Joseph Roth: La leggenda del santo bevitore



La leggenda del santo bevitore
di Joseph Roth

B. C. Dalai editore, Milano 2010
6.90 €, 62 pp.

«Ovviamente duecento franchi sono meglio di venti, ma sono un uomo di parola. Sembra che lei non riesca neanche a vedermi. Non mi è possibile prendere il denaro che mi vuole offrire, e precisamente per queste ragioni: primo, perché non ho mai avuto il piacere di fare la sua conoscenza; secondo, perché non saprei dirle in che modo e quando potrei ridarglieli; e terzo, perché lei non ha la possibilità di richiederne la restituzione prima del dovuto. Non possiedo un indirizzo. Quasi tutti i giorni vivo sotto questo o quel ponte. Ma anche se non possiedo un indirizzo sono un uomo di parola, come le ho già detto».
Questo il mitizzante biglietto da visita di Andreas, bevitore vagabondo e trasognato, impunemente dedito alla sublime arte dell’autodafé del sacrificio fisico professionale, dignitoso scialacquatore di beni immaginifici per procura.
Andreas sembra non aver mai bisogno di rinfrescarsi mani e collo con una vigorosa strofinata di sapone, fino a quando, quasi annoiato da un’inconsistente ritualità, non s’immerge nell’odorosa vasca da bagno di un prestigioso hotel parigino.
E’ abituato, Andreas, a ristorarsi, di notte, unicamente coperto dalle calde e accoglienti pagine avvizzite dei quotidiani a stampa del giorno passato, e non per questo smette per un istante di ritenersi un perfetto gentiluomo, che si aggira, impettito e composto, dentro i brandelli della sua ormai logora camicia da sudicione.
Tra delirio estetizzante e misticismo cirrotico, Andreas non si preoccupa minimamente di racimolare neppure qualche salvifico spicciolo che gli consenta, per lo meno, di tirare a campare, fino a quando la sua misera saccoccia non arriva miracolosamente a riempirsi, un po’ per scherzo, un po’ per allucinazione, di una certa, discreta sommetta di denaro.
Fra un caso fortuito e un incidente pilotato, Joseph Roth dispiega da qui, bimbescamente, l’universale, agglutinante fenomenologia antropologica del desiderio umano, partendo dalla strategia della creazione del bisogno consumistico, programmatico e standardizzato, promosso e protratto dalla società contemporanea, fino a far culminare il picaresco intreccio narrativo, vergato da promesse e contrattempi, attese e ritorni sempre in bilico fra l’agone eziologico e il filone pubblicitario, in un circolo vizioso di virtuosismi paralleli misti a filosofie sentimentali.
Andreas incarna il primigeneo slancio umanoide verso l’assoluto proscioglimento da qualunque sorta di legame civile, impartito e coatto che sia; (ri)anima la consustanziale ricerca di un recesso di casualità giornaliera, quanto più possibilmente imperante e contestualizzata, a legittimare l’inconcludenza di faceti obiettivi, pur sensibilmente prefissati; plasma e reinventa la deresponsabilizzazione ideologica, sciorinata e infarcita di religiosità a buon mercato, tragicamente ostentata quale motivazione incontrovertibile della propria, personalissima, sconsideratamente mai avvenuta, conversione al lassismo.

E Teresa, pegno e simbolo di risarcimento morale e pecuniario, la piccola icona alla quale tendere, alla quale rispondere, sempre, delle proprie indomite manchevolezze, altri non è che l’incarnazione precipua della società tecnocratica e baldanzosa, erotizzata e perbenista, sclerotizzata e rincorsa dall’uomo dubitativo, quale inalienabile appalesamento della priopria allenata diversità, del proprio personale sentimento di non-appartenenza civica e culturale al mondo in divenire.
E’ la debolezza della singola(re) inclinazione caratteriale a vincere, parossisticamente, sulla paradossale capacità di analisi retrospettiva, propria dell’intelligenza sociale collettiva; è il randomico fluire degli eventi vagheggiati, shakerati cordialmente in un cocktail da bozzetto commediante, a sorreggere, sebbene con andatura pittorescamente claudicante, la fruizione di un’esistenza ormai stagnante e prossima all’acclimatata dissolvenza.

Joseph Roth stipula un patto ben preciso col suo lettore, prono e addomesticato alle illusorie planimetrie dell’insensatezza, a formare il reticolo forzoso dei ricorsi meta-storici e sensorial-sensitivi, blandamente cantilenati in queste sessanta pagine.

Pagine fittamente caricaturali e agnosticamente tendenti alla redenzione ridotta di un uomo, Andreas, che si svela essere, fin dai primi tratti abbozzati, uno zotico santo e un delicato reietto, un burlone dannato, e dandy (in)sofferente, roso dall’inettitudine della sua propria, malsana ostinazione all’asocialità, all’antidogmatismo faccendiero e borghese.
Per questo, Andreas come Roth, non mantengono mai davvero la parola data, ma si avvicinano sempre carnalmente, con imbarazzante costanza d’intenti, al compimento della loro propria missione esperienziale originaria, etica l’uno quanto estetica l’altro, della pacificazione introspettiva del sé e dell’altro da sé; ostili entrambi, fino all’esalazione dell’ultimo respiro, fino alla letteraria chiosa sul punto dolente, alla reductio ad unum di una privatizzata, estatica, trinitaria ideologia del bene, del male e del cosìssia.
«Duecento franchi», rispose Andreas. «Mi perdoni, però, ma lei non sa neanche chi sono! Io rispetto la parola data, ma lei non potrebbe nemmeno chiedermi la restituzione dei soldi prima del dovuto, perché è vero, rispetto la parola data, ma non possiedo un indirizzo. Io dormo sotto questo o quel ponte.»

 Francesca Fiorletta