"In territorio nemico". Un'intervista a Gregorio Magini

In territorio nemico può essere senza dubbio considerata una delle prove letterarie più interessanti di quest'anno.
Edito da Minimum Fax lo scorso aprile, il romanzo è frutto di una complessa operazione di scrittura collettiva (più precisamente si parla di metodo SIC, sigla che sta per "Scrittura Industriale Collettiva").
Abbiamo intervistato Gregorio Magini, fondatore e coordinatore insieme a Vanni Santoni di SIC e gli abbiamo chiesto di raccontarci il senso del metodo che hanno studiato e messo a punto per questo libro.
Dalle domande trapela tutto il mio entusiasmo nei confronti del romanzo e la curiosità verso un esperimento letterario - e anche di indagine storica - che può considerarsi perfettamente riuscito.

Per avere altre informazioni sul progetto visitate il sito di SIC o quello di Minimum Fax dove potete trovare una nutrita rassegna stampa con articoli e recensioni sul romanzo. Ai twitter addicted consiglio anche di seguire l'account @sictwit!


Non si può che cominciare con una domanda sul metodo. La differenza di SIC (Scrittura Industriale Collettiva) rispetto agli esperimenti analoghi sta nell’industrialità? Puoi raccontarlo ai nostri lettori?

Il termine “Industriale” in SIC ha diversi significati: è uno sberleffo a chi crede che la scrittura sia solo frutto di un lavorio oscuro e solitario dell’anima; è una descrizione di alcuni aspetti del nostro metodo (divisione del lavoro, contingentamento dei tempi); è anche una denuncia: la scrittura industriale non l’abbiamo inventata noi – esiste già nelle filiere di produzione di best-seller seriali, solo che è nascosta, perché l’Autore (questo sì con la maiuscola) è un pratico strumento di marketing.
Un altro aspetto, più sottile, che tuttavia può individuare la nostra peculiarità rispetto a tentativi analoghi di “scrittura partecipata” in rete, è che il termine “Industriale” si pone in polemica con l’ideologia della Rete come panacea di tutti i mali. Per chi favoleggia di new economy e cyberletteratura, infatti, un riferimento alla buona vecchia industria non può che suonare retrò. L’industria non viaggia alla velocità della luce fra i continenti, sparata da una fibra ottica a un ripetitore satellitare: la catena di montaggio è lentissima, pachidermica in confronto ai circuiti. Ma la causa del fallimento di molti esperimenti di scrittura collettiva online negli ultimi anni è che si sono concentrati unicamente sulla leggerezza del mezzo (Internet), perdendo di vista la pesantezza del fine (la scrittura: il racconto, il romanzo).

L’esperimento di In territorio nemico è affascinante non solo perché da guinness dei primati (è il libro con il maggior numero di autori mai scritto, NdR) ma perché sposta l’ago della bilancia dalla alquanto abusata questione della “ispirazione d’autore”, spesso connessa a un certo protagonismo, all’idea della scrittura come metodo rigoroso che prende quasi forma indipendentemente dall’identità d’autore e che, come tale, può essere praticato da chiunque e a partire da qualsiasi soggetto/tema. 
Noi diciamo semplicemente: chi scrive da solo può affidarsi all’intuito, all’improvvisazione; può trarre profitto dalle false partenze, dai percorsi tortuosi, dai vicoli ciechi. Può tendere a un fine che non comprende, affidandosi a visioni vaghe, simboli e metafore la cui portata sarà chiara, forse, solo alla fine. Chi scrive insieme ad altri non può: si deve organizzare. Il nostro metodo è una conseguenza di questa considerazione.

Tra tutti i paragoni proposti per il metodo SIC- divisione fordista del lavoro, industria cinematografica, bottega artistica rinascimentale – quest’ultimo è quello che più mi ha colpita. Innanzitutto perché richiama l’idea della sapienza del “mestiere”, parola che ingiustamente per secoli è stata contrapposta ad “arte” e che forse ha bisogno di essere riscoperta, ma soprattutto perché il concetto di scrittura collettiva somiglia al lavoro di bottega  per la sua valenza maieutica. I più giovani, infatti, possono imparare dai più esperti e tutti, allo stesso tempo, imparano dal lavoro collettivo che gradualmente prende forma. Cosa ne pensi?
Non si impara a scrivere nello stesso modo in cui si impara a riparare un frigorifero. L’insieme delle tecniche di scrittura è indefinito. Per questo un corso di “scrittura creativa” fornisce delle tecniche ma da solo non fa uno scrittore: perché non può che essere parziale. Tuttavia a scrivere si impara: con la lettura innanzitutto, poi con l’esercizio, con l’imitazione e col confronto. Scrivere insieme, perciò, può essere un’ottima scuola di scrittura – purché lo scrivere non sia solo gioco, esercizio, ma sia effettivamente finalizzato alla produzione di un’opera compiuta.

Mi incuriosisce la questione della dialettica libertà/pianificazione. Se nella fase di stesura e composizione occorre un assoluto rigore metodologico, come comportarsi sul terreno delle scelte di stile? Avete accordato agli autori maggiore libertà? Da lettrice, ho notevolmente apprezzato l’uniformità espressiva, il fatto che il libro scorra senza barriere, senza che si percepiscano grandi stacchi. Lo stile si è progressivamente amalgamato oppure c’è dietro un faticosissimo (e pregevole) lavoro di editing?
Entrambi. Il metodo prevede un lungo lavoro di preparazione: prima della stesura vera e propria ci si concentra a lungo sulla definizione dell’ambientazione e del soggetto (nel caso di In territorio nemico, il lavoro preparatorio è durato un anno). Anche se non c’è un momento in cui si elabora in maniera esplicita uno stile o linguaggio comune, un “riscaldamento” così impegnativo ha l’effetto di accompagnare i partecipanti verso una visione comune del mondo narrativo. Ciò non toglie che sia stato necessario, per un lavoro SIC come per qualsiasi altro testo, un robusto intervento di editing finale.

Alla base dell’opera sta una forte volontà di recupero della memoria collettiva. In che modo sono state compiute le scelte “storiche”? Mi spiego meglio: l’angolazione storica, la prospettiva da cui guardare a un evento così complesso come la Resistenza, sono state frutto di una mappatura iniziale o si sono definite e perfezionate durante il lavoro?
La trama del romanzo è (molto liberamente) ispirata a fatti realmente accaduti: episodi e fatti risalenti alla Seconda Guerra Mondiale che hanno coinvolto parenti o conoscenti delle persone che hanno partecipato alla scrittura. Sono tutte storie minime, piccoli episodi che non coinvolgono i “grandi” della storia, a partire dalle quali io e Vanni Santoni abbiamo scritto la prima versione del soggetto, una sorta di "scheletro" su cui poi, con il lavoro sulle schede personaggio, luogo, trattamento, stesura, gli scrittori hanno innestato organi, vene, muscoli, epidermide. È stata questa una scelta programmatica: volevamo raccontare una storia in cui gli scrittori e i lettori di oggi potessero riconoscersi, e chiedersi: “cosa avrei fatto io, in quella situazione?” Per lo stesso motivo, il romanzo è un viaggio attraverso le molteplici e anche contraddittorie anime della Resistenza, piuttosto che l’elaborazione sintetica di un determinato punto di vista.

Restando sempre sul piano del recupero storico, ho trovato molto interessante la congiunzione autore-ricercatore di fonti. Ci racconti in breve il processo di raccolta del materiale e la costruzione dell’archivio delle fonti?
Come detto, la storia è basata su “aneddoti” portati dagli stessi partecipanti. Oltre a questo, abbiamo suggerito, all’inizio dei lavori, una lista di testi letterari e storici che potevano essere utili per la documentazione. Gli scrittori, comunque, hanno spesso deciso di concentrarsi su parti del racconto che sentivano più vicine a loro (perché si svolgevano nella loro città, o perché sentivano più affini certi personaggi o certi fatti piuttosto che altri), e si sono documentati di conseguenza; a volte con una profondità e un’attenzione al dettaglio veramente sbalorditive.

Parallela alla ricerca storica, si evince che ce n’è stata una sul linguaggio. La coralità del testo passa anche attraverso le scelte linguistiche, l’attenzione al mantenimento dei dialetti e delle lingue straniere. Chi si è occupato di questo aspetto? E lo ha fatto già nella fase iniziale di scrittura?
L’uniformità dello stile è una conseguenza del metodo. Un’eccezione riguarda proprio il lavoro sul dialetto nei dialoghi. L’idea è nata da una proposta di una scrittrice, che ci ha inviato una scheda in cui delle operaie milanesi parlavano fra di loro, coerentemente, in milanese, e la soluzione era efficace dato che rinforzava il senso di straniamento provato dalla "borghese" e forestiera Adele al suo primo impatto con la fabbrica. Le parti in dialetto sono state comunque tradotte dall’italiano in fase di revisione.

Sebbene i personaggi principali siano solo tre credo che il romanzo abbia pienamente raggiunto un effetto di “coralità". Mi sembra che In territorio nemico si basi su un perfetto equilibrio tra indagine psicologia del singolo personaggio e affresco collettivo. Dall’evento minuto prende forma l’universale e viceversa. Si tratta di un risultato pianificato e ricercato o semplicemente dell’effetto che il romanzo ha avuto su una lettrice entusiasta? 
Forse non pianificato; certo sperato e voluto. Fin dalla definizione del soggetto, abbiamo puntato sulla molteplicità dei punti di vista, sulla diversità e quantità dei personaggi. La scrittura collettiva ci ha forse aiutato a ottenere l’effetto corale, perché i diversi gruppi di scrittura (ogni personaggio è stato elaborato da 8-10 scrittori) hanno certamente espresso visioni differenti e peculiari.

La grandezza dei tre protagonisti sta, secondo me, nel loro rappresentare tante delle possibili esperienze del periodo bellico. La battaglia e il diretto coinvolgimento, la cattività, il viaggio e la fuga, la passività e lo spaesamento che, dopo una svolta psicologica, si convertono in azione e rivolta. È come se Adele, Matteo e Aldo rappresentassero con le loro vicende le tante sfaccettature degli uomini e delle donne che hanno provato lo smarrimento e la privazione della guerra, hanno rischiato di perdersi per poi trovare la forza di lottare e resistere. Adesso un parere da lettore: qual è il personaggio che consideri più riuscito o a cui, semplicemente, sei più affezionato? 
Certamente Aldo Giavazzi – perché, fra i tre protagonisti è il più originale: è un imboscato, un pavido e un egoista, ma proprio per questo che lo amo, perché la sua forma di resistenza è così diversa dalle narrazioni classiche della Resistenza, più o meno eroiche o picaresche. Un Cesare Pavese – se Pavese fosse stato un ingegnere.

Dal progetto al libro pubblicato. Come è stata decisa la ripartizione strutturale del testo in capitoli brevi? C’è una qualche corrispondenza con le schede o è stata un’articolazione successiva, avvenuta a scrittura completata?
Tutto programmato secondo il metodo: la divisione in scene e capitoli deriva dalla strutturazione del soggetto. Non per niente la stesura è stata articolata in schede numerate (S1, S2… S95). In fase di revisione abbiamo solo dovuto definire l’alternanza fra le tre linee narrative del romanzo, corrispondenti ai tre protagonisti, Matteo, Adele e Aldo, e poi lavorare molto sulla cronologia, per far "tornare" temporalmente le tre linee narrative tra loro e rispetto alla Storia che si muove sullo sfondo.

Il fatto che tutti gli scambi tra i soggetti coinvolti nel metodo di Scrittura Industriale Collettiva siano avvenuti via internet dimostra ancora una volta quali nuove possibilità la rete offra all’ideazione di processi autoriali collettivi. Quali sono le vostre esperienze di scrittori e lettori sulla rete? E con i social dedicati ai libri che rapporto avete?
Usiamo da sempre Anobii (e riteniamo che sia una piccola tragedia che il suo enorme capitale di recensioni – l'Anobii italiano è un caso unico per numero e "qualità" degli utenti – stia soccombendo sotto i colpi dei bug e della trascuratezza), poiché è utilissimo per controllare la crescita di un libro (con la famosa formula "AnobiiX30") e la sua ricezione; oltre a ciò, Anobii è stato essenziale nel reclutamento degli autori di In territorio nemico, nel 2009 questo social network era molto vitale e da lì arrivano almeno una decina dei 115 autori (e molti di più sono quelli che vengono dal circuito dei blog, letterari e non, e che tramite di esso ci avevano "scoperti" negli anni).

Trovandovi a coordinare un nuovo romanzo SIC, vi piacerebbe “dirigere” un altro libro storico o lavorare su una materia completamente diversa? 
Certo che ci piacerebbe. Ci sono anche editori che fanno proposte più o meno velate, per non parlare di molti scrittori SIC, ormai veterani, che vorrebbero ripetere l'esperienza. Ma un romanzo è un lavoro immenso – ci vuole una motivazione fortissima, non tanto per iniziare, quanto per portare a termine il lavoro. La volontà di raccontare, con i mezzi e i punti di vista di oggi, la Resistenza è stata il volano che ha dato a me e a Vanni, e probabilmente anche a molti dei nostri scrittori/compositori/revisori la forza di portare a termine In territorio nemico in questi tre anni (che sono sei se ci mettiamo anche i tre in cui abbiamo rodato il metodo attraverso la scrittura di racconti). Non è dunque una questione di genere romanzesco – abbiamo scelto lo storico per questo primo romanzo SIC perché ci sembrava appropriato per questo specifico progetto – ma di visione comune. Non ci faremo prendere dalla frenesia del sequel: aspetteremo, ci guarderemo intorno, continueremo a scrivere individualmente e nel frattempo  cercheremo di capire se possa valere la pena di imbarcarsi in una nuova “lunga marcia”.


Intervista a cura di Claudia Consoli