Io e te: un nuovo racconto di formazione per Ammaniti

Io e te
di Niccolò Ammaniti
Einaudi Stile Libero Big, Torino 2010

pp. 116
€ 10.00

Ai primi posti delle vendite, Io e te riporta Ammaniti al romanzo di formazione. Non si può non pensare all'acclamatissimo Io non ho paura (2001), da cui Ammaniti ha preso poi le distanze con il più contorto Come Dio comanda (2005). Solo un anno è passato dal rocambolesco e visionario Che la festa cominci; e lo scrittore romano ci porta in tutt'altri atmosfera e intenti, riconfermando l'eclettismo della sua produzione. 

Io e te è la storia di un disagio: l'io-narrante Lorenzo è un ragazzino problematico, schivo e narcisista, che disprezza i coetanei per paura di essere rifiutato, e crede di doversi "mimetizzare" nel gruppo solo per essere lasciato in pace. Pieno di rabbia repressa, che sfoga in accessi di violenza, Lorenzo fa di tutto per non preoccupare la madre - iperprotettiva, ansiosa, affettuosa - e il padre - uomo d'affari, brillante e distante -. Così, quasi per gioco (ma Freud parlerebbe), Lorenzo racconta alla madre di essere stato invitato in settimana bianca da una compagna di classe: la donna è così felice, che il figlio non trova il coraggio di tornare sui suoi passi. E' più facile barricarsi in cantina (come non pensare al covo in cui era nascosto il bambino rapito di Io non ho paura?), con riserve alimentari, la fondamentale playstation e tanta tanta voglia di stare  da solo. Ma il muro d'incomunicabilità e di finzione che Lorenzo ha eretto è destinato a crollare. E tutto grazie all'arrivo dell'allora quasi-sconosciuta sorellastra Olivia, bella ma drogata, che irrompe nella cantina e nella vita asettica di Lorenzo.

Il romanzo breve conserva la consueta spontaneità della scrittura di Ammaniti, che non esita a comunicare i più remoti moti dell'animo. Non manca il turpiloquio, che, d'altra parte, è onnipresente nella vita reale: tra dialoghi smozzicati, frasi brevi e brevissime, Ammaniti porta in scena un quadro contemporaneo verosimile di cinismo e paura del giudizio altrui. Viene meno la cruda ironia delle altre opere, fuoriluogo in questo contesto, per dare sfogo alla dinamica controversa di rifiuto dell'altro e ricerca di approvazione. Terribilmente al passo coi tempi. 

GMG

Pietà per gli Insonni

Pietà per gli insonni

di Jeffery Deaver
BUR, 1994

pp. 431
€ 8.50


Michael Hrubek è uno schizofrenico. Di corporatura, un gigante; lettore compulsivo di libri di Storia americana, ossessionato dalle vicende della Guerra di Secessione. Soprattutto, è fuggito dall'ospedale psichiatrico che l'ospitava, in una notte buia, che prospetta di precipitare in tempesta. Quella bufera d'acqua e vento sta per rovesciarsi sul New England, mentre egli, colosso ferino, corre e annaspa inarrestabile per i boschi, macinando i chilometri e le radure del Nord-Est americano. Sembra proprio che si diriga verso la tenuta di Lisbonne Atcheson, la donna che testimoniò contro di lui al processo, contribuendo ad incarcerarlo in manicomio. Il pungolo lucido della vendetta, antica passione corrosiva, lo ha stanato dal sonno della follia, e, forse, ora lo muove verso quella grande casa, immersa nella campagna. Michael, il pazzo incriminato per violenze, è libero; abbia inizio la Caccia all'uomo. Tentano di braccarlo Owen Atcheson, avvocato e marito di Lis; Trenton Heck, cacciatore di taglie accompagnato dal suo fido segugio addestrato a seguire le piste dei criminali; e Richard Kohler, lo psichiatra di Michael, convinto di poter dare un grande contributo alla scienza attraverso il suo portentoso metodo di cura degli schizofrenici. Colpi di scena e doppi fondi, appostati come tagliole pronte a scattare nel cammino, si susseguono vorticosi nelle ultime cento pagine, da leggere d'un fiato, del libro. 
Praying For Sleep è un thriller che si svolge in un'unica lunga notte, e che dissemina qua e là intelligenti tributi al Frankenstein di Mary Shelley; è un libro ben fatto e coinvolgente, ma anche più profondo di quanto generalmente ci si aspetti da un romanzo di tale genere, perché, senza banalità, è capace di aprire al lettore domande e riflessioni sulle ambiguità insite nei rapporti tra le persone, sul ruolo della menzogna nella nostra vita sociale, sulla rilevanza del rispetto, e della decenza delle condizioni di vita, per i malati psichiatrici negli ospedali. Un masterpiece di Jeffrey Deaver, ma anche una delle cime più elevate del suo genere letterario. Da leggere compulsivamente, suggerisce Stephen King; magari in una notte buia e temporalesca.

Quando gli dei non c'erano più e Cristo non ancora



Memorie di Adriano
seguite dai Taccuini d'appunti
di Marguerite Yourcenar
G. Einaudi editore, 1951

traduzione di Lidia Storoni Mazzolani

pagg. 317




Ritrovata in un volume della corrispondenza di Flaubert, molto letto, molto sottolineato verso il 1927, la frase indimenticabile: «Quando gli dei non c'erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio, c'è stato un momento unico in cui è esistito l'uomo, solo». Avrei trascorso una gran parte della mia vita a cercar di definire, e poi descrivere, quest'uomo solo e, d'altro canto, legato a tutto.
Marguerite Yourcenar, Taccuini d'appunti a "Memorie di Adriano"


Innanzitutto romanzo storico è un'etichetta che calza abbastanza stretta a quest'opera. Questa sommaria classificazione sia dovuta alla concorrenza di due caratteristiche che balzano subito all'occhio: è prosa, indi è romanzo; offre una ricostruzione storica plausibile e puntuale, perciò è un romanzo storico. Benissimo, una generalizzazione comoda. Seguendo questa logica, la Yourcenar sarebbe parente (alla più o meno lontana) di Walter Scott, Manzoni e – perché no – Valerio Massimo Manfredi. Invece basta leggere la citazione sovrastante per accorgersi di un particolare. Si parla di definire e di descrivere, non di romanzare. I confini sono piuttosto labili e contestabili, ma l'intenzione della Yourcenar è prima di tutto centripeta, non centrifuga come quella dei romanzi. Ossia, si tratta di una ricerca a carattere personale, dettata da nessun desiderio di divulgazione mondiale, alcuna velleità di celebrazione e consenso del pubblico e tanto meno brame commerciali. La sua forma ricalca, in un certo senso, quello stile antico, atticista, di narrazione, miscelando pensieri e riflessioni di matrice filosofica a resoconti di eventi. In più punti si ha l'impressione di trovarsi di fronte ad una traduzione dal latino, magari di un Cicerone. Nessuna moderna Spannung e sua successiva risoluzione, né captationes benevolentiae lectoris in forma di colpi di scena, parole accattivanti e maliziose. Ancora dai Taccuini d'appunti:

Nota del 1949: più cerco di fare un ritratto somigliante, più mi allontano dal libro e dall'uomo che potrebbe piacere; solo qualche amatore dei destini umani comprenderà.

Basta la sola figura di Publio Elio Adriano, con il suo carico di carisma, a sorreggere l'impianto narrativo, senza trucchi e senza inganni. Mai ci sogneremmo di parlare di un
romanzo di Adriano, su queste basi. Chi era quest'uomo solo, allora?

Per molto tempo, immaginai il lavoro sotto forma d'una serie di dialoghi, nei quali si sarebbero fatte sentire tutte le voci dell'epoca. Ma, checché facessi, il particolare prevaleva sull'insieme, le parti compromettevano l'equilibrio del tutto. Sotto tutte quelle grida, la voce di Adriano si perdeva. Non riuscivo a dar vita a quel mondo come l'aveva visto e compreso un uomo.
E' un uomo la cui voce si perde in mezzo ad altre sue contemporanee, che, dopo aver amministrato e comandato in solitudine (o quasi) un impero, necessita di un monologo, in forma di lunga epistola, per raccontare la sua versione dei fatti. Una versione autoreferenziale, unica perfettamente aderente a ed esaustiva di ciò che è stato. Perché Adriano è l'impero, l'impero è Adriano. Con lo stratificarsi delle voci, delle opinioni, dei commenti a posteriori quest'uomo solo si sarebbe trovato in scomoda compagnia, un primo violino nascosto tra gli ottoni rumorosi. Il simbolico passaggio di consegne che avviene tra Adriano e Marco Aurelio, nella lunga lettera che costituisce l'opera, è un pretesto effettivamente per far sentire la propria voce.

Adriano, fin dalle prime pagine, dà ad intendere di essersi sempre sentito
imperatore, dalle campagne militari contro i Daci fino alla fittizia adozione ed ascesa al trono. Non è un eccesso di presuzione. Si tratta della consapevolezza del proprio ruolo ideale nel mondo, del suo desiderio di pace e sviluppo culturale concretizzabile appunto solo assurgendo al massimo potere. La sua forza, quella dell'uomo solo. La sua concezione di futuro è un vorticoso avvolgersi su se stesso, lungo la linea del tempo, fino al momento in cui è costretto a passare il testimone.

Importante nella sua formazione è il pensiero greco, sentendosi lui in prima persona fortemente ellenizzato e dimostrandolo pagina dopo pagina. Uno dei brani più belli ed interessanti della prima parte del libro è dedicato, infatti, alla lingua greca, così intensa e con sfumature e caratterizzazioni più feconde del
suo latino. Non per altro, l'intera epistola è indirizzata a quel Marco Aurelio autore dei Τὰ εἰς ἑαυτόν (Colloqui a se stesso).

L'intera narrazione segue così un percorso a
V rovesciata, ripercorrendo la vita dell'imperatore salendo verso un culmine, il Saeculum aureum, per poi ridiscenderne il pendio verso la morte; tematica che apre e chiude la lettera ricongiungendosi ad anello (Ringkomposition). Così si dipana il filo del racconto, rivelando l'unicità dell'imperatore ed al contempo la sua molteplicità, la sua versatilità d'applicazione, in particolar modo nell'ambito delle arti, non lesinando sulla sua fragilità umana. Struggente, al proposito, la storia d'amore efebico con Antinoo, che tinge la seconda parte del libro di una malinconia man mano più scura, dopo la morte dell'amato.

Il mondo femminile intorno ad Adriano non trova, invece, una declinazione amorosa. Fa rapidi accenni alle amanti, non va oltre. All'estremità positiva trova posto Plotina, moglie di Traiano, a cui la tradizione (e senza esplicitarlo anche l'imperatore della Yourcenar) attribuiscono un ruolo di primo piano nell'adozione di Adriano da parte del marito morente. Per lei l'io narrante prova una sincera e profonda affezione, tangibile in ogni parola a lei riferita. Si profila poi Paolina, sua sorella e moglie del suo nemico Serviano, donna arcigna e seriosa. Infine Il rapporto con la moglie Sabina, nipote di Traiano sposata per convenienza, è di affetto-odio, senza implicazioni catulliane. Affetto di Adriano, inquinato quasi dalla compassione per una donna che l'ha dovuto sposare senza amarlo ed odio di Sabina, così profondo che prima di morire...

Disse che si rallegrava di morire senza figli: i miei figli mi avrebbero rassomigliato senza dubbio, ed ella avrebbe provato per loro la stessa avversione che provava per me.

La lingua della Yourcenar, come già detto, è atticista, densa e poco scorrevole per il comune lettore di romanzi; della consistenza di un ragù di lunga cottura (o di una gustosa zuppa di
Gulasch, se si preferisce); si presta facilmente, con le sue ampie argomentazioni, ad essere citata avulsa dal suo contesto d'origine. A ciò è dovuta gran parte del successo extra litteratorum moenia, cioè alla capacità del testo di prestarsi a vari livelli di lettura (anche da qui l'esigenza di farne un film), dall'abbacinante al maieutico, dallo stupefacente al che fa riflettere, che lo legga la portinaia sotto casa o il grande critico letterario del piano di sopra.


Adriano Morea


Questo libro è stato recensito anche da Luxita, clicca qui per leggere la sua recensione.

L'instancabile ricerca di un amore da lontano

Più lontana della luna
di Paola Mastrocola
Guanda, 2007

€ 8,50
pp. 296

Nel 1970, a pochi chilometri dalla Torino della Fiat , ci sono Stupinigi, un cavallo-mascotte, Pino; una ragazzina con grandi sogni da modellare con i suoi panetti di pongo nascosti in tasca, Lidia; adulti che incarnano il prototipo del padre-operaio dai grandi sogni e la tipica madre casalinga, dallo spirito pratico e muta accondiscendenza. Tutto si muove nella quotidianità più rassicurante, finché due eventi sconvolgono l'ordine: la scoperta del fin amor provenzale, dalla lettura della biografia di Bernart de Ventadorn nella fiammante e intonsa enciclopedia comprata per Lidia; e un discorso origliato per caso: è preoccupante che Lidia, a quindici anni, non abbia ancora avuto una "simpatia".
Qualcosa si rompe, e l'equilibrio muta rapidamente: presa da un istinto un po' folle, Lidia decide di andarsene, per trovare il suo amore. La prima delusione non basta a scoraggiare la ragazza che, a distanza di anni, decide di abbandonare Torino a dorso di cavallo, senza nemmeno salutare i genitori. Il viaggio attraverso l'Italia porta sconvolgenti scoperte, nuove amicizie, incontri con uomini improbabili, che Lidia ventenne scambia per il possibile 'amore da lontano'. Non conta se l'uomo è sposato, o molto vecchio: Lidia cerca una nobiltà d'animo che richiama l'idea provenzale d'amore. Il tutto è vissuto insieme a Pino, amico fedele che invecchia affianco a Lidia, confidente silenzioso e leale. 

Le avventure si moltiplicano, come pure i guai, le difficoltà e le scoperte, in uno smodato gioco di fantasia, che a tratti conserva un che di surreale. Fantasiosa è Lidia, io-narrante della vicenda, come saggiamente fantasiosa è la scrittrice: in queste trecento pagine difficilmente riassumibili perché densissime di eventi, Paola Mastrocola costruisce un insolito romanzo di formazione contemporaneo. Così i temi tradizionali sono rimpastati morbidamente in una crema dolce al punto giusto, con una punta d'insoddisfazione molto post-moderna: il viaggio come crescita personale, nonché come ricerca spasmodica e insaziabile; l'amicizia a tratti deludente; l'incertezza professionale, tipica della società randomica contemporanea; l'amore ideale che, riparato dietro all'immaginazione, subisce le sferzate della realtà, fino a crollare; e soprattutto la consapevolezza di sé, conquistabile solo con l'esperienza.

Il tutto è poi raccontato con lo stile scorrevolissimo della Mastrocola, per una narrazione incalzante in cui ogni filo è tirato da mani sapientissime. Il romanzo riconferma la formula già sperimentata nella Barca nel bosco di unire piacevolezza e freschezza alla capacità di comunicare. Il romanzo giusto da proporre a chi, magari giovanissimo, fatica a tenere aperte le palpebre sulla pagina scritta.

Gloria M. Ghioni

A Natale regala un libro: i consigli di CriticaLetteraria (2)



Dopo il primo successo della nostra rubrica natalizia "A Natale regala un libro" (vuoi rileggerlo? clicca qui),
non potevamo farvi mancare altri dieci consigli dei nostri recensori a soli due giorni da Natale, quando ormai le idee-regalo latitano!
Anche stavolta abbiamo segnalato il link alla nostra recensione per approfondire il consiglio.
Non manca mai un breve profilo del "destinatario ideale".

Buona lettura e tanti auguri da tutto lo staff!
ADRIANO consiglia...
MICHAIL A. BULGAKOV, Il Maestro e Margherita, BUR 1967
Perchè: Si tratta un romanzo scritto con un'abile alchimia di satira, dolce fantasia e non troppo celata acredine, secondo la definizione di Montale "un miracolo che ognuno deve salutare con commozione".
A chi regalarlo: Sarà gradito al palato dei golosi di critica sociale e letteratura impegnata, a chi piace immaginare ed andare oltre la parola scritta, ai sognatori. 
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ITALO CALVINO, Il barone rampante, Mondadori 1957
Perché: il gioco dei punti di vista fattosi viva e vispa narrazione. Leggero ma pensoso.
A chi regalarlo: particolarmente indicato per il trattamento della noia nei soggetti giovani, apre finestre e salutari spifferi in casa dei canuti. 
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ALESSANDRA consiglia...
MAURIZIO GRAMEGNA, Caduti in volo, Puntoacapo 2009
Perché: la guerra civile italiana, innescata dal secondo conflitto mondiale, è una radice ferita della nostra storia, che ha consegnato un'eredità incancellabile alle generazioni successive. L'autore, con uno sguardo alieno da troppo facili agiografie, e attraverso la creazione di indimenticabili ritratti di sapore quasi manzoniano, tratteggia con intensità la storia del proprio paese natale, colta in uno dei suoi momenti più tragici e dolorosi. Un libro di storia, d'esperienza, di paesaggi e di poesia.
A chi regalarlo: a ragazzi che frequentino le scuole medie o superiori, per stimolare la loro coscienza storica e civile non con insegnamenti moraleggianti, ma con la spontanea immersione in una toccante vicenda umana.
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GIULIO LEONI, La sequenza mirabile, Mondadori 2008
Perché: E' un libro dotto, ironico, di genere felicemente inclassificabile.E' capace di tenere il fiato in sospeso fino all'ultima pagina e di aprire scenari inquietanti sulle possibilità lasciate aperte dalla Storia e sull'eterno problema del Male.
A chi regalarlo: a ragazzi e adulti, appassionati di storia del Novecento, nonché dei generi thriller ed esoterico, e alla ricerca di opere di elevato spessore culturale , al di là del puro intrattenimento. 


ELISA consiglia...
MARGARET MAZZANTINI, Non ti muovere, Mondadori 2001 
Perché: Una scrittura potente e coinvolgente che arriva dritta e forte come un pugno nell'emotività del lettore: il dolore straziante per un amore ascoltato troppo tardi riaffora nel presente del protagonista quando sta per perdere la persona a lui più cara al mondo.
A chi regalarlo: A chi troppo spesso, interpretando passivamente i personaggi che gli altri ci chiedono di essere,  dimentica di amare ciò che di più prezioso abbiamo e che timidamente ci indica il cammino verso la felicità: il nostro cuore. E nessuno può dare vero amore agli altri se non ama se stesso per primo.
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GIUSEPPE consiglia...
ITALO CALVINO, Il sentiero dei nidi di ragno, Oscar Mondadori
Perché: un ritratto puntiglioso ma non fazioso dello scenario italiano al periodo della guerra partigiana. Tra i più significativi esempi di letteratura della resistenza italiana che va controcorrente, mostrando quanto a volte la linea di demarcazione tra giusti e malvagi fosse sottile e incosistente, focalizzando il vero nodo del racconto attorno alla vorace distruttività della guerra.
A chi regalarlo: a tutti coloro che sono interessati a leggere un ritratto distaccato, veritiero e imparziale di un segmento di storia ancora molto dibattuto.
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GLORIA consiglia...
CHARLES P. DUCLOS, Acaju e Zirfila, Gaalad 2010
Perché: è una favola per adulti che porta il buon umore, tra battute di spirito e arguzia tipiche del Settecento: ben si sposa con il clima natalizio e col desiderio di rimandare le preoccupazioni all'anno nuovo.
A chi regalarlo: a tutti coloro che amano l'ironia pungente.
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FABRIZIO ALTIERI, Rossana, il sogno e il ragno Calatrava, Società Editrice Fiorentina 2008
Perché: è una lettura spassosa e a tratti surreale, con una struttura appassionante che conduce il lettore dalla prima all'ultima pagina a velocità record.
A chi regalarlo: soprattutto ai ragazzi, anche a quelli che solitamente non leggono. Resteranno avvinti dalla trama incalzante e dalla fantasia straordinaria di Fabrizio!
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LUXITA consiglia...
EDGAR LEE MASTERS, Antologia di Spoon River, Einaudi 2009
Perché: La vetrina di Masters espone una ricca varietà di gemme, un complesso repertorio di caratteri finemente intagliati e sfaccettati. Così brutalmente connotati, e in poche battute, da risultare, per paradosso, universalmente validi, familiari, moderni.
A chi regalarlo: Da raccomandare e donare a tutti coloro che amano i gioielli in senso reale e metaforico . A quanti invece ricercano ritmo e musicalità nella letteratura, si impone di rigore il testo in lingua originale. E' un' Antologia da... canticchiare! 
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RODOLFO consiglia...
MARCO BOSONETTO, Nel grande show della democrazia, Laurana 2010
Perché: un romanzo scritto bene, con un linguaggio innovativo, e che racconta un'Italia futura possibile e che somiglia tanto, troppo, a quella attuale.
A chi regalarlo: Particolarmente indicato a chi si interessa della contemporaneità e ai mezzi con cui contrastare un mondo tanto orribile quanto verosimile.
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Tre tazze di tè

Tre tazze di tè
di Greg Mortenson
Rizzoli, Milano 2008

pp. 482
€ 21,50

“Lentamente e con fatica, vediamo come nel mondo sia sempre più accettato il fatto che i paesi più ricchi e avanzati dal punto di vista tecnologico abbiano la responsabilità di aiutare quelli sottosviluppati non solo per un senso di carità, ma anche perché soltanto in questo modo possiamo sperare di avere una pace duratura e la sicurezza per noi stessi.” Da Schoolhouse in the Clouds di Sir Edmund Hillary.

Tra le organizzazioni non governative, anche conosciute come ONG, il Central Asia Institute fondato da Greg Mortenson è oggi noto grazie al libro di D. O. Relin. Tre tazze di tè, come spiega lo stesso protagonista e narratore, nonché eroe della storia in questione, è un titolo emblematico nel segnare la transizione, o se vogliamo più letterariamente la “metamorfosi”, da estraneo a ospite a membro della famiglia, di un free climber americano che capita per caso in un villaggio sull’Himalaya. A Korphe Mortenson promette di intraprendere il viaggio verso la lontanissima America per raccogliere fondi e tornare a costruire una scuola per i bambini che studiano sui prati gelati delle zone più isolate del Pakistan. La promessa si volgerà in una sfida politica tra conflitti civili, ayatollah e fatwa, divergenze culturali e problemi finanziari finché, da quell’unica scuola, una serie di contingenze renderanno possibile il “miracolo della moltiplicazione” e la costruzione di circa 70 scuole nel 2008. In Afghanistan Mortenson avrà anche a che fare con signori della guerra e coltivatori d’oppio, dimostrando che raggiungere un’intesa non è impossibile e che, anche gli americani possono giungere in un Paese travagliato issando bandiera bianca e caricando materiale da costruzione piuttosto che dando inizio a “guerre preventive”. L’edificazione di una semplice scuola diventa il primo mattone per l’educazione di giovani sottratti all’indottrinamento estremista delle madrase wahhabi. La possibilità dell’insegnamento laico rappresenta l’alternativa sostanziale a scuole dai precetti radicali o volte ad inculcare odio verso il mondo occidentale e che pure, per molte famiglie povere, rappresentano l’unico escamotage per garantire ai figli un riparo e il pasto quotidiano. 

L’autore descrive in prospettiva un percorso con lunghe scadenze. L’alfabetizzazione e la professionalizzazione non costituiscono obiettivi fini a sé stessi ma orientati a far crescere un Paese permettendo alla sua economia di innescare un ciclo auto propulsivo. Nel caso specifico e con sguardo lungimirante, costruire una scuola vuol dire sottrarre studenti alle madrase di Peshawar, e alla cosiddetta università della Jihad, promuovendo la sicurezza internazionale. 

Seguendo il pensiero di Amartya Sen, premio nobel per l’economia, il libro dedica uno sguardo particolare anche alle donne e alla loro istruzione. E’ così che attraverso la donazione per una scuola, si costruisce il futuro di una nazione… e stavolta non si tratta solo di retorica. Per questo ritengo che il meglio che si possa dire per suggerire la lettura di Tre tazze di tè è che si tratta di una storia vera. La storia di un successo ottenuto tra mille fallimenti, di una scuola laicista tra centinaia di altre estremiste; di un americano tra afghani e pakistani, di un infermiere di provincia tra capi musulmani e governi corrotti, di uno statunitense che ha scoperto che “casa” è il solo nome adeguato per un villaggio sperduto sulla catena himalayana, lì dove, inverno dopo inverno, il popolo baltì attende il disgelo. A dimostrazione del fatto che anche la scelta di un solo uomo può fare la differenza.

Eva Maria

Bianca come il latte rossa come il sangue

Bianca come il latte rossa come il sangue
di Alessandro D'Avenia  

Mondadori, 2010

254 p., 19 euro
Leonardo, detto Leo, vive una vita abbreviata, come il suo nome: scuola, calcetto, motorino,  iPod  come solo i ragazzi sedicenni sanno fare. E’ un microcosmo, il suo, fatto di amici del cuore, versioni di greco e perifrastiche, con il terrore del “bianco”, cioè il nulla, la non identità. Fino a che una serie di incontri gli trasformeranno la visione e la percezione della realtà: il supplente di storia e filosofia, che gli insegnerà, suo malgrado, quanto possano essere potenti i sogni e Beatrice, la rossa Beatrice, che con la sua malattia, il cui solo nome è impronunciabile, lo trascinerà in un vortice di sentimenti, sensazioni ed emozioni a lui finora sconosciute e lo porrà di fronte all’eterna dicotomia tra la vita e la morte, la felicità e la disperazione, il rosso e il bianco.
Complimenti prof! Con Leo, Silvia e gli altri torniamo anche noi sui banchi di scuola in trepidazione e con il terrore di alzare gli occhi ed intercettare quelli dell’insegnante che implacabile scorre il dito sul registro per stanare la vittima sacrificale… E siamo coinvolti dal loro linguaggio incisivo e senza fronzoli, forse anche un po’ cinico, fatto di frasi corte ed essenziali, nel modo in cui solo gli adolescenti sanno parlare, dove si insinua, come una voluta d’incenso la percezione della complessità della vita e delle sfaccettature dei sentimenti. E’ un caleidoscopio che ti stordisce con i suoi colori e le miriadi di figure da cui non puoi e non vuoi staccare l’occhio.

Quando la democrazia diventa uno show

Nel grande show della democrazia
di Marco Bosonetto

Laurana editore, 2010
pp. 243
euro 16,50

Marco Dell'Elmo, in questo nuovo romanzo di Marco Bosonetto, è il presidente del consiglio di un'Italia immaginaria, ex militante culturale di sinistra diventato per interesse (mancanza di concorrenti) intellettuale di destra, e infine primo presidente del consiglio eletto con il televoto. A causa di uno scandalo sessuale viene sostituito dal suo imitatore televisivo Valter Mandlian, che tutti confondono con il suo predecessore, che cercherà di ucciderlo. Di fronte a questo nucleo narrativo essenziale gireranno intorno i personaggi più strampalati ed incredibili (ma proprio per questo estremamente realistici): da Stefano Se disoccupato alle dipendenze del dipartimento Pace Sociale settore Vagabondaggio ed Alcolismo a Livio Ardenti agente segreto ed ex poliziotto della CSAP (Campagna per lo sradicamento dell'adolescenza prolungata), da Davide Sanna ex guardia del corpo ed amante di Marco Dell'Elmo a Candido Neve libero professionista del ramo apparizioni - in arte professor Woland che convince i satanisti a non bere sangue di vergine e a mangiare più frutta - fino a Giada Osmi compagna di Neve e occasionalmente gatto nero gigante.
Un romanzo che così descritto sembrerebbe semplicemente un divertente pastiche surrealista con qualche accenno di impegno politico antiberlusconiano. Il romanzo di Bosonetto è invece molto di più. Vi sono infatti presenti trame e sottotrame: dalla difficoltà ad entrare nella cosiddetta intellighenzia di sinistra, all'opportunismo individuale e collettivo di questa nostra epoca, alla definizione della politica attuale (che non inizia e non si conclude solo con la figura di Silvio Berlusconi) tutta immagine e nessun contenuto, alla visione edulcorata e poi invece estremamente realistica di cosa sia il popolo.

Quando mi sono trovato a incontrarlo davvero, il popolo, a starci dentro come un pezzettino di popolo uguale agli altri, in strada, sugli autobus, negli ospedali, nelle file agli uffici pubblici, al mercato, sulle spiagge, nei bar affollati, nei negozi il sabato pomeriggio, a starci dentro senza la protezione di mia madre o di uno stipendio superiore alla media, mi sono accorto che era ben diverso da come me l'ero immaginato fantasticando di diventarne un eroico tribuno. Il popolo era brutto, cialtrone, prepotente, vigliacco, bugiardo, viscido, grasso, avido, falso, razzista, egoista fino al midollo, ladro, servile e terrorizzante. Il popolo era uno schifo.
Come tutti i romanzi "contenutistici" di valore, infine, anche in questo romanzo la storia ben si collega ad una ricerca linguistica innovativa, di ricerca ed estremamente raffinata. Da segnalare, in particolare, il continuo passaggio da un lessico popolare e vicino al parlato ad uno colto e complesso, con parole e proposizioni continuamente ripetute all'interno dello stesso periodo che stanno a simboleggiare ed evidenziare l'importanza di un concetto, ripetendo alcune definizioni o descrizioni come il ritornello di una filastrocca per bambini che rende il ritmo della storia e del realismo magico di Bosonetto ancora più appassionante.

Rodolfo Monacelli

La conversione di un irriducibile ateo

 
Ti conosco da sempre
La conversione di un irriducibile ateo
di Giuseppe Totaro

postfazione di Andrea Tornielli
MEF. L'Autore Libri Firenze, 2010

99 pp., 10 euro.

La storia della religione cristiana è fitta di conversioni. Una tra le prime, e tra le più eclatanti, è quella di Paolo di Tarso raccontata negli Atti degli Apostoli (At 9, 1-9). La chiamata divina agisce sul persecutore di cristiani in forma di rivelazione improvvisa e accecante:
«Or, mentre nel suo cammino si trovava già vicino a Damasco, all’improvviso rifulse intorno a lui una luce dal cielo. Caduto a terra, udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Egli rispose: “Chi sei, Signore?”. “Io sono, disse, Gesù che tu perseguiti”.»
Dopo tre giorni di cecità, il battesimo trasformerà Paolo nel grande apostolo missionario.

Questa citazione biblica esemplifica la dinamica che giace alla base delle grandi conversioni. La conversione è un evento, una rivelazione che travolge e innesca una trasformazione. Così è per Giuseppe Totaro, «ateo irriducibile, ostile, superbo e irriverente nei riguardi di Dio» che racconta la propria storia, la propria personalissima epifania. Dopo anni di rapporti alterni con la fede, un giorno d’aprile del 2002 l’autore trova, sulla scrivania del suo ufficio, il frammento di un crocifisso: questo avvenimento, all’apparenza insignificante, trasformerà la vita di Giuseppe. La piccola scheggia sarà capace di squarciare le solide certezze costruite nell’età adulta, riportando alla luce un nucleo di fede viva e dimenticata. Non a caso, la chiave della rivelazione è nella frase, sgorgata dall’interiorità: «Ti conosco da sempre».
La notissima parabola del seminatore (contenuta nei tre Vangeli sinottici) insegna che la parola – di più: la presenza – del divino può fiorire soltanto nel terreno che si apre ad accogliere il seme. Raccontandoci con lucidità la sua storia, Totaro intende dimostrarci un assunto fondamentale: anche chi è roccia, soprattutto chi è roccia può accogliere quel seme, farsi terreno fertile e accoglierlo confrontandosi coll’Altro da sé per eccellenza. La conversione, lungi da essere una passiva accettazione della grazia, è conquista esemplare: è la Verità a trovare l’uomo, ricorda Totaro con sant’Ambrogio, com’è vero che l’uomo si appropria della Verità sacrificando il proprio orgoglio.
Ma Ti conosco da sempre non è soltanto il racconto di una conversione attiva. Il libro contiene anche una parte saggistica, successiva a quella narrativa. L’autore, nell’intento di recuperare ideali evangelici – intento che a sua volta recupera il sogno di una cristianità pura condiviso da molti, dalle origini a oggi – propone, a conti fatti, un modello di umanità che possa conciliarsi con la società contemporanea. I temi sono vari e più che mai attuali: la famiglia, il matrimonio, la malattia, ma soprattutto il rapporto tra fede e intelletto, tra l’uomo e i propri limiti. Totaro non dimentica di essere stato un ateo, conservando il meglio del proprio passato: uno spirito critico, amante della dialettica e del confronto con le istituzioni. Con un linguaggio semplice, immediato e ricco di citazioni da voci note e acute (non soltanto bibliche, teologiche o agiografiche: hanno spazio in queste pagine anche Rousseau, Gaber, Kant, Platone, Seneca, Bobbio) Giuseppe Totaro ha creato un volumetto agile, che riesce perfettamente nell’obiettivo che si è prefissato: mostrare a un lettore, neutro e suo simile, cosa vuol dire (ri)scoprire Dio.

L. Ingallinella

I cani là fuori di Gianni Tetti


I cani là fuori
di Gianni Tetti

Neo. Edizioni, 2009
193 pp.


All’inizio questo libro mi ha irritato. L’ho trovato pretenzioso, scritto con un linguaggio che vorrebbe avere dell’avanguardista ma che mi è invece sembrato un semplice sfoggio di abilità scrittoria, l'ennesimo tentativo di uno scrittore esordiente di lanciare il proprio sasso nel già abbastanza bersagliato lago delle novità editoriali, per far  irradiare da esso quante più onde concentriche possibile. Mi è sembrato insomma, sulle prime, un libro con "molto fumo e poco arrosto".

Andando avanti con la lettura, invece, mi son dovuto ricredere. La raccolta di undici racconti di Gianni Tetti è un prodotto che, come altre pubblicazioni della casa editrice Neo, ha come filo conduttore l’essere fuori dal comune, lontano da canoni scritti e non della letteratura contemporanea, irriverente nei confronti del "bon ton culturale". Prende le distanze dal "politically correct", e mette al centro delle sue vicissitudini dei personaggi che si potrebbero definire “marginali”, ma la cui definizione esatta, a mio parere, è “emarginati”.
Reietti, straccioni, pazzi, deviati, criminali: sono questi gli archetipi che Tetti (sassarese, mio conterraneo, ma della parte opposta della Sardegna) pesca per i suoi racconti, elaborandoli e macinandoli con uno stile sincopato, concentrato e quasi isterico, a mio avviso, almeno apparentemente, piuttosto influenzato da Chuck Palahniuk, perlomeno nel ritmo del narrare.
Alcuni momenti sono davvero inquietanti: racconta di una Sassari (ma senza mai citarla esplicitamente, richiamandola unicamente per mezzo di dettagli) ritraendone un quadro della sua facciata più nera, periferica, squallida, abitata da zombi senza morale, deviati, falliti e balordi che raccontano le loro vicende riversando addosso al lettore tutta la loro meschinità. E così si passa dalla storia di un maniaco che osserva la sua amata dalla finestra della sua abitazione, a quella di un protettore di prostitute cinesi, a quella ancora di un paranoico che parla col proprio cane, e altre ancora.
Tutte le storie sono imperniate attorno a fatti criminali, spesso di sangue, che mettono maggiormente in luce la sordida natura dei protagonisti. I racconti, brevi e concisi, ricordano a volte quelli di Milano calibro 9 di Scerbanenco, con in più una vena “pulp” ancora più volutamente spinta, anche dal linguaggio frenetico e aggressivo che Tetti adopera.

Ribadisco, ma questa volta in senso positivo, il senso di irritazione che mi ha dato il libro: a volte infastidisce, alcune volte ho avuto la tentazione di lasciarlo per qualche tempo, ed è, a mio parere, un segno dello spessore delle trame che Tetti mette in atto sulla sua raccolta, tramite la quale “dà voce ad una fame impossibile da saziare. È la fame di un’umanità che non riesce a far tacere la propria parte selvaggia, animale”.
Derivativo, probabilmente pretenzioso, consiglio comunque di dargli una lettura. È un libro che probabilmente non vi lascerà indifferenti.

La Grande Storia. Pescara - Castellamare dalle origini al XX secolo

                       

La grande storia. Pescara - Castellamare dalle origini al XX secolo
di Licio di Biase
Edizioni TRACCE, 2010

pag. 616
euro 25,00



In questo romanzo lo storico Licio Di Biase ci prende per mano e ci accompagna in un viaggio.
Un viaggio nel tempo e nella storia di Pescara che ha inizio tremila anni fa.

Vi avverto è un viaggio lungo 613 pagine che si snoda in un percorso denso di storia, studio consapevole e impegnato e ricostruzione attendibile supportata da un’attenta ricerca archivistica ma in connubio con la passione imprescindibile per la propria città e desiderio di ribadire un sentimento di identità e senso di appartenenza che dovrebbero essere comuni ad ogni individuo.
E’ soprattutto un viaggio nella memoria che susciterà nei ragazzi di oggi e in quelli di ieri una rinnovata sensazione, di curiosità e scoperta per i primi, di grande nostalgia per i secondi.
Licio Di Biase con grande impegno e competenza e con uno stile narrativo degno de I pilastri della terra e Mondo senza fine di Ken Follett ha restituito alla città di Pescara quelle rughe che i ripetuti lifting le hanno stirato: l’unica tipologia di segni del tempo che, a mio avviso, non avrebbero bisogno di nessun intervento estetico.

Milano calibro 9 di Giorgio Scerbanenco

Milano calibro 9
di Giorgio Scerbanenco
Gli Elefanti Thriller

354 pp.


Il mio approccio con la raccolta di Scerbanenco non è stata immediatamente positiva. Più volte sono stato tentato di abbandonare la lettura della raccolta, vuoi per il linguaggio a volte troppo semplice, vuoi per le trame eccessivamente lineari, a volte quasi banali, con dei finali che talvolta interrompono il racconto in maniera secca, risultando quasi autoreferenziali e lasciando un po' l'amaro in bocca.

Eppure, c'è sempre stato un impulso a continuarne la lettura. E man mano che proseguivo nella raccolta, ho capito che effettivamente i ventidue racconti dello scrittore italo-ucraino possiedono uno spirito particolare che, al di là dello stile schietto, crudo e talvolta poco raffinato della scrittura, riescono a coinvolgere il lettore e a trascinarlo, anche per la loro schietta immediatezza, all'interno delle storie.

Storie che raccontano una Milano nera, marcia, avvolta dalla cupa ala della malavita; storie che hanno per protagonisti emarginati, criminali, balordi e persone coinvolte in fatti delittuosi che Scerbanenco svela lentamente con freddo distacco. Storie che hanno il loro teatro non solo nelle periferie malfamate e nelle zone losche, dove si annida prevalentemente la criminalità di strada, ma che si svolgono anche nelle zone benestanti, tra quei personaggi apparentemente "a posto", dipingendo quella faccia della "Milano da bere" che si cela dietro la maschera del benessere e del lusso. Ventidue racconti rapidi, schietti, che mirano dritti a mostrare agli occhi del lettore tutto il sudiciume, la miseria e la ferocia dei fatti criminali che in essi vengono raccontati.

La scrittura di Scerbanenco è una scrittura ruvida, ostica, che non lascia spazio agli ornamenti letterari e annulla bruscamente la distanza tra lettore e storia, facendo precipitare immediatamente il primo dentro la seconda. In tutti i racconti traspare una nera vena di cinismo, che insieme al linguaggio spesso poco raffinato da un tocco più umano allo stile dell'autore, tocco che contribuisce a rendere i suoi racconti fruibili in maniera immediata.

Non so se si tratta del libro giusto per cominciare a gustare questo autore, considerato da molti come il maestro del noir italiano, sicuramente si tratta di un libro da leggere per intero, e mandare giù come una sorsata del peggior liquore bevuto nel peggior bar del peggior sobborgo metropolitano. Molti probabilmente non incontreranno le iniziali perplessità che ho avuto io nella lettura di questa raccolta: si tratta senza dubbio di un ottimo esempio di letteratura noir, che tratteggia un ritratto di un mondo criminale che, per quanto possa risultare ai giorni nostri piuttosto datato, per molti suoi aspetti rimane ancora attualissimo.

Da vedere anche la trasposizione cinematografica di Fernando Di Leo, mirabile esempio di film poliziottesco anni '70, ispirato a uno dei racconti presenti nel libro.

Giuseppe

L'arte michelangiolesca nel romanzo di Francesca Sanvitale

L'inizio è in autunno
di Francesca Sanvitale
Einaudi, Torino 2008

€ 17.50
pp. 210

Una storia spesso nasce da un dettaglio, attorno cui si frastagliano le vicende, che spontaneamente dovrebbero poi moltiplicarsi, incunearsi, intrecciarsi, senza straripamenti o sfilacciature. Questo romanzo di Francesca Sanvitale, vincitore del Premio Viareggio nel 2008, è ispirato dallo scandalo del restauro della Cappella Sistina: a lavori  ormai conclusi nel 1994, si diffuse la notizia che l'intervento avrebbe forse compromesso per sempre la bellezza del Giudizio Universale michelangiolesco. 
La questione, successivamente insabbiata o smentita, è sedimentata nella memoria della scrittrice, che (come si legge in coda al romanzo) nel 2005 ha ripreso, sviluppato e romanzato la vicenda. Anche senza l'ammissione della Sanvitale, un lettore attento si sarebbe accorto che il nucleo centrale del romanzo è proprio il Giudizio universale di Michelangelo. Al cospetto alla sua potenza soverchiante, che genera pagine d'intensa descrizione e riflessione (specialmente al centro del libro), i personaggi sono minuscole sinopie senza colore.
La vicenda prende le mosse in settembre, in una Roma ancora deserta, minuziosamente descritta e, si deduce, amatissima dall'autrice. L'io-narrante Michele è uno psichiatra in crisi, che rivede in chiave problematica i tanti casi che ha risolto, in occasione della stesura di un manuale universitario. Divorziato e con una sorella che misconosce nonostante condividano la stessa casa, Michele cerca un punto fisso, una nuova "abitudine" che gli movimenti le ultime giornate d'estate. Elegge a luogo deputato un  ristorantino male illuminato e decadente vicino al centro, dove decide di tornare ogni sera. Ma non per il menù fisso: la sua attenzione è catturata da un cliente abituale, Hiroshi, per cui prova un'istintiva e irrazionale curiosità, mista a un'iniziale (solo iniziale)  impressione di rispecchiamento. Tra i due si stabilisce un'intesa, e subito Hiroshi trasporta Michele nel suo mondo: l'italo-giapponese è un importante restauratore, che vive con una bellissima moglie Karen e con Miriam, la sua ex moglie, nonché sorellastra di Karen. Ma non è solo il rapporto familiare stravagante ad affascinare Michele, quanto l'aura di mistero che riguarda i lavori di restauro della Cappella Sistina, a cui Hiroshi ha preso parte. Ogni volta che l'amico parla del Giudizio, accade un mutamento: Hiroshi è preso da continui malesseri, cui seguono reazioni isteriche e un nervosismo duraturo, intrecciati a un lampo di follia. Un misto di deformazione professionale e di curiosità morbosa porta Michele all'ossessione per il restauro del Giudizio, e le serate al tavolo con Hiroshi e la sua famiglia diventano un'appuntamento che polarizza tutti i pensieri dello psichiatra.
Ma si può osare un'ipotesi: questo incontro con Hiroshi e l'arte rompe la crosta della quotidianità apatica in cui Michele si era chiuso. E non sorprende che, in seguito, il protagonista si riscopra uomo, amante, amico, fratello e anche medico.

La storia, di per sé intrigante, non è però molto soddisfacente in fatto di narrazione: ci sono stacchi piuttosto violenti tra la vicenda di Michele e la descrizione (o dovremmo dire narrazione?) del Giudizio, come se la scrittrice svelasse (troppo apertamente) la precedenza data all'opera d'arte. Per non parlare del finale: continui flash temporali riassumono piuttosto noiosamente alcuni anni della vita di Michele, senza arrivare a una conclusione soddisfacente. Se l'inizio è in autunno, il finale è in un inverno di aporia narrativa.

GMG

Lolita: racconto di un esteta


Lolita
di Vladimir Nabokov
Adelphi Editore, 1996
pp. 395
€ 11,00

Prima edizione: 1955 (Olympia Press, Parigi)
Prima edizione italiana: 1959 (Mondadori, Milano - traduzione di Bruno Oddera)

Si perdonerà all’autore del presente commento se egli ripete ciò che ha già sottolineato nei suoi scritti e nelle sue conferenze, e cioè che il termine “scandaloso” è spesso soltanto sinonimo di “insolito” .
Così scriveva John Ray nella prefazione a Lolita di Vladimir Nabokov il 5 agosto 1955.
Lo scandalo avviene nel momento in cui un’immagine moralmente inaccettabile colpisce la coscienza. È moralmente inaccettabile ciò che non si conforma alle abituali rappresentazioni umane, dunque, ciò che è insolito.
Sicuramente insolito, nella disabitudine visiva, può definirsi il rapporto tra Humbert -cacciatore patrigno- e Dolores -dodicenne ninfetta- .
John Ray (pseudonimo di Nabokov) dichiarò di trovare il linguaggio dell’opera Lolita, pur nella sua sensualità, del tutto privo di parole triviali e termini osceni. Infatti, il forbito professor Humbert racconta se stesso e le sue perversioni con eleganza e poeticità, occulta le sue stranezze con continue immissioni di parentesi ed elementi criptici, disprezza la volgarità diffusa con ricorrenti locuzioni francesi e giochi di parole.
Dunque, cos’è che rende il distinto e discreto signor Humbert tanto spregevole? Cos’è che scandalizza?

Il pensiero.
Non sono le azioni a renderlo abietto, non le parole conferite a Lolita o ad altri, ma la sua mente dominata da inconsce perversioni. Sono i meccanismi psicologici, magnificamente descritti da Nabokov, a spaventare il lettore impaurito dall’incontrollabile.
È forse la contraddittorietà del dato a provocare nel gretto Humbert l’istinto sessuale, l’opposizione tra l’immagine ideale e semidivina della ninfetta e il dato reale della volgare Dolores. O, potrebbe semplicemente essere, l’idea immateriale del candore che provoca il suo opposto.
È insolita, dunque, la modalità di trattare il sesso, è squisita la raffinatezza delle immagini e la potenza del sentimento.

Lolita è una storia d’amore.
Un amore viscido, raccapricciante, egoista e distruttore.
Nabokov, pur mantenendo alta la sensualità nel romanzo, ha smorzato attraverso il linguaggio e l’organizzazione narrativa, i rampolli dell’azione. Il linguaggio è ironico, a volte misterioso e sinestetico con frequenti iterazioni e ricercatezza lessicale. La ripetizione della “l” liquida nel nome Lolita, richiama la sensualità dell’acqua, plasma l’immagine delle fresche e nude ninfe Nereidi dell’antica Grecia .
La diversità dei linguaggi (quello colto di Humbert, il gergo di Lolita e l’uso inappropriato di francesismi da parte di Charlotte) contrassegna la multilateralità del reale etichettando i tipi sociali.
Il romanzo indignò gran parte dell’opinione pubblica non per il modo di trattare la materia , ma per la materia stessa.
Nabokov scrive per raccontare, aspira alla voluttà estetica e giudica poco opportuna in letteratura, e in particolare nel suo libro, l’identificazione con i personaggi, la ricerca di una legge educativa o morale.
Un libro è quello che è senza significati metalinguistici.
In conclusione, a quanti si domandano il senso morale, Vladimir Nabokov dichiara nella postfazione del suo capolavoro (12 novembre 1956) che
Lolita non si porta dietro nessuna morale. Per me un'opera di narrativa esiste solo se mi procura voluttà estetica(…).
Chi ha il senso e il culto del bello sacrifica ad esso anche i valori morali.

Isabella Corrado

Il Salotto: Intervista a Giulio Leoni


Per la nostra rubrica "Il Salotto", Alessandra Paganardi ha incontrato Giulio Leoni, autore della Sequenza mirabile, recentemente recensito su CriticaLetteraria (clicca per leggere la recensione).

Dottor Leoni, sebbene la sua narrativa non sia certamente di facile e immediato consumo, la sua produzione è ormai nota anche al cosiddetto “grande pubblico”: tuttavia le domando, per utilità dei frequentatori del nostro blog, un piccolo sommario. L’ultimo libro, “La sequenza mirabile”, è uscito come sappiamo nell’estate del 2010. Può ricordare i libri precedenti, la data d’edizione e, almeno sommariamente, i vari intrecci?
Ho scritto quattro romanzi con Dante nella veste di investigatore: I delitti della medusa, I delitti del mosaico e I delitti della luce, ambientati a Firenze durante i priorato del poeta, e La crociata delle tenebre, ambientato a Roma durante la sua ambasceria alla corte di Bonifacio VIII. In tutti e quattro il poeta si misura con una serie di delitti misteriosi, legati a moventi politici, filosofici o religiosi. Oltre a questi ho scritto La donna sulla luna, un giallo ambientato a Berlino nel ’29, durante le riprese dell’omonimo film di Fritz Lang: in questo ho colto l’occasione per rendere omaggio a uno dei miei registi preferiti, nel quadro di un momento artistico e culturale straordinariamente interessante. In E trentuno con la morte la storia è ambientata a Fiume durante l’impresa dannunziana, in un quadro politico influenzato dal movimento futurista. La regola delle ombre, ambientato a Roma alla fine del ‘400, con Pico della Mirandola come protagonista, è stato un’occasione per esplorare i misteri del neoplatonismo rinascimentale. Ho poi scritto una trilogia centrata sulla misteriosa e perduta città di Anharra, eretta da un re folle che dialogava con i demoni, e alcuni romanzi d’avventura diretti a un pubblico più giovanile: Il deserto degli spettri, Il sepolcro di Gengis Khan e La ladra di Cagliostro, oltre a numerosi racconti apparsi in antologia.


Nelle dichiarazioni e interviste lei osserva spesso che la narrativa nasce da un mix fra realtà e immaginazione. Ma ciò che rende più interessante questo miscuglio, nella sua scrittura, è proprio la sospensione del giudizio (o meglio del pre-giudizio) sulla presunta dicotomia fra reale ed irreale. Alla fine trionfa il possibile, e spesso non c’è una soluzione a senso unico del mistero. Quale parte può giocare in questo speciale sguardo la famosa nottola hegeliana d’Atena, la formazione filosofica (che sembra voler chiarire tutto, ma forse denuncia i limiti della ragione chiarificatrice?).
Come ho spesso ripetuto, secondo me la funzione della narrativa non è quella di riprodurre la realtà, ma di “aggiungere” alla realtà elementi che prima non c’erano. A volte semplicemente correlando in maniera diversa elementi già noti, a volte ipotizzandone di nuovi.


Quali sono stati gli autori importanti per la sua formazione? Quanto ha pesato, oltre alla science fiction evidentemente molto amata, il cosiddetto “realismo magico” di un Buzzati e di altri?
Moltissimo. Io sono stato un appassionato lettore di Buzzati quando non ne parlava nessuno, e sono sempre stato attratto dal realismo magico in tutte le sue forme. Sarà perché il primo libro che ho letto non appena in grado di farlo è stato Le mille e una notte, il sense of wonder è quello che cerco sempre nelle mie letture e che cerco di trasmettere in quello che scrivo.


Come vive il suo rapporto con la scrittura? Non teme che diventare un autore di best-sellers possa modificarlo irrevocabilmente rispetto agli esordi, facendone un mestiere simile agli altri?
Se con best seller ti riferisci a me, la strada è ancora lunga! Per certi aspetti la scrittura “è” un mestiere: come diceva Rilke a proposito della poesia, il primo verso lo regalano gli dei, ma gli altri vengono dal tavolino. L’importante è non tradire mai quel primo verso, l’idea che ci affascina e che vorremmo trasformare in narrazione, senza seguire passivamente il presunto gusto del pubblico. Che, oltre tutto, è sempre imperscrutabile: la caccia al best seller è sempre infruttuosa.


Nei suoi romanzi, oltre ad una prosa particolarmente tersa ed elegante, si trovano scorci di vera e propria prosa poetica. Mi vengono in mente certi notturni e, uno per tutti, il capitolo finale della “Sequenza mirabile”. Oltre al suo ben noto interesse per la poesia del Duecento e per lo sperimentalismo, crede che la poesia possa esprimere ancora qualcosa d’autentico nella cultura di oggi?
Assolutamente, la poesia resta l’espressione più intensa di cui l’uomo dispone per interpretare il mondo e i il suo mistero. Bisogna tener conto però che i codici espressivi mutano nel tempo, e nell’ultimo secolo in maniera vorticosa. Oggi bisogna cercarla spesso in ambiti insospettabili: esistono per esempio tavole di Pratt o sequenze di videogiochi in cui la carica espressiva è talmente significativa da potersi giudicare a buon diritto poesia.


La sua narrativa è anche un esempio di quanto sia feconda per uno scrittore l’incursione nel mondo della scienza, nella fisica teorica in particolare. Che cosa suggerirebbe di leggere e di studiare ad un giovane che voglia dedicarsi attivamente alla scrittura?
La scrittura è un effetto, non una causa. Nasce dalla sensazione che in un campo che ci appassiona ci sia ancora qualcosa da dire: una storia non ancora narrata, un personaggio che non ha ancora nome. Per cui il primo passo è appunto coltivare una passione. In questo senso tutto è utile, basta seguire sempre i propri interessi, e narrare di quello che ci appassiona. Solo così si può sperare di coinvolgere il lettore in quello che scriviamo.


Qual è, secondo lei, un autore che valga la pena riscoprire, o che non sia stato sufficientemente valorizzato dalla critica?
È un esercizio triste e anche sterile. Ogni anno vengono pubblicati libri interessantissimi, che per qualche motivo scivolano via inosservati. Il mondo ahimè è ingiusto. Potrei citarti decine di nomi poco noti o del tutto ignorati, che invece costruiscono dei veri propri monumenti. Qualcuno conosce Edogawa Ranpo, il maestro giapponese del mystery? Per fortuna ci sono i lettori, che spesso fanno poi giustizia.

I suoi libri rivelano una propensione assai particolare per la satira, a volte con toni che sfiorano il surreale, o eventualmente l’iperreale. Spesso gli scorci sono rapidi e sapidi, come (sempre parlando della “Sequenza mirabile”) in particolare il quinto capitolo, sul quale non dico nulla, per lasciare intatta la curiosità del futuro lettore. Quanto hanno pesato e pesano nella sua cultura letteraria arti collaterali come il cinema e il fumetto? Quanto le produzioni di nicchia, come la satira e l’aforisma?

Moltissimo: io sono un grande appassionato sia di cinema che di fumetto: possiedo letteralmente migliaia di film e di fascicoli, che colleziono da quando ero giovanissimo. E passo ore a rivedere o a rileggere quelli che ritengo più belli.

Il rapporto con il mistero si trasferisce nella sua narrativa anche attraverso l’amore per l’esoterismo, l’astrologia e le scienze occulte. Passioni coltivate seriamente, che però vengono spesso calate nei personaggi in maniera giocosa. Può spiegarci brevemente, a grandi linee, il suo rapporto con le scienze del mistero?
Ho cominciato a interessarmi di esoterismo all’università, per via degli esami di filosofia del Rinascimento. Ne rimasi intrigato, perché non riuscivo a spiegarmi il perdurare nella nostra cultura di teorie e idee palesemente prive di fondamenti razionali. Solo dopo ho capito quella che credo una grande verità: sono le idee errate quelle che muovono la storia, per strano che possa sembrare.

Abbiamo esordito ricordando l’importanza che nella sua narrativa ha il possibile, inteso soprattutto come possibili cause e retroscena d’avvenimenti storici che crediamo a torto già tutti spiegati. Vorrei che mi aiutasse ad approfondire quest’interessante punto. Si ha spesso l’impressione che gli eventi storici possano essere sorti da cause diverse da quelle ritenute ufficiali, ma a questo dubbio si accede per caso, e con la sensazione di un vero e proprio labirinto mai dominato. E per ogni causa possibile c’è uno scenario a parte, che sovverte totalmente il quadro: una sorta di “ucronia” delle possibilità, o d’ermeneutica fantasmagorica. Tutto ciò, come lei stesso dichiara, serve ad illuminare e a confondere insieme. In ultima analisi, attraverso questa specie di luce intermittente, lei crede che la letteratura possa contribuire ad arricchire la nostra comprensione della storia, delle sue rimozioni, delle sue tragedie?
Io parto da una constatazione abbastanza elementare: sappiamo pochissimo del passato. Praticamente nulla di quanto avvenuto prima del 4-500 avanti Cristo, e poco e confusamente di quello che è venuto dopo. Quello di cui disponiamo è una manciata di documenti (spesso incerti o addirittura falsi) e poi un insieme di correlazioni. Tutta la nostra storiografia, come diceva Nietzsche, non è altro che interpretazione, soggetta agli umori e ai punti di vista del tempo che la esprime. Siamo convinti che Nerone fosse una specie di sadico, e Caligola un pazzo furioso. Ma basta correlare in modo diverso quei pochi elementi certi che si conoscono, per fornirne un ritratto completamente diverso: quello di due geniali innovatori, due sognatori in lotta contro un sistema di potere cristallizzato e corrotto. La narrativa in questo può assolvere un compito fondamentale: tenere acceso il dubbio, sconquassare le pigre certezze, rendere più vigile l’attenzione. e in definitiva fornirci una straordinaria chiave di interpretazione del mondo contemporaneo.

Intervista di Alessandra Paganardi

L' anima del mondo e il pensiero del cuore



L'anima del mondo e il pensiero del cuore
di James Hillman

Adelphi, Milano 2002
193 pp.
€ 12,00

Chi risusciterà l'anima del mondo?
Qualche decennio fa ci provò James Hillman. Lucido e accattivante, profetico e spregiudicato, portò alla ribalta la questione della psiche proponendo un'ottica totalizzante che, per una volta, non si rifaceva alla tradizione mistica orientale, ma recuperava paradigmi filosofici dell'Occidente forti e dalle alterne fortune, riconducibili, in origine, al grande sistema di Platone.
Adelphi ha raccolto e riproposto sotto il titolo L'anima del mondo e il pensiero del cuore tre saggi che furono già conferenze tenute da Hillman in Italia e Svizzera tra il 1973 e il 1982.
Questa volta, il paziente steso sul lettino clinico è la psicologia moderna in persona e l'analista è la filosofia o, meglio, una certa filosofia. In realtà, non vi è alcun ribaltamento dei ruoli, giacchè, alla base di ogni scienza sociale vi è sempre un substrato filosofico che riflette la coscienza (o l'incoscienza) dei tempi.
Il postulato che ricorre con una certa insistenza nei tre saggi in questione è il ritorno ad una visione neoplatonica del mondo, in cui a prevalere non siano il dualismo cartesiano o i separatismi della ragion pura kantiana, ma l'aisthesis nella sua accezione originaria: inspirazione del mondo, moto di meraviglia come risposta primaria all'impatto con la realtà che si dà a vedere. Ritornare all'immagine significherà allora restituire le cose (animate e inanimate) a se stesse, portandole alla luce in una fenomenologia che passa per l'uomo ma che non fa di esso il detentore esclusivo della donazione di senso.
Hillman ci parla della bellezza come di una necessità epistemologica, il modo stesso con cui l'anima mundi si manifesta e va conosciuta nella risposta estetica originaria.
La psicologia moderna, figlia della ragione illuministica, eredita gli sfavori del dualismo radicalizzato nella formula "soggetto-oggetto". Ne consegue un disinteresse verso la verità del mondo, mistificata dai sentimenti del soggetto che osserva e vuole in essi intrappolare le cose.
L'anima del mondo si rivela attraverso le immagini. L'immaginazione che risiede nel cuore umano è il comune denominatore del conoscere e dell'amare. Che cos'hanno da spartire tre figure del sapere quali Plotino, Vico e Ficino con Jung, figura eminente della psicanalisi?
Fare della conoscenza dell'anima la vera scienza ha reso i primi tre degli "psicologi del profondo" ante litteram e, malgrado le apparenti discrasie, l'elemento sostanziale che li apparenta a Jung è l'aver individuato come primario il pensiero per immagini, che le si chiami archetipi o caratteri poetici, immagini fantastiche o miti.
Tra i limiti di Jung, secondo Hillman, vi fu l'aver confuso la conoscenza estetica con l'estetismo edonistico separato dall'etica.
L'estetica concepita invece in chiave neoplatonica come pensiero del cuore, come epistemologia, ci assicura un rapporto col mondo in cui non esiste più un dominatore e un dominato, un soggetto nevrotico che si rapporta ad un deserto prevedibile e ripetitivo, programmato e controllato in tutti i suoi particolari. Importante precisare che Hillman non demonizza affatto il progresso tecnologico. Ciò che va riformato, secondo lui, è il riduzionismo che rinchiude l'anima del mondo entro gli angusti confini della coscienza soggettivistica.
Ecco dunque il benefico recupero dell'esempio neoplatonico e l'indispensabile rimozione degli opposti, l'attitudine primigenia del cuore alla ricezione di impressioni sempre nuove, un ritorno alle cose da cui l'anima del mondo traluce.

Lvxita

Siamo stati intervistati!

Quest'oggi sul blog "Poetarum Silva", Laura è stata intervistata e ha parlato di CriticaLetteraria.
Per leggere il testo dell'intervista, clicca qui.

Ringraziamo Riccardo Raimondo per la disponibilità e le belle domande, mai banali e molto attente alla dimensione di CriticaLetteraria.

Tutti i poveri devono morire


Tutti i poveri devono morire
di Giovanni Di Iacovo

Castelvecchi, 2010

Pp. 156
Euro 14,00


Se avete intenzione di leggere il libro di Giovanni Di Iacovo, vi consiglio caldamente di allacciare le cinture di sicurezza: si fa un giro su una 4th Dimensional Coaster.
Infatti, proprio come questa tipologia di montagne russe di nuovissima e costosissima generazione, la storia, come il treno, affronta un percorso denso di inversioni, e ruota su sé stessa portando il lettore a testa in giù.

Al centro del romanzo c’è la morte: analizzata, desiderata subita e inferta, ma soprattutto adorata, tanto da farne una ragione di vita dal “Cenacolo di Caino”, un’associazione che affonda le sue radici nel Medio Oriente dell’ottavo secolo e che ha come trait d’union tra i membri il sadico piacere di compiere ogni tipo di brutalità ed efferatezza. C’è una sola regola da rispettare: tutti i poveri devono morire.

Ecco il booktrailer del romanzo:

Il Salotto - Intervista a Claudio Morandini


Un incontro, seppur virtuale, con l'autore è necessario per completare il discorso sulla sua opera. Necessario, ma non sufficiente: la sua voce è destinata a incastrarsi con la vostra, con quella di coloro che hanno avuto la possibilità di entrare in una storia che, vera, verosimile o inventata che sia, mette inevitabilmente a nudo l'identità dello scrittore. Serve un coro di voci, una serie di micro-unità che siano in grado di dar vita alla recensione ultima.

Un'opera letta non è morta, necessita di un commento, di un confronto: non va consumata, va assimilata, fatta propria; che sia di un emergente, di Umberto Eco o Aldo Busi, ha poca importanza. Bisognerà pur lasciare spazio, dare fiducia, a chi potrebbe dare un contributo, seppur minimo, al mondo delle lettere.

L'intervista è uno tra i tanti passi, forse il più interessante: una volta conosciuto il presente e previsto il futuro, spetta all'autore svelare il passato del suo progetto. Rapsodia su un solo tema - Colloqui con Rafail Dvoinikov è frutto della mente di Claudio Morandini, che, raccontando dell'opera, ha inevitabilmente raccontato un po' di se stesso. Questo, il link alla recensione. Seguono le domande. Buona lettura!


1. Come è nata l'idea di dare voce a un personaggio come Rafail Dvoinikov? Ha avuto delle difficoltà nella stesura?
Dentro a Dvoinikov si sente l’eco delle parole, delle musiche e della vita di diversi compositori russi. Non è stato particolarmente difficile immaginare un uomo di genio ora vezzeggiato ora perseguitato, quindi isolato e dimenticato: la storia del Novecento ci ha consegnato, ahimè, numerosi esempi, e non solo nel campo della musica. Dvoinikov in particolare rimanda a figure drammatiche, grandiose anche nella loro ambiguità dinanzi al potere, come Shostakovich (uso per comodità la traslitterazione all’americana, come Prescott…); ma l’idea delle conversazioni mi è venuta molti anni fa nel leggere le trascrizioni dei colloqui tra Robert Craft e Stravinsky, un compositore molto diverso da Dvoinikov per scelte di vita, spirito, stile, ma simile per lo sguardo sul mondo, oltre che per la concezione artigianale e antiromantica del comporre.
In ogni caso, Dvoinikov, per fortuna, si è rivelato una figura potente, irriducibile a uno o più modelli di riferimento, molto – come dire – terragna, molto fisica. Il suo corpo malato e vecchio è davvero una presenza dominante nel romanzo, e sembra trasmettere un senso se non di agonia certo di fine imminente. E la sua musica, che ho provato a immaginare e a commentare sulla falsariga delle pagine di un trattato di musicologia (o meglio di un abbozzo di trattato), ha finito per alimentare la struttura stessa del romanzo: la Rapsodia su un solo tema da singola composizione è diventata non solo il titolo del libro, ma anche l’impianto.

2. Ha voluto lanciare un messaggio ben preciso con Rapsodia? Crede di esserci riuscito?
Non credo che un romanzo sia il luogo più adatto per lanciare messaggi – messaggi chiari, intendo, univoci, teoricamente solidi. Vedo piuttosto il romanzo come l’occasione per suggerire alcuni temi, per girarci attorno, soprattutto per raccontare come i personaggi si sono trovati di fronte a certe questioni sollevate nel corso della storia e comuni anche a noi. Facciamo l’esempio del tema che attraversa tutta la Rapsodia, quello del condizionamento dell’espressione artistica da parte di diverse forme di potere: non mi interessava che il libro entrasse nel merito con il rigore di un saggio (sospetto che non avrei avuto la forza di affrontare scientificamente l’argomento, e poi altri lo hanno già fatto, e bene), ma piuttosto che raccontasse le vite di quei musicisti che, in epoche e contesti storici e culturali diversi, si sono trovati ad affrontare i condizionamenti da parte di un’autorità; soprattutto, mi interessava raccontare la presa di coscienza del giovane americano, Ethan Prescott, la scoperta del fatto che i condizionamenti subiti da lui non sono poi tanto diversi, quanto a obiettivi, da quelli – assai più pressanti e rischiosi, certo – sopportati dal vecchio russo Dvoinikov.
Poi c’è dell’altro, quanto a possibili “messaggi”: per esempio, credo che il romanzo sia caratterizzato da un bisogno pressante di dialogo (la necessità di parlare, parlarsi, confrontarsi, misurarsi in relazione con gli altri); e che insista sulla necessità di trovare un maestro, un punto di riferimento “nobile” a cui ispirarsi, con cui fare i conti.


3. Si è affezionato a qualche personaggio in particolare?
Sì, e senza troppi scrupoli. D’altra parte i miei personaggi li ho visti formarsi e crescere nel corso di anni, li ho sentiti pensare, anzi ho condiviso i loro pensieri, ho immaginato le loro emozioni, mi sono sorpreso dinanzi a certe loro scelte, ho rispettato certi loro silenzi e certe insensatezze. Ho sorriso delle loro debolezze, delle piccole crudeltà che si stavano infliggendo e delle incomprensioni che non riuscivano a dipanare. Talvolta mi sono arrabbiato con loro.
C’è un fondo sentimentale, nel romanzo, da commedia sentimentale, intendo, che è venuto su quasi per conto suo, facendosi strada in mezzo alla componente più propriamente musicale o storica. Bene, mi sono detto, assecondiamo questo aspetto, è piacevole, divertente, commovente anche, irritante talvolta. Quello che ci vuole per far sentire la vita.
A Prescott ho prestato molti miei pensieri in fatto di musica, e quella visione ironica talvolta un po’ spiazzante, rivolta a tutto, anche a ciò che ama. Anche Dvoinikov ha molto del mio modo di vedere le cose, e non solo nei suoi momenti migliori.


4. «Rafail Dvoinikov sorprende: Claudio Morandini, autore di questa Rapsodia, ne fa un ritratto a tutto tondo, dinanzi al quale crollano tutti gli altri personaggi, Ethan Prescott compreso»: è d'accordo? Secondo lei, quale tra i protagonisti, non cede dinanzi a Rafail? Si rivede in qualcuno in particolare?
Mi sembra un’interpretazione convincente. Il vecchio Dvoinikov giganteggia, condiziona le vite di molti che gli sono devoti. È anche l’unico che abbia vissuto lungo l’arco di un secolo intero o quasi, e che abbia provato sulla propria pelle quello che gli altri conoscono soltanto per sentito dire. È un personaggio tragico, a modo suo, e non è un caso che si presenti come una sorta di Tiresia o Edipo. Prescott, in un certo senso, si reca presso di lui in pellegrinaggio, e vuole erigergli un monumento di carta.
Però è anche vero che quello che conosciamo in Rapsodia è il Rafail Dvoinikov ricostruito da Prescott. In questo senso lo sguardo di Prescott sembra prevaricare su ogni altro aspetto – è uno sguardo curioso e ironico, si diceva, sinceramente ammirato, ma anche irrimediabilmente accentratore, se non egocentrico. Si potrebbe sostenere, a questo punto, che il vero protagonista è Ethan Prescott, visto che tutto passa comunque attraverso il filtro del suo sguardo, del suo gusto, della sua “lettura”.

5. Inserire la relazione omosessuale tra Ethan e Carl è stata una scelta oppure una necessità?
Vediamo. Non c’è una ragione particolare alla base dell’omosessualità di Prescott. È gay e basta – un gay turbato e compiaciuto di fronte all’ipotesi di una avventura etero con Polina, l’assistente di Dvoinikov, d’accordo. Che sia gay, funziona anche nel gioco di contrapposizione con il vecchio Dvoinikov, che in gioventù, per propensione personale ma anche per disperazione, ha praticato un dongiovannismo da manuale di libertinaggio.
Ethan e Carl Thalberg formano una coppia unita da una buona dose di complicità, oltre che da amore e condivisione per molte cose. Qualcosa però non gira per il verso giusto nelle loro giornate, si sente aria di incomprensione, si intravede il rischio della routine. Lo stesso Carl ci appare un tantino sopra le righe (come cinquantenne, e soprattutto come musicista jazz vittima di stereotipi, non come gay), ma forse è solo la mania di Ethan di raccontare tutto ciò che gli capita come un frammento di letteratura, anche di cattiva letteratura, a forzare le cose, e a presentare insomma la vita di coppia come qualcosa di insidioso, come un battibecco continuo che sa di sit-com. Carl è migliore di come Ethan lo dipinge: ce ne accorgiamo alla fine, nella postfazione.


6. Le è riuscito facile realizzare gli intrecci che li coinvolgono? Ritiene di aver fatto, in questo senso, un lavoro banale?
Non mi sono posto il racconto della loro omosessualità come un “problema”: non è dramma, non è farsa (per carità), e nemmeno un “intreccio”, a ben pensarci. Raccontare una vita di coppia non è difficile, l’importante è evitare i luoghi comuni più frusti e non ridurre i personaggi a macchiette. Quanto alla banalità, cioè a quella quotidianità che profuma di déjà-vu e che ci vede tutti un po’ simili, bisogna saperla raccontare – in questo, credo di aver fatto un lavoro non banale.
Dietro alla relazione tra Ethan e Carl c’è anche qualche riferimento “colto”. Per esempio, sono sempre rimasto colpito dalla profonda armonia tra Britten e Peter Pears, avvertibile nelle incisioni e nei video. Quell’amore che sfociava in un’intesa musicale perfetta mi aveva convinto che raccontare qualcosa della vita di coppia di Ethan e Carl era una buona idea. Senza contare che i compositori statunitensi a cui bene o male mi sono ispirato per delineare la musica di Prescott vivono in piena serenità le loro inclinazioni. Certo, tra i miei due personaggi l’idillio sembra essere a un punto morto, ma tant’è.


7. Qual è il momento più riuscito della storia?
Mmm, mi vengono in mente subito le pagine dedicate alle composizioni di Dvoinikov, in particolare a quella che dà titolo al romanzo. Sono analisi in cui il linguaggio proprio della musicologia si contamina con uno stile più divulgativo e affascinante. Ethan Prescott, che nella finzione ne è l’autore, ha quella capacità (molto anglosassone, direi) di rendere accessibile la musica, rinunciando a qualche formalismo e ricorrendo a un repertorio suggestivo di immagini.
Però vorrei citare anche le parti in cui incombe la figura di Galavamov, il censore, il “cattivo” – e in cui proliferano i suoi sosia, gli informatori, i funzionari alle sue dipendenze. È stato motivo di inquietudine vederlo imporsi sugli altri prendendo spazio, generando ostacoli, perseguitando… Si tratta davvero di un “doppio” quasi gotico, di una presenza oscura, ma priva di ogni elemento di grandezza: è un livido mediocre dotato di un potere spropositato – ne vado fiero, insomma.
Però, però, vado anche particolarmente fiero del Viaggio musicale nel Secolo Ventesimo del musicista settecentesco Joseph Mathias Mayer. La facilità con cui mi sono venute quelle pagine tra Swift e Bergerac, e il divertimento che mi hanno recato, e che mi ha recato incastrarle con il resto delle vicende del romanzo, hanno del prodigioso. Capita così di rado…

8. Quello che le è piaciuto di meno?
Rispondo prima da autore a questa domanda singolarmente esplicita. Diciamo che ci sono momenti che mi hanno fatto penare di più, pagine sulle quali mi sono tormentato e angosciato perché non “suonavano” giuste. Spero di avere eliminato il problema eliminando quelle pagine, o trasformandole radicalmente – risposta elusiva, lo so.
Se dovessi parlare da lettore, invece, avrei preferito non vedere scomparire Polina in quel modo. Le ultime pagine di Ethan su di lei e le righe di Carl che la concernono sono davvero irritanti. Quella ragazza non si meritava un trattamento simile, dopo tutto quello che ha fatto. Ma non ho potuto farci niente, mi creda – Ethan e Carl, quando ci si mettono, sono davvero insopportabili.

9. Tre pregi e tre difetti di Rapsodia.
I pregi li enuncio come se fossero speranze, auspici:
    a. La leggerezza (l’ho cercata, per bilanciare la “pesantezza” dell’argomento; e, a detta di molti lettori, l’ho raggiunta);
    b. La contaminazione (è un romanzo che finge di essere un saggio; un’opera compiuta che finge di essere lasciata a metà; una commedia che finge di essere un romanzo storico… e potrei continuare);
    c. la coerenza dell’insieme (una coerenza ottenuta paradossalmente attraverso un divagare costante, un procedere per frammenti, e non programmata punto per punto, ma come scoperta alla fine).
Quanto ai difetti, intendo applicare la figura retorica della reticenza. Di fronte a una domanda così gli autori reagiscono in diversi modi: ad esempio, sperano di cavarsela ripetendo come difetti le qualità appena dette; oppure si concedono qualche boutade in cui non credono davvero. Io preferisco rispondere così: il romanzo è di per sé un ibrido che comprende e assimila anche il difetto, l’imperfezione, pure l’errore. Diffido dei romanzi che si presentano come perfetti meccanismi a orologeria, costruzioni impeccabili ma proprio per questo improbabili. Io volevo far sentire la vita, piuttosto, anche nei suoi tempi morti, nelle inerzie, nelle contraddizioni.
Che dopo tutti questi anni di stesura, le letture, le riletture, l’editing, siano rimaste alcune magagne è vero – ma dovete torturarmi, se volete che vi riveli qualcosa di più preciso in proposito.

10. Cosa si aspetta da Rapsodia? Crede di poter conquistare il lettore?
Lo spero. Il lettore va conquistato, in effetti, soprattutto quando si parla di libri che sembrano andare contro ogni moda corrente.
Con Rapsodia su un solo tema volevo innanzitutto condividere un forte interesse per la musica, e scommettere sulla mia capacità di coinvolgere i lettori proprio su un tema così settoriale come la musica colta del Novecento. I primi lettori del romanzo, prima ancora della pubblicazione (mia moglie, gli amici che hanno avuto la pazienza di sottoporsi all’esame del romanzo quando ancora era steso sommariamente), sono stati piuttosto incoraggianti. L’editore Manni per fortuna ha accettato questa scommessa, e ha creduto nella godibilità di Rapsodia.
I lettori successivi hanno confermato: i musicisti si sono divertiti nel riconoscere molti loro tic e hanno apprezzato la competenza; gli ignari di musica hanno retto piuttosto bene fino alla fine.

11. Che progetti ha per il futuro? È già al lavoro con qualche altro scritto?
Ho cominciato a scrivere Rapsodia su un solo tema nel 2005, quando ancora stavo dietro a Le larve – è stato un sollievo, un grande sollievo, mi creda, risalire in superficie e stare un po’ al sole. Questo per dire che sì, sto portando avanti più progetti contemporaneamente – alcuni sono in lettura, vediamo che succede. Romanzi, sempre, molto diversi – amo la forma del romanzo, c’è ancora molto da lavorare lì dentro, c’è ancora tanto da dire, da mostrare e da nascondere. Ma ho preso gusto anche con i racconti, che vivo con sollievo, come piccole vacanze dalle fatiche delle forme più ampie (so che chi scrive racconti non dovrebbe esprimersi in questi termini, ma pazienza).

12. Che consiglio darebbe a un emergente? Cosa non dovrebbe mai mancare in un libro, quali potrebbero essere gli errori più gravi?
Non mi sentirei di dare dei consigli, perché anch’io ho ancora molto da scoprire, e perché la categoria dell’autore emergente è molto flou, e temo, per certi versi, di esserci ancora dentro. Ma stiamo al gioco:
   a. Staccarsi da se stessi, evitare l’autobiografia, difficilissima da gestire (solo i grandi sanno fare della propria vita un soggetto universale, meglio farsi le ossa con altro);
    b. Evitare le mode, e coltivare sempre un’idea di pubblico “alta”; soprattutto, non pensare in termini cinematografici, o peggio televisivi: la letteratura è altro dal cinema, e dal mio punto di vista è decisamente meglio;
    c. Leggere i grandi autori e non smettere di imparare; porsi nella condizione dell’allievo (un po’ alla Prescott); non avere fretta; non smettere di mettersi in discussione;
    d. Imparare a togliere, a sottrarre; allo stesso tempo, non rinunciare alla ricchezza della lingua.
Tutto questo non farà di un emergente un autore di successo, ma almeno lo renderà un rispettabile autore di nicchia. Accettare le osservazioni altrui è fondamentale: scrivere è anche un esercizio di umiltà. È tutt’altro che un atto solitario; se si vuole pubblicare (cioè condividere, attraverso la pubblicazione, qualcosa che si ha a cuore), soprattutto quando la materia è vasta e intricata come quella di un romanzo, i consigli e le critiche sono essenziali, anche se non sono mai indolori.

13. Perché un lettore dovrebbe comprare Rapsodia?
Credo che sia un romanzo che ripaga, in termini di interesse, divertimento, conoscenza, della pazienza che richiede in certe pagine. Bisogna stare al gioco, semplicemente.


Intervista di Michele Rainone a Claudio Morandini