti del XX secolo. Quindi il romanzo prende anche connotazioni storiche molto interessanti, tra l'altro, per conoscere le vicende più recenti di quel paese, in particolare durante e subito dopo la seconda guerra mondiale.

#Vivasheherazade - Lo scettro del re: opera-riscatto del genere femminile.

Lo scettro del re
di Rosanna Filomena
Edigrafema editore, 2014





Lo Scettro del re è un opera in quattro pièces teatrali, dedicata al tema del femminicidio, l’introduzione è di don Marcello Cozzi, vicepresidente nazionale Libera, e la prefazione di Carlo Fanelli, docente di Drammaturgia ed Estetica del Teatro all’Università della Calabria.

Rosanna Filomena, drammaturga, teorica dello spettacolo e regista teatrale, nelle sue opere, si occupa particolarmente di abusi, ricatti e violenze contro le donne; presidente del Centro Studi e Ricerca dei Linguaggi d’Arte AURA, porta a teatro tematiche sociali contemporanee.

L’esordio è dai toni lirici e dal gusto cavalleresco, l’uomo-Cerbero è un “Orfeo vedovo”(con riferimento ad Alberto Savino), non perché Euridice viene risucchiata dall’Ade, ma perché tradisce, sovverte, si ribella e lui la uccide.
In tanti piccoli regni sparsi su tutta la Terra, impone il suo malvagio potere un re, Uomo; vive orfano di Amore, incapace di conquistare buoni sentimenti, avido del male di cui egli stesso si nutre. Somiglia a un demone che assume varie sembianze, un Cerbero insaziabile che, con avida bramosia, fonde in sé l’umano e l’animalesco.Chi avrà la malasorte di incontrarlo, vivrà senza pace nel limbo della Sospensione. Potrà tuttavia aspirare alla gioia soltanto se avrà saputo ben custodirne il germoglio originario.

Francesco Grasso, "Come un brivido nel mare"



Come un brivido nel mare
di Francesco Grasso
Nemo editrice, 2013

pp. 201
17,90

“Il faro di Sebastopoli rifulge lontano, a nord. La costa è rocciosa, disseminata di piccoli scogli a fior d’acqua che ricordano candele mozze. Su alcuni di questi scorgo minuscole fiammelle: lanterne di pescatori in cerca di granchi, indovino. Il cielo è sereno. Una falce di luna brilla ad ovest. Onde bambine si frangono piano contro lo scafo. C’è odore di gabbiani e di salsedine.” (pag 25)

Nonostante qualche piccolo refuso, probabilmente sfuggito all’editor, la scrittura di “Come un brivido nel mare”, vincitore del premio Nemo 2012, è molto buona e suggerisce un talento assodato. Dispiace che sia al servizio di un contenuto dove molte delle premesse vengono disattese.
La storia parte da uno spunto inesplorato e stimolante, il catastrofico maremoto di Messina del dicembre 1908, ma s’intriga in sviluppi fantastici e spionistici, senza riuscire ad aver ragione della troppa carne messa a fuoco.
“Come un brivido nel mare” è un romanzo storico, perché mescola accadimenti e personaggi autentici ad altri di pura fantasia. Appartengono alla realtà il cataclisma avvenuto a Messina, il personaggio della regina Elena – colei che, nella finzione, legge il manoscritto del protagonista morente –  l’incidente occorsole, l’arcivescovo Arrigo Letterio, le navi straniere in rada nei giorni del terremoto. La trama, però, si snoda immediatamente in fanta-storia, e questo non sarebbe di per sé un difetto, sennonché l’elemento sovrannaturale e fantastico qui mal si sposa con le vicende reali.

«Figli dello stesso padre» di Romana Petri: la prospettiva anticata

Figli dello stesso padre
di Romana Petri
Longanesi, 2013

pp. 297



«Ciò implica che l’interiorità umana non si costituisce e non comincia a divenire cosciente di sé se non a contatto della resistenza del mondo eterno». 
Sembrerebbe che Romana Petri avesse presente la frase di Jean Starobinski (L’occhio vivente) quando ha cominciato a pensare al suo romanzo, Figli dello stesso padre. Una «profondità della superficie», per dirla alla Savinio, che spalanca al lettore un mondo senza tempo, un cronotopo a sé stante, in cui il classico coesiste con il moderno e il contemporaneo, in cui il mito si fa quotidianità, in cui il coro, preso in prestito dalla tragedia greca, può chiosare l’azione dell’uomo del Duemila. Una continua corsa, a perdifiato, lungo i sentieri costellati di alberi genealogici, di fallimenti presunti e reali, di figure, di metafore, di ellissi, di apocrifi, di non detto, di troppo detto, di implicito, di esplicito. 

Con una "efferata trilogia" Angelo Ricci rende omaggio al postmodernismo

La parte di niente
La parte di niente II. La parte degli scrittori

di Angelo Ricci
Errant Editions, 2013

"Ombre dal tremore sensuale danzano nelle tenebre che avvolgono come una mater luciferina le pupille di Borges, il grande aedo argentino.Grida di battaglia si materializzano dalle fauci infuocate di guerrieri che si prostrano di fronte alla ricompensa eterna del Walhalla. Rune misteriche si fondono in un amplesso di calda carnalità insieme a profili essenziali di scribi assisi in piazze di geometriche città che ospitano mastabe sumere.Destini definitivi, giocati e persi in lotterie sataniche, diluiscono il tempo che scorre in labirinti estremi, dove ripugnanti esseri metà uomini e metà demoni stuprano fanciulle profumate.Mappe di territori abitati da belve che prevedono il futuro e compongono domande senza risposta alcuna ammantano e coprono, scurendolo senza possibilità di salvezza, l’intero orbe terraqueo..."
Basta leggere poche righe de "La parte di niente" per sentirsi immersi nelle suggestioni postmoderne che spesso caratterizzano gli scritti di Angelo Ricci e che con evidenza lo hanno ispirato in vari suoi scritti. Questi due ebook - "La parte di niente" e "La parte di niente II. La parte degli scrittori" - che assieme all'ultimo di prossima uscita, andranno a comporre una "efferata trilogia" (come lo stesso autore l'ha definita), sono piccoli scrigni preziosi che racchiudono le migliori caratteristiche della letteratura a cui intendono fare omaggio.

Il desiderio di essere come tutti di Francesco Piccolo, storia di una coscienza politica


Francesco Piccolo
Il desiderio di essere come tutti
Einaudi 2013

pp. 261
€ 18,00

«Il 22 giugno 1974, al settantottesimo minuto di una partita di calcio, sono diventato comunista». 


Non aspettatevi un romanzo. Si tratta piuttosto della storia di una coscienza politica, perché il protagonista dice di essere nato a nove anni, quando capì di far parte del mondo che lo circonda, non di una realtà che si ferma solo alle mura di casa propria. Racconta di essersi scoperto comunista a dieci anni, quando prese a tifare per la Germania Est nella partita contro la Germania Ovest, durante i Mondiali nel '74: da un lato la squadra con le tute sgargianti che tutti davano per vincitrice, e dall'altro quella vestita semplicemente che per tutti aveva perso in partenza; da quella sera stare dalla parte dei più deboli e dei meno abbienti diventa un sentire politico.

Una trama semplice, lo scopo del libro si rivela una profonda riflessione attraverso il racconto di un pezzo di storia italiana, vissuto da dentro, a Caserta e poi a Roma; ha il sapore di un libro di memorie, che indaga il rapporto di un ragazzino con la sua famiglia, il primo amore dalla coscienza politica piuttosto forte, la professione di scrittore, il giornalismo; e il ricordo di avvenimenti storici viene sapientemente intrecciato con scorci cinematografici, passi di letteratura, pezzi giornalistici, come dire che tutto è stato sviscerato e ha dato luogo ad una ricca riflessione.

Uno stile da camaleonte che procura disagio

Dieci dicembre
(Tenth of December)
di George Saunders

minumum fax, 2013
pp. 222


Se dovessi inchinarmi alla quarta di copertina, timorato dinanzi a nomi quali Jonathan Franzen e Thomas Pynchon, testate come “The Guardian”, critiche di rango come Zadie Smith e Michiko Kakutani, che pare sia veramente terribile – se uno passa indenne sotto le forche caudine delle sue recensioni è già candidato al Pulitzer – neanche dovrei scrivere una parola su questa celebratissima raccolta di racconti.

Jonathan Franzen dice che siamo fortunati ad avere uno scrittore come Saunders perché come lui non ce ne sono – non vi suona un po’ strano questo endorsement da parte di uno che svolge analoga professione ed è pure dotato di un certo ego? Thomas Pynchon, che dal mio punto di vista esagera sempre un po’ nell’arzigogolare, ritiene Saunders «una voce piena di grazia – neanche fosse l’Ave Maria – inquietante, sincera ed esilarante». Esilarante? Pare di sì, ce lo conferma Jennifer Egan: «sovversivo, spassoso ed emotivamente penetrante». Quando poi balena davanti agli occhi il giudizio del “New York Times Magazine” stampato addirittura in copertina – «Il libro più bello che leggerete quest’anno» non resta che sospirare amen.

Il viaggio di una vita


Quella sera dorata
di Peter Cameron
Adelphi 2012
pp. 318
€ 19

The City of Your Final Destination. Questo è il titolo originale del romanzo di Peter Cameron che noi conosciamo nella versione italian Quella sera dorata, titolo tratto dall'esergo della seconda parte del romanzo:


Quella sera dorata non volevo proprio andare oltre; più di ogni cosa volevo restare un po'...” Elizabeth Bishop, Santarém.


Partiamo da qui. Leggo questo romanzo perché sono affezionato al modo di scrivere di Peter Cameron, diretto, pulito, immediato. Ogni suo romanzo per me vuol dire attraversare mari di sentimenti fino all'approdo dell'ultima pagina e se potessi sarebbe un viaggio senza fermate intermedie. Ma vado a 30 pagine all'ora e alle volte questo è l'unico tempo che mi è concesso.

Nel libro scovo storie d'amore presenti, passate e in contemporanea. Tappezzano il libro e penso di non dover anticipare nulla in merito per lasciarne il gusto al lettore.

Pillole di Autore: Orphée

               Frederic Leighton- Orfeo ed Euridice(1864)


Orfeo, musico, poeta e cantore, è l'artista per eccellenza, figlio della Musa Calliope e del sovrano tracio Eagro(o, probabilmente del dio Apollo), fonde in sé il lato appolineo e quello dionisiaco, lo spirito della razionalità, contrapposto allo spirito caotico e irrazionale. Orfeo con la sua arte riesce a muovere alberi, pietre, fiumi, a sovvertire l’ordine della natura con i poteri del “genio”; con la sua cetra commuove gli animi degli dei infernali, incanta l’universo intero, ferma la ruota di Issione.

La figura di Orfeo è legata soprattutto  alla celebre vicenda tragica di  Euridice, leggenda rivisitata e riscritta dai tempi più antichi nella letteratura e in poesia, da Virgilio a Bufalino
Ogni variazione sul mito ha degli elementi perturbanti, fino a giungere ad un totale sconvolgimento della trama originaria:Virgilio rimane fedele all’antica leggenda, predilige l’essenzialità e l’eleganza senza dilungarsi in digressioni descrittive; Ovidio si ispira a Virgilio, introduce gli amori omosessuali di Orfeo, celati dal suo predecessore e pennella precisamente i dettagli; mentre la Euridice di Virgilio rimprovera l’amato “Quale…- diceva lei- quale immensa pazzia, Orfeo, ha rovinato me, infelice, e te?”, quella di Ovidio non ha nessuna ragione di biasimo “Pur morendo di nuovo, non ebbe per lo sposo parole di rimprovero(e di cosa doveva lamentarsi, se non di essere amata?)”. Poliziano introduce nuovi personaggi e imbocca la via del dramma satiresco con finale carnacialesco del coro delle baccanti.

Inverno della nebbia: Pascoli e De Andrè



«I ponti non sono fatti per confondere le rive, sono fatti per portare gli uomini da una sponda all’altra, lasciando loro la coscienza di essere sull’una, o sull’altra sponda». 
La chiosa di Lello Voce alla dichiarazione del 1979 di Fabrizio De Andrè («rifiutavo questa etichetta di poeta che volevano per forza applicarmi addosso: cercavo soltanto di gettare un ponte tra la poesia e la canzone, e mi servivo della musica come un pittore si serve della tela») ha permesso il parallelo che si propone tra Inverno del cantautore genovese e la poesia Nebbia di Giovanni Pascoli. Andrea Cortellessa sottolinea come «l’immagine del ponte è importante non solo per il collegamento, ma anche per il trasporto»: dove trasportano, quindi, De Andrè e Pascoli? 

#PagineCritiche - Addio, ghettizzazione critica: Liala, la regina del rosa

Liala. Una protagonista dell’editoria rosa tra romanzi e stampa periodica
Atti del convegno di Milano, 19 aprile 2011
a cura di Luisa Finocchi e Ada Gigli Marchetti
FrancoAngeli. Milano 2013



«Io non ho bisogno che i critici parlino di me: di me parla bene il mio pubblico, è al mio pubblico che io devo rendere conto di ciò che scrivo. Ma vorrei che molti critici, prima di criticare, facessero almeno la fatica di leggere quello che hanno deciso di criticare»

Questi auspici di Liala trovano realizzazione nel convegno milanese che, nell’aprile del 2011, riabilita gli studi sulla scrittrice che dal lago di Como ha incantato milioni di lettrici e migliaia di lettori. Il convegno muove dalla più recente apertura agli studi sulla letteratura di consumo, al fine di stabilire le ragioni del duraturo “sortilegio” lialesco. Imprescindibile, il taglio trasversale degli studi, che fin da una prima scorsa all’indice testimoniano l’impiego di strumenti critici molteplici e diversissimi, per mettere in luce gli angoli più reconditi di quello che non è stato solo un fenomeno editoriale. Infatti, negli anni Liala ha attirato più critiche che analisi dedicate e approfondite: è finalmente ora di cambiare lo sguardo prospettico, e grandi accademici si sono misurati con la scrittrice comasca.

Adelante: il romanzo d'esordio di Silvia Noli


Adelante di Silvia Noli
Fazi
pp. 268
14 Euro





Sarà perché ci sente un po’ come la protagonista, tra storie finite, nuovi posti di lavoro e traslochi vari, ma Adelante, il romanzo d’esordio della genovese Silvia Noli, è un libro che sembra riuscire a donare un po’ comprensione, un po’ sollievo. Non a caso, se son cozze si apriranno si legge nell'epigrafe.
Sono pagine quasi comiche se si prova ad immaginare la giovane protagonista catapultata da un lavoro all’altro, dalla rappresentante di surgelati alla baby sitter di un bambino autistico alla massaggiatrice e tanti amori impossibili. Per non parlare delle case cambiate di continuo: l’appartamento di Mario l’argentino nel centro storico, un attico, un bed&breakfast, i vari alloggi  in cui condivide disgrazie con Silvestro il siciliano .
Ma c’è anche tanta ironia in Adelante, quell’ironia che serve a sdrammatizzare i momenti più dolorosi provando a riderci su anche quando le cose iniziano davvero a mettersi male.
C’è una situazione familiare dalla quale ci si cerca di liberare, l’urgenza di un lavoro senza poter contare su nessuno, l’instabilità emotiva, i problemi alimentari, il freddo, una malattia. Un ritratto che, nonostante il piacere di queste pagine, riesce a far sentire che cosa si provi davvero a doversela cavare da soli. Sensazioni che forse non tutti conoscono sul serio malgrado la tendenza a rispecchiarsi nelle vicende della protagonista. 



Adelante, Rossa Consuelo! Sempre avanti e quando la buriana sembra passata arriva il bisogno di capire. E chissà che l’esperimento di riappacificarsi con se stessi non sia riuscito. Il romanzo è infatti un viaggio a ritroso della protagonista allo scopo di dare un senso e una collocazione al passato grazie all’aiuto di una psicologa, Daniela, che la sprona a scrivere e scrivere fino a che le parole si fanno sempre più leggere e la rabbia si plachi
Il romanzo di Silvia Noli invita ad affrontare la vita respirando passo dopo passo non risparmiando la durezza che ogni prova da sostenere, ogni traguardo da raggiungere, ogni sogno in cui credere portano con sé.
E intanto che scrivevo un po’ ho lasciato andare, un po’ mi sono guardata intorno (‘azzo quanti siamo), e ci ho messo così tanto a concludere perché avevo paura.E perché, abbiamo detto, quando si abbandona una storia, un modo d’essere, una veste, si soffre sempre per via dell’attaccamento. Ci si attacca al dolore.Il dolore è un ottimo paraculo, e sguazzare nel solito brodo è una manna per chi non ha il coraggio di cambiare e preferisce sempre dare la colpa agli altri, alla storia, al destino. Tipo io. Che mi arrabatto perché ho paura. Che non faccio ciò che mi piace perché ho paura. Che non so amare perché ho paura. Che mi stringo addosso il peso del passato perché ho paura di essere leggera, e quindi libera [...]


#CriticaLibera - Chiediamo l'obbligo della verità su Ilaria e Miran

Ci sono mestieri e professioni, e poi ci sono vocazioni, che possono essere affrontate come mestieri o come professioni, e sono tante le storie che parlano di persone con doti o doni nel saper fare qualcosa, di norma legate al mondo artistico o creativo. 
Le parole, però, i mestieri o le professioni che hanno a che fare con le parole,  non si sa bene dove inquadrarli. Possono essere un dono le parole, ma  bisogna coltivarle e indirizzarle; possono essere un mestiere, ma bisogna piegarle alla logica dell’utilizzo; possono essere una professione, ma bisogna sentire il peso di ciò che si racconta. Sono perciò accompagnate, sempre, da una vocazione. La vocazione di vedere il mondo sotto forma di parole, non vuote, non leggere, non passeggere. Parole piene, pesanti, che si fanno spazio in mezzo all’indifferenza, che toccano le corde di un cuore e arrivano alle radici di un problema.
 Per disporre così delle parole ci vuole esercizio al sacrificio, ci vuole il coraggio della fatica e dell’ignoto e una grandissima apertura. Verso gli altri e verso noi stessi. Per ciò che siamo disposti ad ascoltare e ad accettare, per ciò che siamo disposti a rischiare semplicemente perché va fatto, perché qualcuno deve farlo. Questo muove ancora la categoria umana verso posti scomodi, calcolando i rischi, ma infischiandosene a un certo punto e assumendosi in prima persona il peso delle parole – proprie – e delle storie –altrui -.
Se si cerca una ragione nel lavoro di alcuni giornalisti, nel lavoro degli inviati in aree di crisi, la risposta sta tutta qui: l’obbligo del raccontare; la stessa che ha mosso Ilaria Alpi e Miran Hrovatin verso il loro destino, il 20 marzo 1994, e che continua a muovere le persone che li hanno conosciuti e che credono nell'eredità del tramandare, del far conoscere.

"La strada di Ilaria" di Francesco Cavalli

La strada di Ilaria
di Francesco Cavalli
Milieu edizioni, 2014

pp. 125

A Galkayo, già Rocca Littorio all'epoca del colonialismo italiano, il caldo d'agosto imperversa cingendola d'assedio nel cuore di quella zona desertica, che a tratti sembra liquefarsi nel biancore di un sole così incandescente da sembrare quasi irreale. Al mattino e nel tardo pomeriggio, quando l'aria torrida concede una tregua, talora con il conforto di una leggera brezza, la vita sembra riappropriarsi di una fugace parvenza di normalità. Abubakar e Hassan sono cugini e hanno entrambi dodici anni. Ogni giorno conducono al pascolo un piccolo gregge di pecore sui rilievi collinari che si estendono oltre i confini della città. Quando il sole non è così alto nel cielo da costringerli a trovare riparo all'ombra di un'acacia, raccolgono un po' di ghiaia con una pala, e la lanciano sull'asfalto per riempire la buca in mezzo alla strada poco prima che sopraggiunga l'automobile che Hassan ha avvistato sulla sommità della collina. Alla vista dei due ragazzi appostati sul ciglio della strada, il conducente si ferma e porge loro una manciata di scellini, per poi ripartire a tutta velocità in direzione Garowe, verso nord. Non appena l'auto si allontana, Abubakar e Hassan si preparano a "ricevere" la vettura successiva, ripetendo la stessa procedura. E poiché, soprattutto al mattino, transita un discreto numero di automobili su quella strada costruita dai cinesi negli anni Sessanta del secolo scorso, i due sanno bene che, prima del tramonto, avranno racimolato una discreta somma di denaro. C'è da dire che, a distanza di oltre un trentennio, il manto stradale regge piuttosto bene, se si eccettuano quelle poche decine di metri in cui si concentrano alcune buche "misteriosamente" destinate a riformarsi al passaggio di ogni automezzo. E di automezzi ne passano davvero tanti, soprattutto al mattino, con il loro carico giornaliero di cat giunto in aereo direttamente da Nairobi. Il cat, l'erba coltivata sugli altipiani etiopi e keniani, quella droga dei poveri che tanti somali masticano nel tentativo di arginare la fame, il sonno e la paura, deve essere consumata rigorosamente fresca, il che giustifica l'incessante processione di camion e automobili che sfilano ogni giorno lungo le strade del deserto, sfidando le peggiori insidie della guerra.

#vivasheherazade - Sognando Jane Austen a Baghdad



Sognando Jane Austen a Baghdad
di Bee Rowlatt & May Witwit
traduzione di Fabrizia Fossati,
Milano, Piemme,  2010

pp. 376.

MAY: È un po’ come nei romanzi di Jane Austen; qui in Iraq i matrimoni, in realtà avvengono tra le famiglie. Ma in vita mia non ho mai obbedito alle regole sociali. Le obiezioni dei parenti invece riguardano il fatto che sono più vecchia, che sono già stata sposata e che provengo da un ambiente sciita che loro detestano.
BEE: Eppure conosco un sacco di persone la cui vita è talmente assorbita dal lavoro che non hanno tempo per una vita affettiva né per una famiglia. Potersi sedere alla fine di una lunga giornata e parlare con qualcuno a cui importa quello che dici e ciò che provi, May è così bello che non c’è lavoro, titolo, successo o status sociale che regga il confronto. Justin mi ha appena telefonato che sta tornando a casa. Stasera per cena abbiamo salsicce e una bottiglia di buon vino. Le bambine  stanno leggendo a letto ed Elsa è lì lì per addormentarsi nel suo lettino.[1]

Questo romanzo è una splendida testimonianza di un’amicizia forte, duratura e solidale tra due donne che hanno uno stile di vita e ideali  molto differenti tra loro; un racconto che è un esempio di lealtà e straordinaria vicinanza tutt’altro che scontato. Le due amiche instaurano un rapporto di amicizia a distanza e comunicano unicamente attraverso una fitta corrispondenza via mail.
 La vicenda prende avvio nel 2005: Bee Rowlatt è ormai diventata una donna adulta. Abita in Inghilterra a Londra, è sposata con un giornalista e vive un  matrimonio felice allietato dalla nascita di tre bambine. Dopo un periodo di assenza dal lavoro, sta faticosamente cercando di rientrare nel mondo professionale, anche se il ruolo di madre e di moglie la appaga molto. May Witwit è una docente di letteratura inglese e insegna all’Università di Baghdad nell’unico corso riservato alle studentesse. Ha alle spalle un matrimonio infelice, caratterizzato da soprusi e violenze, conclusosi con la morte del marito per alcolismo. Si sposerà altre due volte compiendo scelte sentimentali criticate nel suo paese d’origine e per le quali sarà costretta a chiudere i rapporti parentali.