L'uomo dai ventiquattro volti: "Una stanza piena di gente"


Una stanza piena di gente
di Daniel Keyes

Nord, 2009



Raccontiamo una storia strana, una storia che parla di ventiquattro persone chiuse dentro una stanza. A dire il vero questa storia parla di dieci persone chiuse in una stanza. In effetti nella stessa stanza ce ne sono anche altre tredici ma sono isolate dagli altri e non gli viene permesso di uscire, in più c’è anche un capo, un “maestro” che comanda tutti gli altri. In realtà questa storia parla di un solo uomo, che però ha ventiquattro persone dentro di sé, nella sua mente c’è una folla, la sua mente è una stanza piena di gente. 
Ve l’avevo detto che era una storia strana: la storia di William Stanley Milligan, detto Billy. Billy Milligan è il primo individuo nella storia degli Stati Uniti a essere stato dichiarato non colpevole di gravi crimini per ragioni d’infermità mentale, in quanto affetto da disturbo dissociativo di personalità (le cosiddette "personalità multiple"). Dentro di lui esistono ventiquattro persone, ognuna di esse ha una storia, un’anima, degli interessi, dei sentimenti ben precisi. Ognuna di queste persone ha perfino una ben precisa età e corporeità ovvero un’altezza, un peso, una certa costituzione fisica. Ad ognuna di queste persone è affidata la pratica di una propria “specialità”, che deve usare nei momenti in cui è richiesta. La mente di Milligan è una vera e propria comunità, organizzata gerarchicamente e con le sue dinamiche, dove ognuno ha il dovere di affinare le sue abilità preferite, nel rispetto di alcune regole. Chi non rispetta il codice etico della comunità viene ritenuto pericoloso, “indesiderabile”, e viene isolato in modo che non possa più uscire allo scoperto, “fuori”. In modo da non mettere a repentaglio il segreto.
Immaginate una stanza buia, un oscuro dormitorio. Immaginate dei letti intorno a un tunnel di luce, un fascio luminoso che viene dall’alto, come quei riflettori che, su un palco, illuminano l’attore protagonista escludendo tutto il resto, una specie di “occhio di bue”. A seconda della situazione, che essa sia pericolosa o dolorosa o richieda una particolare parlantina, una persona, piuttosto che un’altra, esce nel mondo. Basta che la persona necessaria si metta sotto il fascio di luce ed è “fuori”. Chi è sotto il riflettore prende il controllo.
Billy Milligan è un ragazzino che ha sofferto le violenze, anche sessuali, di un padre adottivo brutale e crudele. A seguito di quel trauma, succede qualcosa nella giovanissima mente di Milligan. Si scinde, si spacca, ma lui non sa cosa stia succedendo e gli altri: familiari, insegnanti e psicologi, pensano che abbia soltanto un amico immaginario. Come capita nel normale sviluppo psichico del bambino, che nell’egotismo dei primi anni porta avanti la costruzione di una coscienza attraverso la proiezione di una persona immaginaria. Il povero Milligan però soffre e soffre molto, il dolore diventa così forte che non è sufficiente operare una semplice rimozione, spontanea o voluta. Nella sua mente, allora, si crea un’altra persona: non un’altra personalità, ma proprio un altro individuo. La sua mente crea qualcuno che soffra per lui. Col procedere degli anni la situazione peggiora, Milligan perde totalmente il controllo e diventa solo un corpo comandato dagli individui che ospita, che vivono per lui e che guardano il mondo con i suoi occhi, dopo averlo messo a dormire.
Arthur è un ventiduenne inglese, studia da autodidatta le scienze naturali e la medicina, legge e scrive correntemente in arabo, domina nei luoghi sicuri ed è lui a decidere chi può uscire e prendere il controllo della coscienza. Poi c’è Ragen Vadascovinich, ventitrenne, il guardiano dell’odio, parla inglese con uno spiccato accento slavo ed è l’esperto di arti marziali e armi, tutti i tipi di armi, prende il controllo nelle situazioni violente poiché è l’unico che può difendere gli altri (e il corpo che li ospita) dai pericoli. Poi c’è l’artista del raggiro Allen, un agnostico ed epicureo manipolatore che suona la batteria, è l’unica persona che fuma e che usa la destra. Tommy invece è l’artista della fuga, suona il sassofono ed è un esperto di elettronica. David invece ha otto anni, la stessa età di Milligan al tempo degli abusi, è il guardiano del dolore quindi assorbe il dolore e la sofferenza di tutte le altre personalità. Ma non mancano le donne e i bambini che devono essere difesi e tenuti lontano da una vita violenta e dall’influenza degli indesiderabili. Perché è veramente affollata la mente di Milligan, tanto che questa comunità è dominata da un “maestro”: in lui tutte le persone sono riunite; egli ha insegnato agli altri tutto quello che sanno e gestisce la vita interna attraverso delle regole: non dire bugie, proteggere donne e bambini, osservare la castità, specializzarsi in varie discipline e tecniche e affinarle sempre di più, non toccare le proprietà delle altre persone della comunità. Chi non rispetta queste regole, chi è violento e crudele senza motivo oppure pigro e nullafacente, viene escluso e non può uscire allo scoperto, non può prendere il controllo. Ma non basta la gerarchia interna per sostenere un così fragile equilibrio, spesso le personalità indesiderabili riescono a prendere il controllo e Milligan si ritrova a essere un criminale. Accusato di violenza carnale, solo grazie ad un lavoro attento di avvocati e psicologi si riuscirà a venire a capo della complicata vicenda. 
Eppure ancora molti credono che Milligan sia un impostore e proprio su questo scetticismo si basa l’opera dell’autore di questo libro-inchiesta. Daniel Keyes, giornalista attento e zelante, vuole solo fare chiarezza, senza la necessità di dimostrare un teorema. Una stanza piena di gente non è un’opera affascinante solo per l’argomento, ma innanzitutto per lo stile, il ritmo. Lo stile è quello di un romanzo. Keyes è un narratore onnisciente. Voce che racconta la storia, sa benissimo come scandire gli eventi per portarci alla massima comprensione degli eventi, evita di lasciare eccessivamente la parola a Milligan senza mai farsi notare. L’autore non rinuncia ad azzeccatissimi espedienti come flashback e digressioni, ma sempre al servizio della trama, dell’esplorazione psicologica di un personaggio, della comprensione di un paese e di un popolo in una determinata epoca storica. Una stanza piena di gente è, insomma, un romanzo-verità: un romanzo, certo, ma a cui viene conferito quel ritmo che solo un giornalista di cronaca sa dare, un ritmo incalzante donato alle parole attraverso la gestione delle immagini e delle informazioni, che solo un esperto articolista conosce. La giusta distanza tra fantasia e realtà, attraverso la ricostruzione della vicenda affascinante e spaventosa di un uomo che era ventiquattro persone allo stesso tempo.