Scrittori in ascolto: Raffaele La Capria a Pavia

Gianfranca Lavezzi incontra Raffaele La Capria
Pavia (Aula Magna dell'Università), 28 ottobre 2010 - h. 17.30
"A cuore aperto. Dal momento della sofferenza al tempo della memoria"
Presentazione di Marco Galandra.
Lettura di Zelinda Gasparini. 

Nella cornice ufficiale e maestosa dell'Aula Magna, lo scorso giovedì Gianfranca Lavezzi, docente di Letteratura italiana presso l'ateneo pavese, ha incontrato una delle voci più autorevoli della scrittura italiana: l'ottantottenne partenopeo Raffaele La Capria. Con questo appuntamento d'eccezione è stata così aperta la nona edizione della rassegna culturale "Quattro chiacchiere con...", organizzata annualmente dalla Biblioteca Civica C. Bonetta di Pavia.

Dopo una breve introduzione di Marco Galandra, Assessore delle Biblioteche Civiche del Comune di Pavia, si è presto entrati nel vivo dell'evento, con un'esaustiva e brillante presentazione bio-bibliografica dell'autore da parte di Gianfranca Lavezzi. Sono stanti rievocati il trasferimento nel  1932 nel palazzo secentesco Donna Anna a pochi passi dal mare campano, dove sono nate tante suggestioni; la laurea in giurisprudenza; il successivo spostamento a Roma (1950) per il lavoro di sceneggiatore per la RAI; infine, la vittoria del Premio Campiello alla carriera e del Premio Chiara (sempre alla carriera) rispettivamente nel 2001 e nel 2002. 
Si è poi parlato dell'opera di La Capria, che si può considerare come un work in progress, un esordio continuo e un ripensamento incessante di quanto scritto, come se a ogni romanzo lo scrittore ricominciasse daccapo. Si pensi ai Tre romanzi di una giornata, raccolti nel 1982, in cui ogni storia affronta il tema di un'identità che si sfalda, senza che si compia una vera e propria narrazione in senso tradizionale. O ancora, nel 1979 sono usciti i brevissimi racconti dei Fiori giapponesi, opera delicata e originale che si colloca in un anno memorabile per la sperimentazione letteraria italiana (si pensi a Se una notte d'inverno un viaggiatore di Calvino e a Centuria di Manganelli). 
Si è anche citato l'acclamato La neve del Vesuvio, definito dall'autore «il mio libro più autobiografico», che risente dell'ammirazione di La Capria per Parise. 
Una carrellata rapida ma puntuale, tra citazioni di interviste e di brani dei libri di La Capria, ha portato alle esperienze più recenti, tra cui ricordo almeno L'amorosa inchiesta (2006) e la favola Colapesce (2008).

S'è giunti così a parlare del libro presentato nell'evento, A cuore aperto, pubblicato nel 2009 per la torinese Einaudi. Il titolo rimanda a un duplice significato: da un lato, si riferisce all'operazione di cuore subita da La Capria ottantatreenne; dall'altro, allude a uno stile di scrittura senza diaframmi tra la pagina e il lettore. Quest'opera autobiografica (come tutti i libri dell'autore) può essere riassunta con la volontà di raccontare «una bella giornata strappata al maltempo», raccontando senza cupezza della morte, e mescolando l'ossimorico binomio di leggerezza e profondità di calviniana memoria (l'autore si raccomanda spesso: «sii profondamente superficiale»). Di questo La Capria parla nel suo Lo stile dell'anatra (2001): il nuoto dell'anatra è apparentemente facile, visto dall'esterno, ma sottacqua le zampe fanno una grande fatica; allo stesso modo, lo scrittore deve compere una grande fatica, da tenersi sempre celata. Non senza polemica, La Capria ha rilevato come invece in molti scrittori contemporanei si noti soprattutto la fatica.

Dopo la lettura di un'estratto del libro, ad opera di una commossa Zelinda Gasparini (donatrice di voce A.DO.V),  la parola è quindi passata all'autore, che ha subito ringraziato, con una galanteria ormai infrequente, Gianfranca Lavezzi e Zelinda Gasparini per aver saputo capire e leggere correttamente la sua opera. E così ha avuto inizio una lunga e appassionata ora di monologo dell'autore, che ha parlato liberamente (solo pochi appunti su foglietti volanti) della propria opera e, in particolare, della sua concezione di scrittore. Lontano dai concettualismi degradati di massa, come ha più volte ripetuto La Capria, lo scrittore deve anzitutto far partire il proprio racconto da un'emozione vissuta; tuttavia, occorre scrivere a mente fredda, quando l'emozione è ormai passata e la si può fingere sulla carta, permettendo così ai lettori di riviverla, secondo un'idea comune a tanti, tra cui Pessoa. Così potremmo riassumere l'obiettivo di tutti i suoi libri nel desiderio di trasmettere un'emozione

Inoltre, La Capria ha anche confermato la profonda ispirazione autobiografica che muove tutte le  sue opere, a cominciare da un tema-chiave ricorrente: è il mito della bella giornata, intesa come una promessa di felicità garantita dal geroglifico di luce che si proiettava nelle mattine assolate sul muro della sua camera da bambino. Così i romanzi vivono spesso di ricordi, ma nascono anche da una logica elementare e da  un movimento d'idee: non ci sono veri e propri personaggi, né fatti eclatanti, ma un compiaciuto e inevitabile «parlare di sé parlando d'altro», lasciando i pensieri a sciogliersi sulla carta, anche sfuggendo all'attenzione del raziocigno, dal momento che «un vero libro in certi momenti si scrive da solo».

Gloria M. Ghioni 

Come l'acqua di fiume

Come l'acqua di fiume
di Elisabetta Raviola

Il Filo Editore, 2010
Collana "Domna, nuove voci".
pp.156
€14,50

E' la prima volta che mi capita di ricevere un omaggio da un autore emergente. Elisabetta Raviola l'ha fatto ed è stata una bella sorpresa. Corredato al libro ho trovato anche una lettera di presentazione e di ringraziamento, la dedica nelle prime pagine del suo romanzo e l'augurio di vivere belle emozioni, viaggiando con l'autrice in Egitto.

Egitto. Snodo cruciale in cui si realizza la vicenda.

La trama. Lia, trentaseienne alla ricerca di risposte, dopo l'ennesima delusione d'amore, si lancia in una nuova avventura lavorativa. E' letterata, amante della storia, dell'archeologia. La terra dei Faraoni l'aspetta con un nuovo lavoro e un nuovo incontro sentimentale. Uno di quegli incontri dalla brevissima durata, ma capaci di cambiarti la vita, di metterti in crisi, di far sgorgare delle domande e, al tempo stesso, delle risposte. Il destino, i casi della vita, i valori, i rapporti umani e familiari: come acqua di fiume, scorrono dolci e delicati nelle pagine di questo libro.
Quando l'autrice dipinge la famiglia della protagonista, la pennellata è sognante. Rimane impressa la figura di questa madre fragile e forte, silenziosa eppure intensa. Capace d'amare e di reagire al lutto con molta, molta bravura, quasi ai limiti della naturalezza. Il mondo di Lia è popolato da personaggi di questo genere. 
E' quasi una carezza, questo romanzo. 

Lo stile. Elisabetta Raviola adotta uno stile semplice e curato. Il ritmo è scorrevole. 
Manca, talvolta, l'approfondimento psicologico dei personaggi e l'amplificazione della situazione, dei profumi, la diversificazione degli elementi che compongono un paesaggio (una pianta può avere diverse sfumature, appartenere a varie specie, avere frutti o spine, foglie o fiori e via dicendo). I capitoli sono brevi, così come le frasi e questo permette una lettura spedita. Interessante l'uso di elementi caratterizzanti nel parlato, come alcuni dialettismi. Reale la comunicazione bambino-adulto.

Suggerimenti e considerazioni. Il viaggio dell'eroe all'interno di sé stesso e della vita è tema affascinante. Potenzialmente ricco, profondo ed esaltante. 
Consiglio all'autrice, in futuro, di dare maggiore spazio a questo viaggio che preclude il cambiamento, mettendo in difficoltà il personaggio principale, portandolo a crescere attraverso le difficoltà. 
Talvolta Lia appare come una foglia sospinta dal vento, poco protagonista della sua vita. 
Si interroga poco sul perché ha difficoltà nell'intrattenere una relazione con gli uomini, sui suoi atteggiamenti. Ha realizzato i suoi sogni, Lia? Li ha realizzato fino in fondo? Da cosa nasce la sua felicità futura? Dall'incontro preciso e puntuale con quel destino che mai aveva dimenticato? E perché "quel destino" è stato così importante? Che cosa di quel parlare al chiaro di luna l'ha così profondamente colpita da segnare la sua esistenza a tal punto? 
Lia, come ogni futuro personaggio che uscirà dalla penna di quest'autrice emergente in gamba, garbata e delicata, è in potenza un mondo. Consiglio all'autrice di non temere d'indagare i reconditi della sua protagonista, di metterle i bastoni fra le ruote, di farla inciampare. 
Secondo me anche questi strumenti potrebbero risultare utili per rendere  ricchi i dipinti pennellati dal cuore di questa scrittrice.

Il desiderio è donna: La ragione dei sensi di Grazia Scanavini


La ragione dei sensi
di Grazia Scanavini

RL Gruppo Editoriale, 2010
Collana Erosà Pizzo Nero

pp.112, euro 11,90


Lo ammetto. L'erotismo esplicito e senza pudori di questo romanzo, a prima vista, mi ha un po' spaventato. Sarà che, date le particolari circostanze in cui mi trovo, la mia vita attuale è casta come quella di Madre Teresa di Calcutta. Sarà che al momento la mia fantasia più ardita consiste nell'immaginarmi accanto ad un ideale Principe Azzurro che mi tiene per mano contemplando insieme a me un bellissimo tramonto. Fatto sta che, leggendo, sono pudicamente arrossita.
La seconda delle mie perplessità riguarda la protagonista del libro, Anna. Anna è bellissima, molto sexy, intelligente, abile nel suo lavoro. E' una mamma affettuosa e una moglie innamorata, piena di attenzioni verso il marito. Ha tantissime qualità, forse troppe. Ecco, è questo il punto: in tutta la mia vita non credo di aver mai conosciuto una donna così.
Riflettendo bene, tuttavia, ho capito che colei che vive una "fiaba erotica moderna"- questa la mia personale definizione de La ragione dei sensi- non può che avere queste caratteristiche. Deve essere una donna completamente appagata, almeno all'apparenza, che trova dentro di sè la spinta verso la curiosità, la trasgressione. Che si lascia andare fino a seguire i propri desideri più reconditi, senza più maschere, senza tabù e condizionamenti.
Anna, dunque, dicevamo, è una donna splendida. Ha un marito affettuoso e appassionato, un bel bambino, un lavoro che le dà l'opportunità di viaggiare molto. Con un "leggerissimo" moto d'invidia mi verrebbe da chiederle: "Anna, ma cosa vuoi di più dalla vita? Un Lucano?"
Sì, Anna vuole di più, e lo scopre all'improvviso. Incuriosita da un messaggio di posta elettronica, la risposta ad un annuncio, la giovane inizia una relazione virtuale con Stefano, un musicista stanco del suo matrimonio. Le mail diverranno sempre più infuocate, i messaggi sempre più traboccanti di passione. I loro corpi non si incontrano realmente, ma solo nella fantasia, una fantasia eccitante e coinvolgente che diventa come una droga per Anna.
Il linguaggio della Scanavini è fluido, la lettura scorrevole. Le descrizioni degli incontri sognati sono colme di avvolgente erotismo, che si fa esplicito e schietto proprio perchè schietto e sincero è l'atteggiamento di Anna verso se stessa: vuole seguire l'onda del suo desiderio, senza nascondersi. Vuole vivere liberamente la sua sessualità.
Stefano, al contrario, dopo qualche tempo cercherà di razionalizzare il rapporto con Anna e farà un passo indietro. Il suo allontanamento porterà la donna ad indirizzare il forte desiderio di sensualità verso qualcosa di più concreto, di reale. Anna seguirà il suo istinto, la sua prorompente femminilità: in lei l'unica ragione a parlare è, appunto, "la ragione dei sensi".
La relazione virtuale descritta nel romanzo rispecchia la modernità della realtà odierna, in cui la comunicazione si svolge ormai prevalentemente attraverso Internet. I messaggi di Anna e Stefano sono fiumi impetuosi di parole appassionate digitate furtivamente sulla tastiera, che uniscono i due "amanti" anche quando si trovano a migliaia di chilometri l'uno dall'altra.
Questo accade quotidianamente. L'erotismo viaggia attraverso i fili, si insinua nella vita apparentemente tranquilla e limpida delle persone nutrendo il loro immaginario. Personalmente ritengo che se questo accade, se i coniugi si tradiscono anche solo virtualmente, se si vuole evadere e trasgredire, ci deve essere un motivo, un'insoddisfazione generale più o meno sotterranea.
Tornando al romanzo in questione, mi è sembrato di capire che l'autrice ci mostri una donna alla ricerca del suo istinto, della parte più intima di sè. Secondo il mio modesto parere, forse questo punto poteva essere un pochino più approfondito. Io, da fissata con l'introspezione quale sono, avrei viaggiato volentieri più a fondo nella psiche di Anna, nel suo passato, nei suoi ricordi, cercando una motivazione per i suoi comportamenti.
Una cosa però l'ho capita: Anna non mi somiglia. O meglio, io non assomiglio a lei. Un po' mi dispiace. Magari avessi il suo fisico, e la sua carica sensuale. Ma è una partita persa in partenza: l'unica cosa che riesce a tentarmi, in questo momento, è una fetta di torta al cioccolato.

Irene Pazzaglia

Dante moderno: tensione spirituale ne La Divina Commedia

L’amor che move il sole e l’altre stelle” – l’unica vera prospettiva che permette una analisi relativamente approfondita dell’opera del Sommo Poeta. Le parole chiave di questa indagine letteraria non sono mai troppe: non è un caso se la Divina Commedia fa da paradigma di tutta un’epoca, quella medioevale. Da Boccaccio, con le sue Esposizioni, a Umberto Saba, con Scorciatoie e raccontini, tra l’altro, sono tanti coloro che si sono cimentati nell’impresa di raccontare Dante. E ci son riusciti, chi più, chi meno.
Unico paradigma, dunque, quello divino: la tensione spirituale, il rapporto conflittuale tra cielo e terra, l’irrefrenabile ascesi dello spirito caratterizzano, seppur in modo differente, le tre cantiche, l’Inferno, il Purgatorio e il Paradiso. L’immensa fortuna della prima – di alcuni canti, in particolare – ne testimonia la modernità: Paolo e Francesca, in primis. Il V canto, uno tra i più rievocati non solo dai nostri scrittori romantici, è l’emblema di questa continua tensione: Dante è commosso dal racconto di Francesca, la spinge a proseguire, ci regala uno tra i momenti più intensi di tutto il poema:
Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.
Amor, ch’a nullo amato amar perdona,
mi prese del costui piacer sì forte,
che, come vedi, ancor non m’abbandona.
[…]
Quando leggemmo il disïato riso
esser basciato da cotanto amante,
questi, che mai da me non fia diviso,
la bocca mi basciò tutto tremante.
Saba tributa grandi onori al canto, facendo riferimento al verso messo in rilievo nel testo, tanto da definirlo uno tra i momenti amorosi più significativi di tutta la letteratura italiana: un momento fatto non solo d’amore, ma anche di passione; quella passione che è uno dei due estremi della predetta tensione dello spirito. Dante si commuove dinanzi al racconto di Francesca, cade “come corpo morto cade”, eppure la storia dei due amanti nutre l’Inferno, non il Paradiso.
La tensione spirituale trova il suo secondo estremo: la virtù. L’Alighieri va oltre i canoni dell’amor cortese, prende le distanze da Cavalcanti: l’amore proposto ha nella virtù, e non nella passione, il suo presupposto. Non tanto nell’obiettivo di Dante, quindi, quanto nel conflitto tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere, sta la sua infinita modernità. E non è dir poco per un Trecentista.
Soccombe dinanzi alla virtù tutta una serie di personaggi, Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena, Achille, Paride, Tristano, e, in altri canti, Ulisse, “ch’ebbe a divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore”, e persino Cavalcanti, grande amico del poeta, citato nella Vita Nuova e ufficialmente abbandonato nel canto X dell’Inferno. L’abbandono è emblematico: Dante parla con il padre, un eretico, Cavalcante de’ Cavalcanti. La rottura dell’affetto intellettuale è affidata ai versi 57-63:
e poi che ‘l sospecciar fu tutto spento,
piangendo disse:
«mio figlio dov’è? E perché non è teco?»
E io a lui:
«Da me stesso non vegno:
colui ch’attende là, per qui mi mena

forse cui Guido vostro ebbe a disdegno
».
Il poeta rompe con il canone amore-passione, caro a Guido, che tanto “ebbe a disdegno” Colui che conduce il poeta per i cerchi del mondo infernale. La stessa tensione Dante riserva a Virgilio, in uno dei momenti più toccanti di tutto il poema, quando arriva per il fiorentino il momento di abbandonare “colui da cu’tolse lo bello stilo che l’ha fatto onore”. Virgilio, maestro, guida e luce del poeta, lascia il posto a Beatrice: per lui, le porte del Paradiso non si apriranno. Dante dà uno sguardo al passato, piange, ma subito lascia agire la sua amata, figura angelica – e non terrena – che lo invita a proseguire, lo rimprovera degli sbagli commessi, lo spinge a pentirsi:
così dentro una nuvola di fiori
che da le mani angeliche saliva
e ricadeva in giù dentro e di fori,
sovra candido vel cinta d’uliva
donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva.
[…]
Tosto che ne la vista mi percosse
l’alta virtù che già m’avea trafitto
prima ch’io fuor di püerizia fosse,
volsimi a la sinistra col respitto
col quale il fantolin corre a la mamma
quando ha paura o quando elli è afflitto,
per dicere a Virgilio
[…]
Ma Virgilio n’avea lasciati scemi di sé,
Virgilio dolcissimo patre,
Virgilio a cui per mia salute die’mi;
né quantunque perdeo l’antica matre,
valse a le guance nette di rugiada
che, lacrimando, non tornasser atre.
«Dante, perché Virgilio se ne vada,
non pianger anco, non pianger ancora;

ché pianger ti conven per altra spada».
C’è spazio, insomma, per una amicizia, quell’affetto intellettuale che ha spinto Dante a porre Virgilio come sua guida nell’Inferno e nel Purgatorio (senza tralasciare i motivi letterari di tale scelta: nell’Eneide, Virgilio affronta il viaggio nell’oltretomba), ma tutto si riduce dinanzi all’“amor che move il sole e l’altre stelle”, dinanzi a Colui che è meta di tutto il viaggio, e che rappresenta l’indicibile: il XXXIII canto del Paradiso, l’ultimo di tutta l’opera dantesca, suggella il percorso intrapreso.
Dante non riesce a tradurre in versi la visione di Dio, tutto potrebbe risolversi in un paradossale non-sense, ma così non avviene, anzi in quella non-dicibilità c’è tutto il senso della Commedia, che, sin dai primi momenti del Purgatorio, manifesta tratti di ineffabilità, ancor più decisi nel primo canto del Paradiso:
Nel ciel che più de la sua luce prende
fu’ io, e vidi cose che ridire
né sa né può chi di là sù discende;
perché appressando al suo disire,
nostro intelletto si profonda tanto,
che dietro la memoria non può ire.
Il percorso, insomma, è compiuto: la preghiera di San Bernando alla Vergine anticipa quella visione verso la quale tende tutto il poema, una visione così splendida, così perfetta, e non più perfettibile, da divenire indescrivibile, inafferrabile, non riproducibile, neanche mentalmente:
Qual è ‘l geomètra che tutto s’affige
per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond’elli indige,
tal era io a quella vista nova:
veder voleva come si convenne
l’imago al cerchio e come vi s’indova;
ma non eran da ciò le proprie penne:
se non che la mia mente fu percossa
da un fulgore in che sua voglia venne.
A l’alta fantasia qui mancò possa;
ma già volgeva il mio disio e ‘l velle,
sì come rota ch’igualmente è mossa,
l’amor che move il sole e l’altre stelle.
L’amore e l’amicizia, dunque, trovano una giusta collocazione nella Commedia – non per niente, il Purgatorio, attraverso il quale Dante ricorda i suoi fratelli, è la cantica dell’amicizia – ne rappresentano gli aspetti fondamentali, ma non esclusivi.
Eppure, tutto fa parte di un disegno ancora più grande, che ogni canto man mano colora, tra tinte piene e sfumature: tutto tende all’infinito, alla virtù che non è solo salvezza. La modernità non sta in questo, chiaramente. Proporre la beatitudine come chiave di lettura moderna è fuorviante, risulta arbitrario e insensato.
È nei contrasti, nella disarmonia, nei moti dello spirito, che si delinea tutta la modernità del poeta. L’immensa fortuna che ha avuto l’Inferno nel Romanticismo, l’attenzione riservata ad alcuni canti, solo accennati sino ad adesso, ne sono la più chiara testimonianza. La Divina Commedia come paradigma moderno, e non solo medioevale, non suona più, dunque, come strana utopia.

Michele Rainone

La festa degli oggetti


nottetempo e le biblioteche di Roma ti invitano a
LA FESTA DEGLI OGGETTI
cambia la tua vita con un oggetto

dal libro di Eleonora Sottili "ll futuro è nella plastica"

Giovedì 28 ottobre, ore 19,30
Caffè letterario, via Ostiense, 95 - Roma

Incarta un oggetto che ti somiglia e portalo con te. Durante la serata scegli la persona con cui scambiarlo. Le prime 5 coppie riceveranno in omaggio un drink e un libro.

Letture di Eleonora Sottili, Antonella Lattanzi e Matteo Nucci

"Avrebbero potuto conoscersi, innamorarsi, cenare insieme, uccidersi, tradirsi, ignorarsi, diffidare, dimenticarsi. Fare una qualsiasi delle possibili cose che le persone fanno quando si incontrano. Ci sarebbero state delle conseguenze"

Il mistero di una narrazione accattivante: Il giorno della Iena

Il giorno della Iena
di Stefano Lorefice 
Eumeswil, Broni 2010

pp. 142
€ 15,00

Il giorno della Iena è un libro irriassumibile, difficilmente afferibilie a un  unico genere, altrettanto complesso da commentare. Tuttavia, è così facile e piacevole alla lettura che non posso dispensarmi dallo spendervi qualche parola. 
Il libro - per le sue componenti ibride non parlerò di romanzo - è fondato su un mistero che parrebbe indirizzare verso il thriller o il poliziesco, ma concretamente le microstorie racchiudono molte altre sfaccettature, che vanno dal drammatico al sentimentale, dal trash al noir. Tutti i capitoli sono intitolati con il nome dei personaggi (o il loro ruolo sociale) e una notazione cronologica tra parentesi, che fa riferimento a un fatto di cronaca X che potremmo riassumere con la citazione che compare in quarta di copertina:  
la pistola, lei, l'ho puntata su di me, tu sorridi che sicuramente non ne ho il coraggio e mi chiedi come andrà oggi.
I capitoli sembrerebbero rapportarsi strettamente a questo, che crederemmo un evento fondamentale ai fini della narrazione. Bene, non è così: il fatto X è un mero pretesto letterario, costruito per raccordare le varie storie, tra loro molto variegate, che vivrebbero benissimo anche autonomamente; così come i personaggi, tra loro diversissimi. Queste eterogeneità portano ad accostamenti antitetici, che volutamente provocano stridori e fastidi. Oltre che a livello semantico, queste dissonanze (mai stonature) si esplicitano nello stile, cui Stefano Lorefice dà estrema importanza: la caratterizzazione dei personaggi passa sempre attraverso le loro parole (perlopiù ci troviamo davanti a io-narranti), i dialoghi e gli stereotipi della nostra società (si veda, ad esempio, la fastidiosissima ma purtroppo diffusa iterazione dell'intercalare "voglio dire" che entra prepotentemente in quasi tutti i periodi del capitolo "Fattore Lomo"). 
Se da un lato domina lo slang di un italiano regionale con prelievi dal gergo della malavita, dall'altro l'autore sa quando invertire il tono, e dare ai suoi personaggi un alone di inaspettato lirismo, come nel bellissimo capitolo "Sono stato neve", in cui il protagonista arriva a metafore che sfuggono da ogni banalità:
Vedi, sono le scene finali che rimangono impresse, prima potresti anche metterci un'unica sequenza di silenzio [...]. E' inutile, perfettamente inutile chiudere gli occhi, cercare di svegliarsi e riprovare la partenza. No. Non funziona così. Come con la neve fresca: il piede ce lo appoggi e affonda. Una sola volta. Se vuoi tornare indietro e lo vuoi fare senza lasciare impronte, devi ripercorrere i tuoi passi. E non sei più libero di calpestare, di affondare, di sentire che oltre a te, sotto, c'è qualcosa che cede. E ti senti intontito, perché il bianco attorno è uguale, ma tu non sei più libero di scegliere la strada, come quando eri partito. (pp. 71-72)
Le aspettative e le ipotesi del lettore vengono continuamente disattese, affondando tutti i capitoli in un barile di mistero, che non viene mai a galla completamente. E ancora, il lettore non fa in tempo ad affezionarsi a un personaggio, che la sua vita sulla pagina finisce, per dare spazio alla successiva. In questa non caotica ma senza dubbio personale costruzione narrativa, si possono leggere il desiderio di creare maggiore suspense e, soprattutto, una concezione plurima del reale, tutta costruita sulla polifonia, con grande verosimiglianza.

GMG



Vuoi un'anticipazione del libro? Guarda su YouTube la presentazione: clicca qui

Stefano Lorefice è nato nel '77 a Morbegno (SO). Si occupa di parole e di fotografia. Ha pubblicato per le Edizioni Clandestine Cosmo Blues Hotel, L'esperienza della pioggia (Campanotto), Budapest Swing Lovers (Ed. Clandestine), Prossima fermata Nostalgiaplatz (Ed. Clinamen). Inoltre ha partecipato alle antologie Tempo Scaduto (Eumeswil) e Dammi spazio (Ed. Il foglio).

Affrontare la malattia del corpo e dell'amore: Una settimana in ottobre


Una settimana in ottobre
di Elizabeth Subercaseaux

Edizioni Nottetempo, 2010
I ed. 1999 (Una semana de octubre)

pp. 210, euro 15



Da ormai un quarto di secolo (siamo alla XXV edizione internazionale, e alla XVII in Italia) ottobre è il mese dedicato alla lotta contro il cancro al seno. Si tratta di una casualità interessante - che non lo sia affatto? - che Elizabeth Subercaseaux abbia scelto proprio questo mese per ambientarvi il suo romanzo Una semana de octubre.
Quando avevo quindici anni, avevo letto in un libro di Koestler che se un uomo con poteri soprannaturali fosse capace di scoccare una freccia magica nello spazio infinito, quella freccia si muoverebbe oltre la forza di gravità della terra, oltre la luna, oltre le forze interstellari, oltrepasserebbe altri soli, altre galassie, attraverserebbe la Via Lattea, la Via del Miele, la Via Acida, in volo verso altre galassie, lasciando al suo passaggio delle spirali nebulose. (...) Ora mi sentivo come quella freccia, e l'idea mi spaventava.
Clara Griffin vive a Santiago, Cile. Ha quarantasei anni, e nel suo matrimonio con Clemente, l'amore è lentamente diluito in abitudine. Una vita, come tante, condotta in un tranquillo castello di apparenze. Ma qualcosa cambia tutto: un giorno, in bagno, scopre che le sanguina un capezzolo. Clara ha un cancro al seno.
Avevo sentito dire che è possibile generare un tumore attraverso una sorta di segreto impulso autodistruttivo. C'è chi pensa che i tumori al seno siano più comuni nelle donne che reprimono i propri sentimenti, che vivono la vita come fiori aperti al mondo ma che in realtà sono chiuse in se stesse, come ostriche. Avevo letto che proprio come un tempo si riteneva che la tubercolosi fosse causata da un amore struggente, o da un eccesso di passione, ai nostri giorni si attribuiva il cancro all'esatto opposto: l'assenza di passione, un vuoto nell'anima. (...) Dovevo districarmi in quella ragnatela di miti e liberarmi dal bisogno esasperante di spiegare la mia condizione. Dovevo evitare l'autocompassione ossessiva e smettere di pensare alla mia malattia come a un rapace che io stessa avevo generato...
Il racconto si apre in medias res. Clara ha già alle sue spalle mesi di dolore e terapie, l'asportazione del seno: anche convivere con la prospettiva della morte è diventata un'abitudine, circondata di un alone di terrore e di presagi. Ma tutto questo - la paura, la debolezza e il coraggio, la sua intimità di donna - sarebbero rimaste un mistero senza un furto. Nell'epigrafe al romanzo, tratta dal romanzo La casa della laguna (R. Ferré), una donna, Isabel, dice: "Quintin ha trovato il mio manoscritto e l'ha letto". Ancor prima di iniziare a leggere, dunque, sappiamo che quello che leggeremo sarà frutto di un furto - favorito o meno dalla derubata - e che il ladro di parole sarà un uomo. Clemente, marito come tanti, traditore per leggerezza e non per passione, crede di conoscere sua moglie: la crede, per usare un'ironica metafora, un libro aperto. Ma aprire il suo manoscritto, trovato in un cassetto non custodito - intenzionalmente? - lo convince proprio del contrario. Pagina dopo pagina, scopre una donna sconosciuta, capace di un'immaginazione dalla sensualità prorompente; seguire la sua scrittura, per Clemente, sarà come inseguirla nel giardino della sua casa, per le vie di Santiago, nel caffè in cui incontra un uomo che in pochi giorni diventerà il suo amante...

Da tempo non mi capitava di leggere un romanzo con tale voracità. Una semana de octubre è una lettura che, come poche, sa essere coinvolgente e sottile. Con una scrittura disinvolta nella sua femminilità, capace di indagare e delineare tratti e ritratti senza impiegare fiumi di inchiostro, Elizabeth Subercaseaux affronta quattro temi delicatissimi che, grazie alla corposa freschezza della sua ispirazione, appaiono come facce di una stessa moneta: la malattia del corpo, la morte del corpo; la malattia dell'amore, la morte dell'amore. Questi i fregi della moneta, cesellati su fronte e verso con mano sapiente.

La malattia del corpo e il suo lento decorso, il lento scivolare nella morte: questi sono i dati certi, incontrovertibili, che appartengono al mondo delle cose, che Clemente conosce come verità. E il resto? Il manoscritto di sua moglie è un diario o un romanzo, è confessione o finzione? Soltanto alla fine troveremo una risposta, la risposta più spiazzante perché qualifica l'atto della scrittura nella propria ambiguità: atto d'amore e di vendetta. Una semana de octubre è un thriller del sentimento, un giallo in cui non ci sono assassini, in cui, nonostante la morte sia un dato annunciato fin dalla seconda pagina, la suspense si mantiene vivace nella propria eleganza.

Elizabeth Subercaseaux è nata in Cile, ma risiede negli Stati Uniti. Pronipote del compositore Robert Schumann, è scrittrice e giornalista politica. Una settimana in ottobre è il suo primo libro ad avere risonanza internazionale (con traduzioni in italiano, inglese e tedesco). Per questo romanzo, nel 2009, ha ricevuto il LiBeraturpreis a Francoforte. 

L. Ingallinella

Il Serpente, dissoluzione di un romanzo


Il Serpente
di Luigi Malerba

Mondadori Editore,2009
I ed. 1966


Il Serpente è un libro anomalo. Si può dire di averne afferrato, almeno in parte, il significato soltanto quando, giunti all'ultima pagina, raggiungiamo la certezza di non aver acquisito nelle pagine precedenti neppure una certezza. È una storia che nega se stessa, pian piano, e alla fine si dissolve: non può essere realmente assimilata, viscida e salterina com'è. Il serpente è un serpente che implacabilmente fagocita se stesso.
Tuttavia, ad un livello più superficiale, e ingannevole, dei fatti che accadono ci sono. Non mancano neppure colpi di scena, dialoghi ottimamente costruiti, e persino un po' di tradizionale “suspance” da romanzo giallo.
Insomma, Malerba (Berceto, 1927 – Roma, 2008) condensa in questo suo secondo lavoro, pubblicato nell'annus domini 1966, quell'insieme di elementi che diventeranno col tempo suoi tratti distintivi. Innanzitutto, un umorismo freddo che agisce, più o meno sottotraccia, in tutto il romanzo («Tutti sono d'accordo che è meglio mangiare un nemico piuttosto che lasciarlo andare a male»). Attraverso di esso, l'autore scuote dalle fondamenta ogni “verità di fede”, ogni sistema di pensiero ritenuto immutabile e passivamente accettato in modo acritico. Un altro dato costante che si palesa in pressoché ogni periodo del romanzo è una decisa allergia per la logica, beffata spesso e più spesso non calcolata, gettata ai margini e sepolta dall'ammucchiarsi continuo di paralogismi, sofismi, giochi linguistici e non sensi. Il Gruppo 63, formatosi a Palermo appunto nel 1963, non è passato invano per lo scrittore bercetano. Tuttavia Malerba mantiene una leggibilità (e il discorso vale anche e soprattutto per Il Serpente) che lo rende un caso quasi unico all'interno della schiera degli “sperimentalisti radicali”. Pedullà, che allo scrittore ha dedicato un volume monografico della sua rivista (L'Illuminista), dichiara: «Malerba è nel linguaggio il più eversivo e insieme il più conservatore tra i narratori degli Anni Sessanta».
Quanto alla trama, è relativamente semplice riassumerla per sommi capi. Il protagonista e narratore cerca in ogni modo, tra divagazioni sull'amore sessuale smitizzato e ridotto a una questione di tempi musicali ed esercitazioni canore, di dare ordine al caos che lo circonda. Raccoglie ossessivamente francobolli e guarda da una prospettiva straniante e straniata i suoi giorni trascorrere. Molto presto irrompe nella sua vita Miriam, e con lei una gelosia assurda e “fredda” che agisce a livello razionale ed è pretesto letterario per dar vita a girandole di dubbi, continue negazioni e negazioni di negazioni.
Precipitato nel poco simpatico circolo vizioso dei sospetti sulla sua amante, e sul mondo tutto, costringe la donna ad una radiografia nella speranza, evidentemente folle, di trovare un riscontro oggettivo dei tradimenti su cui non nutre il minimo dubbio. La situazione precipita fino al momento in cui giunge ad avvelenare Miriam e, una volta uccisa, a cibarsi del suo cadavere. Segue la confessione a un commissario incapace di tener dietro alle ricostruzioni sghembe dell'assassino.
Il punto, però, è che questa altro non è che una delle infinite realtà, non dotata di maggior peso e consistenza rispetto ad altre mille possibili. È infatti prima negata l'esistenza di una ex moglie («Quando ho detto di esser stato sposato ho mentito»), poi quella del ragazzo all'origine della gelosia del protagonista («Quel tipo peloso non era mai esistito»), e alla fine persino l'esistenza della stessa narrazione («Adesso la storia è finita. Ma non so nemmeno se è proprio una storia»). Tutta la storia è invenzione di un mitomane che costruisce supposizioni, le nega, esterna i suoi propositi contraddittori e parla, parla incessantemente per sfuggire, forse, al silenzio che implacabilmente lo attende. Il libro si chiude con queste parole:
Non avere nessun desiderio, nessuno che parla e nessuno che ascolta, così, al buio, con gli occhi chiusi.
Non è superfluo ricordare che il silenzio che, smisurato, copre incurante di tutto ogni eccessivo flusso verbale, ricorre spesso nei successivi romanzi.
Insomma, Il Serpente è una sperimentazione sulla menzogna, ed è un giallo all'incontrario. La rete non si restringe intorno al colpevole (al reo confesso in questo caso), ma anzi quel che all'inizio è dato per certo viene smentito o comunque messo in dubbio. Privo di forze centripete, è un affastellarsi di fughe verso l'esterno. È un romanzo che si espande vertiginosamente in ogni direzione. Dopo averlo letto vi rimarrà addosso, al netto del fruscio di una logorrea senza tregua, solo una ripulsa per la 'verità', per ogni dato che si imponga come evidente. Vi rimarrà addosso, dunque, moltissimo.
Non provate ad afferrarlo però, sarebbe inutile.
Stai attento perché molte parole sono sdrucciole, viscide come anguille, salterine come cavallette, sono di una astuzia diabolica e non cadono in trappola tanto facilmente. Alcune parole sono invisibili.

Molteplici realtà oltre lo specchio

La scacchiera davanti allo specchio
di Massimo Bontempelli
Sellerio, Palermo 2002

Prima edizione: 1922
con guida alla lettura a cura di Gianni Turchetta (pp. 30)

€ 7,00
pp. 85


Nel 1922, Massimo Bontempelli si misura con un racconto per ragazzi che rispetta i dettami del realismo magico, ovvero una scrittura che 
rifiuta così la realtà per la realtà, come la fantasia per la fantasia e vive del senso magico scoperto nella vita quotidiana degli uomini e delle cose.
Dunque, niente a che fare con la fantascienza. Il pensiero bontempelliano, portato avanti nella sua rivista «900» (uscita dal 1926), è condiviso e in parte rimaneggiato da molti scrittori a lui contemporanei: dai tentativi del primo Alvaro a rivisitazioni personalissime di Landolfi, fino alla visione surrealista e originale di Savinio.
Così nasce La scacchiera davanti allo specchio, racconto di un'ottantina di pagine, una storia per ragazzi che nasconde grande profondità di contenuti. Una prima lettura, più superficiale, porta il lettore nel mondo di un io-narrante di dieci anni, rinchiuso in una stanza (presumibilmente per punizione) con il monito di non rompere l'enorme specchio antico e di non toccare la scacchiera che gli sta davanti. Il ragazzino, attirato dallo strano riflesso degli scacchi, che non riproduce fedelmente l'aspetto dei singoli pezzi, si avvicina e, magicamente, finisce al di là dello specchio, in una realtà parallela. 

Non sorprenderà quindi l'incontro con scacchi parlanti, in una pianura sterminata, dal momento che «a ogni specchio corrisponde uno spazio infinito [...], e vi si vengono a rifugiare le conservare tutte le immagini di tutti, uomini, donne, bambini, che ci si sono guardati dentro» (p. 29). In questa sorta di "contenitore", oltre agli esseri viventi ci sono tutti gli oggetti che si sono riflessi casualmente nello specchio dalla sua creazione; all'oggetto, considerato perfetto, è significativamente riservato un posto d'eccezione in una sorta di empireo, dove si giunge arriva dopo una lunga e faticosa (quanto simbolica) ascesa: «la sua immagine rimane dentro, e cammina, e subito arriva qui, in questo luogo elevato, dove diventa immortale» (p. 57). Al contrario, gli esseri viventi stanno nella già citata pianura, piatta come le «anime piatte» umane, stucchevole e uguale a sé stessa. 
Via di mezzo tra la condizione umana e quella "superiore" degli oggetti, è la sorte degli scacchi, tra cui vi è il Re bianco, interlocutore privilegiato e bizzoso Virgilio nel mondo dello specchio. Ma anche agli scacchi non è concesso di salire così in alto, come spiega il manichino, egocentrico e narcisistico sovrano del reame degli oggetti.

Bontempelli sottolinea più volte (si vedano anche i titoli) il divertimento di queste trovate, definite più volte buffe, burlesche, scanzonate. Il lettore attento, tuttavia, coglierà i tanti sovrassensi e  i rimandi simbolici: con grande leggerezza, l'autore insinua nel suo racconto la spinosa dicotomia realtà/apparenza, ribaltando paradossalmente qualunque punto di riferimento certo. Domina il relativismo assoluto. Spazio e tempo si confondono, e il ragazzino incontra una giovane donna che dice di essere sua nonna, specchiatasi  da adolescente; gli oggetti animati contraddicono la loro apparente inerzia, parlano e litigano, fino a vere e proprie baruffe; e soprattutto viene messa in dubbio l'identità personale. Il tema del doppio, tradizionalmente associato all'idea dell'immagine riflessa (pensiamo anche solo al Dorian Gray di Wilde) fa più volte da padrone, e a volte viene esplicitato:
"Ma allora io ora qui non sono io? sono soltanto la mia immagine?". Il Re bianco con aria sdegnosa mi disse: "Fa perfettamente lo stesso" (p. 25)
Niente è come sembra, la realtà dipende da chi la osserva, suggerisce Bontempelli, con un sorriso che tradisce qualche momento di dubbiosa serietà. Ma la possibile angoscia, derivante dal  viaggio oltremondano scombussolante, viene stemperata in ammicchi del narratore, che fanno continuamente rientrare la storia nel campo della finzione, rassicurando così il giovane lettore.

Il risultato, tutto giocato sulla semplicità espositiva, sull'iterazione e sulla preferenza per la paratassi spinta, spesso associata all'enumerazione, è un gradevole racconto fantastico all'"italiana", con una sua struttura ben calibrata, senza picchi di tensione o pathos particolari. Una scampagnata nella pianura dell'immaginazione. 

GMG

Una storia d'amore

America primo amore
di Mario Soldati

Sellerio, 2003
pp. 344, euro 11



America, giovanile errore. Mario Soldati si imbarca a Genova nel 1929 alla volta di New York. Era novembre e durante la traversata la radio parlava di quel “venerdì nero”, quel colossale crollo borsistico che metteva fine alla «prosperity», apriva la crisi e preparava la seconda guerra.
Il giovane Mario, laureato in storia dell’arte, aveva ottenuto una borsa di studio per la Columbia. E partì.
Era l’epoca degli «hold-ups», del proibizionismo, degli «speakeasies». Miseria, disoccupazione, mendicanti per le vie. Il cinema sonoro appena inventato, Janet Gaynor la stella più in voga.
Appassionatamente e parlandoci preziosamente, Soldati ci guida per le avenues, ci porta a Times Square, ci fa notare tutto ciò che di assurdo hanno gli americani agli occhi di un europeo. Ma l’America è l’America, e solo il fatto che per sineddoche gli Usa diventano America ci fa capire che è un’idea più che una terra. Quando si arriva lì e si vedono i grattaceli, si dimentica casa propria, e l’essere americano prepotentemente entra dentro di noi, “quella forza mistica e quel fanatismo con cui sbarcarono i Padri Pellegrini”.

Allora si crea nell’emigrato quel complesso di inferiorità di non essere “a citizen” di non avere quella forza, la «resiliency», di darsi sempre e comunque da fare. In America non si hanno quelle accortezze italiane per un fratello beone, una pecora nera della famiglia. In America ci si guadagna da vivere, con ogni lavoro. Non c’è dietro quella famiglia, quell’istituzione che in Europa è il fulcro di tutto. La domenica non si va a casa degli zii, non si va a pranzo dalla nonna. Lei è sposata nell’Oregon, suo fratello studia al college, i genitori sono a Philadelphia, la zia è sposata a Toronto.

Al giovane borsista italiano allora non rimane che conoscere questo grande sogno. L’etica puritana, la distanza nel gusto e nella cultura che li separa dall’Europa, le ragazze. Barboni, rapine, emigrati tristi che hanno dimenticato l’Italia e la sognano. Professori di letteratura che sono un insulto alla letteratura. La donna di casa che apre la scatola di carne e fagioli lessi e dà da mangiare alla famiglia e poi infila piatti e posate nella lavastoviglie. Anche Mario cerca lavoro, perché si sente in colpa a bighellonare. Lavora nello squallido bar dell’Università ma si rivela inadatto. L’America vera per lui arriva dal Colorado quando da Denver lo chiamano per ciclo di conferenze: 500 dollari.

E poi c’è il cinema. Tutte quelle storie che farebbero ridere un italiano per la loro assurdità, ma che rapiscono l’Americano, che lo prendono e lo portano nella pellicola. Un Americano vive in quelle storie, una ragazza americana sogna su quelle storie la sua vita. Quel cinema, spesso solo di narrazione e senza autore ha però la capacità, a volte, di essere altamente corrosivo. Riesce a sferrare una forte critica alla società e magari nemmeno chi l’ha costruito è in grado di cogliere. In Europa non si sarebbe stati così incisivi, perlomeno non in maniera così diretta.

E gli immigrati Italiani?
Tagliati fuori dall’America come dall’Italia, hanno riprodotto, cristallizzato, tra l’Hudson e Long Island, la mentalità e la società italiana come erano all’epoca della loro emigrazione. Troviamo così a New York, conservata quasi sotto campana di vetro, la mentalità di un barbiere di Catania verso il 1890.
I “trapiantati” di Prezzolini per intenderci, che in quegli stessi anni anche lui era a New York. E poi c’è il cosmopolitismo del Subway. Sixth Avenue: la “fiduciosa Gerusalemme delle miserie europee”.

C’è molto di quell’America giovane e vitale, ma anche povera e di strada, che si apprestava a conquistare l’Europa con la sua democrazia, con la sua libertà con quell’idea che se si parla di speranza e di sogno allora si sta parlando di America. Ma intanto gioca a fare l’Europa, con la spavalderia di essere America.

Soldati prova un misto di repulsione e attrazione per tutto ciò, per questo suo tentativo (non riuscito) di emigrare di accettare in tutto e per tutto di essere «a citizen». Ma è comunque stata la storia di un lungo amore.

F. Mercanti

Andy Warhol ed Io. Cartoline dal tempo della Pop Art di Paolo Barozzi


Andy Warhol ed Io
Cartoline dal tempo della Pop Art
di Paolo Barozzi

Christian Marinotti Edizioni, 2009
pp.193, euro 22


Dopo aver letto questo libro, colmo di riferimenti all'Espressionismo Astratto e alla Pop Art, la mia vena pseudo-artistoide è rispuntata, facendomi relazionare in modo diverso con i pannolini maleodoranti di mia figlia. Mi spiego. Se tutto ciò che è prodotto dall'uomo ed è in relazione con esso può essere e diventare arte, mi è venuta in mente l'idea di realizzare un'opera in cui i suddetti pannolini usati sono appesi ad un filo trasparente, e di denominarla, forse piuttosto banalmente, "Pioggia di neonato".

Tuttavia, devo purtroppo ammettere, mio malgrado, di non avere le fisique du role per sembrare una smilza e decadente artista, a meno di non sottopormi a pesanti digiuni...
Andy Warhol era magrissimo. Era calvo, albino, e con la pelle piena di macchie. Tuttavia tutta la sua persona sprigionava un fascino particolare, era piena di mistero, dotata di uno strano carisma. Così scrive Paolo Barozzi all'inizio del suo libro:
"Warhol era uomo chiuso e schivo, parlava pochissimo, fedele al personaggio che si era creato, voleva rimanere un mistero".
Questo personaggio, mitico e sfuggente, Andy l'aveva costruito poco a poco dal nulla. Era di umili origini, proveniva da una famiglia polacca emigrata in America. Aveva vissuto un'infanzia solitaria e infelice: fin da bambino era stato molto cagionevole di salute, e questo l'aveva portato ad isolarsi dagli altri e a vivere in un mondo di fantasia popolato dai fumetti e dalle immagini dei divi di Hollywood. La sua indole creativa lo spinse a frequentare a Pittsburg, sua città natale, il Carnegie Institute of Technology, una delle più prestigiose scuole di disegno tecnico e pubblicitario. Durante l'ultimo anno di università, nell'estate del 1949, Andy trovò un lavoro come vetrinista in un negozio di Pittsburg. Iniziò quindi il suo lavoro nel campo della pubblicità, con idee originalissime messe a servizio di alcune importanti riviste di moda americane. Dalla pubblicità all'arte il passo fu breve. Con una geniale intuizione che lo portò ad essere ancora più all'avanguardia degli espressionisti astratti, Andy introdusse la riproduzione fotografica e la stampa serigrafica nell'arte. Colui che crea doveva essere distaccato dalla sua opera; quest'ultima, inoltre, era il risultato della realizzazione della stessa immagine moltiplicata più volte, e in questo modo svuotata di significato. La molteplice riproduzione di un oggetto, oltre a svalorizzarlo, annullava le emozioni che esso può produrre nello spettatore. Erano considerate oggetti anche le persone; nella Pop Art, di cui Andy divenne l'esponente di spicco, gli esseri umani erano trattati alla stregua di merci, di pezzi di catena di montaggio, che la mano dell'artista riproduceva più e più volte. Nel grande mercato della pubblicità e della celebrità c'era spazio per tutti: "Tutti potranno essere famosi per almeno quindici minuti", era solito dire Warhol. Ben presto alla fotografia e alla serigrafia si aggiunse l'uso della macchina da presa, ed Andy si avvaleva spesso dell'aiuto dei membri della sua "corte", i collaboratori ed amici che, alla Silver Factory, contribuivano alla creazione di opere d'arte, per girare dei lungometraggi e dei film concettuali.

Il carisma che emanava la figura di Andy era tale da "catturare" chi gli stava vicino, affascinandolo in modo tale da non poter più fare a meno della sua influenza. In un certo senso, Andy era capace di manipolare le persone, così come era capace, poi, di distaccarsene freddamente. Uomini e donne giravano intorno a Warhol, cercavano di ottenere la sua attenzione, di rientrare nella cerchia delle sue amicizie. E lui, come un moderno Pigmalione, creava celebrità più o meno effimere, aumentando sempre di più il suo fascino e il suo potere sugli altri.
Andy aveva ricercato il suo potere nella divinazione e in ogni altro tipo di potere, e forse per questo nella Factory tutte le ragazze volevano sposare il magico albino e tutti i ragazzi volevano essere resi famosi da lui. Gli bastava dare un'occhiata, con quelle sue pupille quasi cieche, perchè tutto nella stanza cominciasse a muoversi e a scintillare. Come un personaggio delle fiabe di Walt Disney indossava il suo parrucchino platinato e la Factory entrava in attività: i sette nani guidati da Gerard Malanga, poeta e assistente numero uno a un dollaro e venticinque l'ora, iniziavano a darsi da fare a ritmo di rock -and- roll.

Paolo Barozzi, l'autore del libro Andy Warhol ed Io, venne mandato alla Factory da Ivan Karp nell'inverno del 1961. La singolare figura di Warhol lo colpì immediatamente, incuriosendolo ed affascinandolo. In lui nacque immediatamente un grande interesse per l'Andy Warhol artista, tanto da chiedere più volte a Peggy Guggheneim, di cui era l'assistente, di allestire una mostra che comprendesse anche le sue opere. Anche di fronte al secco rifiuto della Guggheneim, Paolo Barozzi non cessò di interessarsi alla Pop Art e ad Andy Warhol, del quale iniziò a studiare, oltre che l'espressione artistica, anche il lato umano, arrivando a cogliere i brevi momenti in cui la maschera di mistero che Warhol indossava scompariva per mostrare dei lampi di umanità: timidezza, timore, disagio. Il suo silenzio poteva sciogliersi in una inaspettava loquacità: allora appariva allegro e ingenuo come un bambino. Il telefono, la macchina fotografica, la cinepresa erano oggetti di culto per Andy, che ne faceva un uso smodato, divertendosi e coinvolgendo gli altri nei suoi progetti.

Warhol era sempre circondato da belle donne, che subivano profondamente il suo fascino, ma non aveva rapporti sessuali con nessuna di esse: per lui la sessualità era un ingranaggio complicato, dal quale preferiva non farsi coinvolgere troppo. Era meglio mantenere un ruolo di osservatore, fotografare o filmare i comportamenti sessuali degli altri. Andy si sforzava di rimanere insensibile, voleva assomigliare il più possibile a una macchina, eppure una volta, quando ascoltò alla radio la storia di un tale che si era suicidato per amore, si commosse fino all'inverosimile.

Il lato umano di Warhol rivela, accanto ai suoi atteggiamenti da divo, un'umiltà inaspettata:
...per tutta la vita Andy, anche quando divenne una celebrità, non smise di assistere alla messa regolarmente e, in segno di umiltà, andava a volte a fare le pulizie nei ricoveri per anziani.
Il libro è pieno di questi aneddoti, alcuni dei quali riguardanti avvenimenti vissuti in prima persona da Paolo Barozzi, altri a lui riportati da amici e conoscenti che Paolo, data la sua intensa attività di gallerista e la sua passione per l'arte, aveva in comune con Warhol. Molto interessanti sono i riferimenti all'arte degli anni Cinquanta e Sessanta, dominata dall'Espressionismo Astratto prima e dalla Pop Art in seguito, dall'esplosione degli happening come momenti intensi di creazione ed espressione artistica. Leggendo queste pagine si entra come in un vortice elettrizzante di avvenimenti artistici, vernici, mostre, esposizioni, celebrità e personaggi famosi, frasi celebri, opere d'arte.

I personaggi eccentrici e creativi, capaci di entrare nella leggenda, mi hanno sempre affascinato profondamente, e suscitato in me propositi di emulazione. Forse anch'io indosserò una parrucca platinata; quel che è certo è che, dopo la lettura di questo libro, mi metterò al lavoro per realizzare l'opera di cui parlavo all'inizio di questa mia recensione, e che per farlo mi servirò dell'immancabile contributo della mia giovanissima collaboratrice. Sempre che qualcuno possa capire ed apprezzare la mia "arte".

Irene Pazzaglia

Memorie di Mémoires


Memorie di Adriano
di Marguerite Yourcenar
traduzione di Lidia Storoni Mazzolani
Einaudi, Torino 1988

pp. 333
€ 14.00


Avevo diciassette anni quando mi si offrì la prima occasione di recensire Memorie di Adriano per il giornale del liceo.
Sono passati quasi venti anni da quella mia trepidante terza pagina. La passione mai estinta per il capolavoro di Marguerite Yourcenar mi risalta oggi in grembo, amplificata sotto la lente telescopica del mio vissuto, tra episodici fasti e ineludibili miserie.
Ad ogni lettura, il sortilegio si ripete : mi addentro nel testo e, fatalmente, ho l’impressione che un drammatico affresco archeologico prenda forma e si animi sotto i miei occhi.
Non è un intreccio romanzesco vero e proprio, quanto piuttosto un fluire di eventi , di fatti esteriori strutturati nelle trame di un singolare tessuto connettivo : il vissuto del personaggio altro non è che un misto di artificio narrativo e di fatti storici puntualmente documentati.
Questo è genio. Questa è l’immortalità della letteratura che incontra e celebra l’immortalità della memoria storica e la esalta, conferendole tutto il dinamismo della cronaca e le infinite sfumature della lirica.

Per chi non l’avesse letto ancora, Memorie di Adriano è un romanzo scritto in forma epistolare , narrato in prima persona dal protagonista, l’imperatore romano Adriano, ultrasessantenne e gravemente malato. Si tratta di una lunghissima lettera divisa in sei parti, indirizzata al giovane Marco Aurelio ( che diverrà anch’esso imperatore, filosofo, per giunta ), un denso resoconto di accadimenti, un’occhiata retrospettiva autobiografica raccontata con minuzia ma senza pedanteria, in un sapiente miscuglio di aneddoti e meditazioni sulla vita.
Adriano filosofo, Adriano cultore della bellezza, dell’arte e della poesia, dell’astronomia e della musica, sovrano illuminato e pacifico, astuto leader e diplomatico multisfaccettato , funambolo delle relazioni umane per sua stessa ammissione.
Accanto a questo ritratto monumentale, pubblico, si distende la sua proiezione umana, intima, fragile e caduca, investita episodicamente dalla meschinità , prerogativa sua come degli uomini qualunque ,travolta dal suo stesso fanatismo e dalla superstizione, pedaggio alla contingenza, redenta dal senso del dovere e dall’impegno politico, come si conviene a un uomo di potere coscienzioso e integro.

In questo romanzo, potremmo dire, traspare, per sommi ma eloquenti cenni, tutta la vita di Marguerite Yourcenar, finissima classicista e viaggiatrice, al pari del suo personaggio, rigorosa filologa e delicata poetessa, acuta e infallibile scrutatrice dell’animo umano, indimenticabile prima donna accademica di Francia.

Memorie di Adriano, apparso nel 1951, è stato il frutto di una lunga gestazione intellettuale, cominciata nel 1924, quando la giovane Marguerite visitò per la prima volta la villa dell’imperatore romano a Tivoli. Fu allora che iniziò a redigere i famosi taccuini di appunti da cui poi prese forma l’opera artistica compiuta.
Saranno dunque sessant’anni di vita l’anno prossimo, sessant’anni celebrati ampiamente da generazioni di lettori grati ed entusiasti, dalle innumerevoli citazioni , da trasposizioni teatrali e persino cinematografiche ( è di quest’anno il film Memoirs of Hadrian del regista John Boorman, già uscito negli USA ).
Io mi permetto, più modestamente, ma non meno appassionatamente, di dedicare la mia personale celebrazione ai lettori di Critica Letteraria , confidando che il genio di Marguerite Yourcenar dialoghi con loro così come sta facendo con me da tanti anni e come, sono certa, continuerà a fare sempre.
Lvxita

Invito alla lettura: "Notturno" di Gabriele d'Annunzio

Notturno
di Gabriele d'Annunzio
Garzanti, Milano 2008

I ed. 1921

A un giorno dalla celebrazione del Gran Galà dell’Aeronautica Militare Italiana vorrei ricordare un’opera oggi piuttosto dimenticata nell’ambito della vastissima produzione dell’autore delle odi al moderno aeroplano: il Notturno di Gabriele d’Annunzio. L’ambizione e lo slancio verso l’opera d’arte totale è qualcosa che nel romanzo autobiografico si respira non solo dalle prime pagine ma già dallo stesso titolo. L’idea del “notturno” fonde insieme l’immagine vedutista di un paesaggio avvolto in un bozzolo di tenebre morbide e le melodie cullanti della serenata classica. Un’altra reminiscenza, questa volta virgiliana, si lega al Citerone, detto “notturno” perché nelle ore di oscurità vi si celebravano le feste dionisiache. Suggestivo e lirico ma come sempre prolisso, il linguaggio è quello sinestetico del poeta vate e “indovino” che, attraverso il panismo, interpreta i segni della storia e della natura in un “clangore che brilla”. D’Annunzio scrive nella cecità dovuta a una ferita a un occhio, riportata durante un volo eroico, solo e consapevole che “il cieco è condannato a vedere sempre” come nel caso della maledizione che grava su Tiresia nella tragedia greca. E questa stessa cecità induce l’autore ad ascoltare più attentamente ciò che accade appena al di fuori della tenebra che lo circonda e a percepire un alito artistico- musicale persino nello scroscio dell’acqua sui vetri: "per i capelli, per i lunghi capelli afferrerò la pioggia di marzo sonatrice di crotalo".  Tra sonno e dormiveglia, in uno stato di torpore e incoscienza, subentrano bruschi risvegli:
ogni volta che mi sveglio perdo una terra promessa. 
Accanto a lui però, per colmare il vuoto lasciato dal disinganno, c’è la figlia trasfigurata in una sirena o in “un angelo tunicato che si distacca da una cantoria fiorentina”. Il tentativo di rendere la parola scultorea, di darle una consistenza plastica, un dinamismo, una musicalità, si inscrive sempre nel progetto originario di una trama fantastica, pazientemente tessuta come fa il ragno con la sua tela, e che possa sostituire la realtà grigia e monotona della malattia. Il mezzo creativo è la scrittura:
scrivo come chi caluma l’ancora e la gomena scorre sempre più rapida e il mare sembra senza fondo. 
Si tratta di una scrittura meditativa e assorta che ricerca e dissotterra cause profonde dato che “come gli alberi di fronte al sole obliquo gli atti hanno dietro di loro un’ombra lunga che nessuno misura”. A ciò si aggiungono una retorica e un'enfasi anticipatrici dell'era fascista, con espressioni che alludono a un eroismo velleitario e malcelato come: “sono le mie ceneri e sono la mia fenice” o “la morte non vuole chi la cerca”. Il sacrificio dei soldati sul Carso viene accostato a quello dell’Agnus Dei attraverso l’imitatio Christi e il compito del poeta diviene quello di Giuseppe d’Arimatea che depone i loro corpi nel sepolcro nuovo ed eternatore della poesia. Le analogie sono rafforzate dal fatto che il tempo della narrazione coincide con la Quaresima e si conclude con una Pasqua durante la quale, significativamente, si verifica anche la guarigione del protagonista mentre, nel ricordo dell’esperienza appena trascorsa,
il più bel sorriso umano è il sorriso che luccica sui lembi lacerati del dolore inumano. 
L’impressione ultima però è data dalla mescolanza dell’orrore delle spedizioni e della degenza col ricordo di notti adamantine e della sera d’opale, d’oro e d’ambra; delle acque cangianti della laguna e di un campanile di madreperla che vi si staglia; dell’“odore verde del basso Adriatico” e di una “melodia luminosa” fusi tra loro in un quadro unitario di straordinaria armonia.

Apocalisse amore. La libertà della poesia.





Apocalisse amore. La libertà della poesia.

Gianfranca Lavezzi incontra Davide Rondoni.
Pavia, Cortile delle statue dell'Università
12 settembre 2010, ore 15.00
Franca Lavezzi e Davide Rondoni
Rondoni legge da Apocalisse amore

In occasione dell'ultima giornata del Festival dei Saperi pavese, un'altro appuntamento per per parlare di poesia e di letteratura: Gianfranca Lavezzi ha incontrato Davide Rondoni.
Nell'assolato cortile delle statue, che accoglie tutti coloro che varcano per la prima volta l'ateneo pavese, il poeta ha parlato anzitutto di letteratura, a partire dalle pagine del suo nuovissimo libro (quasi pamphlet) Contro la letteratura (Il Saggiatore, 2010). Piuttosto provocatoriamente, Rondoni propone una scuola senza letture obbligatorie, in cui l'insegnante consiglia, e non impone la lettura dei classici di sempre, che possono essere riscoperti in un secondo momento. Rondoni propone innanzitutto un'idea di lettura come libertà, e di letteratura quale strumento per conoscere il mondo e sé stessi. Lettura e letteratura non devono forzatamente legarsi alla scuola che, anzi, secondo Rondoni spesso allontana gli studenti dalla passione per la lettura.
Come è facile immaginare, questo intervento ha suscitato non poche discussioni, e dal pubblico si è anche levata la voce di un'indignata esponente dell'Ancien Régime dell'insegnamento.
Più distesa l'atmosfera quando s'è parlato dell'editoria Rondoni non s'è mostrato pessimista in merito al futuro del libro, ma resta scettico per le strategie di promozione della lettura. Non crede che sia necessario fare varie campagne di sconti, ma bisogna motivare i ragazzi a riscoprire quel bisogno antropologico e ancestrale di poesia, che è connaturato all'uomo.

La conversazione si è quindi spostata alla produzione poetica di Rondoni, a partire dalla raccolta poetica Apocalisse amore (Mondadori, 2008). Il titolo, spiega Rondoni, è nato istintivamente, e solo a posteriori sono stati rintracciati legami biblici: Giovanni, autore dell'Apocalisse, è l'unico che ha scritto della fine del mondo, ma è anche l'unico che ha sentito il cuore di Gesù, come si vede in tanta iconografia.
Rondoni, definito dal suo maestro Raimondi come un "poeta di un nuovo secolo uscito dalla confusione del Novecento", rifiuta di essere accostato ad altri autori: ritiene di non essere condizionato dalla poesia contemporanea, né avverte dettami. La poesia proviene dalla sensazione che tutto sia innominato, e che debba - di conseguenza - essere rinominato. A suo parere, dovremmo accostarci alla poesia perché

ascoltando i versi degli altri, vi risentiamo la nostra vita, e non la loro.
Ovvero, leggere la poesia è per Rondoni ricercare sé stessi nei versi di altri, in un'operazione di rispecchiamento: il poeta è colui che ha la capacità di esprimere le nostre stesse emozioni, ma con gli strumenti e le parole più adatte, secondo una teoria che si rifà alla tradizione, fino allo stesso Pascoli.
Dunque, se la prima parte dell'incontro, modellata a intervista, ha proposto polemiche e nuovi spunti di riflessione sulla letteratura somministrata (sic) ai ragazzi, la seconda ha portato la poesia, con la lettura attenta e scandita dell'autore, che ha congedato i presenti non senza emozione.

GMG



Un poeta vero. Il mio poeta.




Il 6 ottobre del 1978 moriva Silvano Paganelli.

Era un ladro di sensazioni. Si nutriva di sguardi, di gesti e di particolari emotivi. Tutto ciò alimentava la sua poesia in qualunque momento della giornata, della vita o della storia. La sua pittura nasceva, poi, direttamente dalla poesia, ne era figliastra e viveva solo grazie agli inserimenti poetici, sia materici che frasati”.

Ho preferito che a raccontare di lui fossero le parole di un amico vero, Danilo. In fondo io di Silvano – lo chiamo per nome perché lo sento vicino - conosco solo la poesia e la triste scomparsa. 32 anni fa, come la fragile Nancy di De André, cercò la sua serenità gettandosi dal quarto piano, lasciando dietro di sé una scia di fogli e appunti che gli amici hanno voluto pubblicare.

Non ho intenzione di scrivere una recensione. In tutta sincerità non credo di poter riuscire ad analizzare con spirito critico i componimenti.

Le mie parole, piuttosto, vorrebbero essere un piccolo omaggio a questo animo sensibile, la cui capacità di esternare i tormenti interiori ancora mi commuove.

Ho conosciuto Silvano Paganelli leggendo una sua poesia stampata sulla tovaglia di un’osteria di Ancona, un angolo affascinante che trasuda calore, cultura e buon vino, per la quale lui stesso, nel lontano 1978, scelse il nome.

Continuavo a leggere e rileggere quelle poche righe, come sperando che ne comparissero altre. E così è stato perché la sera stessa avevo in mano una sua raccolta, Per scala e pagliai. A questa sono seguite le altre, Circolo, Ammesso traffico locale e Affittasi poeta a tempo pieno uso racconto…, il caro regalo di Danilo. 

Io ho paura di te - più precisamente timore della tua inafferrabile dolcezza. Quello che ti offro è il tutto per il tutto. Puoi darlo? Cioè puoi darmelo? Non ci sarà mai l'occasione per saperlo. Perchè non ammetteremo lo spazio di tempo per capire la realtà di raccontarci quello che sentiamo. Sfida o comprensione???


Ma Per scala e pagliai rimane la mia preferita. In essa, seppur manca la voce del poeta a raccontarla, è racchiuso molto di lui. La grafia prima di tutto. Il libro, di carta spessa e grezza, è stato stampato riproducendo fedelmente la scrittura di Silvano, piacevoli e morbidi tratti di inchiostro che non rallentano né rendono difficile la lettura. Semmai la arricchiscono di emozione e di dettagli. Paganelli, oltre che poeta, era un pittore, e lo era anche nello scrivere. I segni grafici, i piccoli schizzi, finanche le correzioni, che spesso si incontrano, hanno un significato poetico mai casuale. 
 
Tra le pagine ritroviamo il racconto delle sue giornate. Gli anni per le vie di Firenze, il periodo nella Brianza così lontana dal suo essere, la passione per Ancona. I racconti, messi in versi, sono veri e genuini, quasi palpabili. Ricorrono i nomi degli amici e compagni di avventure, delle strade, dei locali. Immagini vere di una vita intensa e tormentata. A volte si legge di cene goliardiche, di risate e buon vino; altre volte di riflessione su tematiche politiche e sociali.

dopo-dopo cena
.... quando la pioggia entra nella ferita del desiderio il cuore
si bagna di speranza —
ho appeso il mio al tuo filo e attendo che asciughi
in questo disperato lavaggio la falsa morale si è sciolta
ed ha lasciato un odore di quasi subito
ma se non ci sei tutto è coperto di triste e di
quasi tristezza ..........................

Ma Silvano parla principalmente dell’amore. Anzi, parla all’Amore, scrive alla fonte e scopo del suo sentimento, della sua passione e dei suoi desideri, carnali e spirituali. Come se l’amata fosse lì davanti a lui ad ascoltare il suono della sua voce in un bisogno forte e viscerale di condivisione quotidiano. O forse immediato, ogni ora, ogni minuto.

Racconta la vita vista attraverso i suoi occhi, filtrata da un sentimento profondo che mette ordine, che dà uno scopo a quel vivere, a quel vedere, a quel sentire, ma che allo stesso tempo ferisce nell’animo. Punto di inizio e punto di partenza di un cerchio attorno alla sua vita, e alla vita di tutti.

Un circolo.
Perfetto percorso
della mia matita
che torna a chiudersi
su quel punto
dove ci sdraiammo.
Un circolo.
In armonia
la linea si richiude.
Tra poco le mie labbra
sigilleranno la tua voce.

Silvano Paganelli è diventato il mio poeta. Difficile spiegare il perché. Così come difficile è scegliere, tra i tanti, solo alcuni versi che possano raccontare di lui meglio di come abbia potuto fare io. 
 
Quel che sento non te lo dirò più. Te lo donerò invece
nel tormento del mio sguardo spalancato.
Seguimi con i tuoi grandi occhi aperti e saprai tutto
anche a distanza. Non importa spiegare il perché sono tuo
quando il respiro è parola. Quando anche più breve la
carezza è una frase definita. Il discorso è dentro.
Resta dentro di noi anche senza parlare - si dice.
Io ti sogno di giorno. E nel buio ti credo.
Non ci sono orologi per stabilire l'ora esatta di un incontro
c'è soltanto il bisogno di precipitare nel tempo avvolti nel
desiderio di un giorno qualunque. Celebrando l'anniversario
della mia prima volta. 

Silvia Surano