Casa di bambola

Casa di bambola
Henrik Ibsen
Torino, Einaudi

L’incontro con il testo di “Casa di bambola” consente di cogliere immediatamente la portata innovativa della rivoluzione drammaturgica ibseniana. Collocata a cavallo fra Ottocento e Novecento, essa apre la strada al dramma dell’individuo borghese contemporaneo, all’analisi delle difficoltà da lui provate nel rapportarsi ad una realtà in cambiamento dove il peso delle convenzioni e delle sovrastrutture grava sulla coscienza del singolo impedendogli di essere se stesso. Ibsen si impegna ad affrontare le questioni al tempo più dibattute, anzi in molti casi è lui ad aprire il dibattito sui grandi problemi sociali del periodo. Lo fa con l’estrema lucidità di chi voglia “far posare i contemporanei davanti al proprio obiettivo”, cogliendo con questo i meccanismi interni di un’eterna dialettica: quella fra l’individuo e la regola, il vivere comune.
“Casa di bambola”, come altri testi di questa “fase ibseniana” è profondamente radicata nella realtà del vivere borghese, nelle sue meschinità e falsità perfettamente incarnate dal marito di Nora, Torvald e dal suo spasmodico bisogno di rispettare le convenienze esteriori. Egli è pronto a sacrificare i legami più autentici e incapace di comprendere la profondità del gesto della moglie che lo ha salvato nel passato da un grave esaurimento, contraendo un debito. La protagonista è la tipica figura femminile ibseniana che scopre l’inautenticità del suo matrimonio, del suo ruolo nella famiglia, del proprio vivere nel complesso. E lo scopre in maniera repentina, con un brusco salto psicologico mediante il quale l’autore la trasforma da “bambola” in donna cosciente di sé e dei propri bisogni. Lo scandaglio interiore del personaggio e l’importanza attribuita alla rappresentazione dell’ambiente (in linea con le nuove esigenze del dramma borghese) costituiscono i due poli della innovazione di Ibsen che smaschera quanto di falso ci sia nel vivere quotidiano che tutti, più o meno consciamente, accettano. Nel corso della sua produzione Ibsen concederà spazio via via minore allo studio dell’ambiente per concentrarsi quasi esclusivamente sull’analisi del personaggio. È noto lo scalpore che il dramma destò fra i contemporanei. La conclusione vede Nora abbandonare marito e figli, improvvisamente consapevole di aver vissuto per otto anni accanto ad uno “sconosciuto” che ha semplicemente sostituito la figura del padre (“Con mio padre, una pupattola; con te, una bambola grande"). Tutto ciò si lega ovviamente al problematico ruolo della donna nella famiglia borghese di fine secolo, alla sua condizione subalterna che il drammaturgo norvegese coraggiosamente mette in discussione.
Lo stile oggettivo e chiaro, mai monotono, riesce a tradursi in scandaglio psicologico, specialmente nel dialogo finale fra Nora e Torvald, ma in generale in molteplici luoghi del testo (si vedano soprattutto i soprannomi che riceve dal marito), laddove Ibsen riesce sottilmente a suggerirci la “catena” che la lega a lui e il modo con cui si sia adattata alle norme che le sono state imposte da una società egoisticamente maschilista.
L’importanza dell’innovazione tematico-stilistica ibseniana si evidenzia nell’influenza che ebbe su drammaturghi come August Strindberg o George Bernard Shaw che, con i suoi drammi a tesi o “drammi di idee”, continua quello che Ibsen aveva iniziato proponendoci la discussione ed il dibattito come fulcri della pièce.

Claudia Consoli

Superare la legge del più forte

La legge del più forte
Maria Gangemi

Montag (collana Le Fenici), 2009

L’aborto è un tema sempre scottante, capace di far nascere divergenze e scontri accesi. Si tratta di scontri di carattere medico, giuridico, religioso, ma anche socio-culturale.
È soprattutto in quest’ultimo ambito che si muove il brevissimo romanzo di Maria Gangemi, La legge del più forte. E' di un vero e proprio romanzo a tesi, che presenta una trama semplice, quasi un exemplum in cui tutti i personaggi (in fondo, anche la protagonista) sono statici come cristalli, preordinati in un quadro attento affinché riflettano le reazioni possibili di fronte a una gravidanza. Francesca, diligente studentessa di un piccolo paese calabro, incontra il suo Dorian Gray, l’algido pittore Samuel, molto più grande di lei. Ma l’intento di Maria Gangemi non è certamente quello di descrivere una sconvolgente storia d’amore; Samuel è semplicemente un’ombra di passaggio, che insieme a una gravidanza “indesiderata” lascia a Francesca la possibilità di crescere. Il centro del romanzo è tutto in questa nettissima presa di posizione pro-life: e crescere significa per Francesca scontrarsi con tutti gli antagonisti che cercano di convincerla che quel bambino è un errore tutto meno che indelebile.
La legge del più forte pone un problema, acre e bruciante, sin dalle prime pagine: “Ecco perché si discuteva tanto di interruzione di gravidanza (…) eppure se ne parlava con tanta discrezione, come di un semplice e corretto intervento medico che favoriva la salute fisica e psicologica della donna, ma nessuno parlava mai di quei bambini tirati fuori con la forza e lasciati morire anche quando miracolosamente nascevano vivi e piangevano e imploravano aiuto, a modo loro.”
Fortissimo il senso morale che anima queste pagine, e anche la vena polemica verso chi chiude gli occhi e si volta dall’altra parte, o verso chi usa due pesi e due misure. “Essere costretta ad ascoltare quei discorsi mi faceva fremere dentro”: è la coscienza di Francesca che parla, con una lucidità e una maturità che non riesce a trovare né in sua madre, nei suoi coetanei, nei medici.
La lotta di Francesca, risoluta anche quando si trova sola a dover giustificare la sua scelta, è in fondo il racconto della conquista della libertà, per il bambino che porta in grembo ma anche per sé stessa: “…e dopo, quanto mi sarei sentita infelice! Quel bambino era una parte di me, uccidendolo, avrei ucciso una parte di me stessa”. La lezione morale che Maria Gangemi ci comunica attraverso La legge del più forte è semplice e coraggiosa: le voci di paese corrono veloci ma con altrettanta velocità si disperdono, e l’unica cosa che resta, davvero, la più forte, è l’amore di una madre per il proprio figlio.

Presto l'intervista all'autrice.

Oltre la mera erudizione


Lezioni americane
Italo Calvino
Oscar mondadori
pp. 148

Italo Calvino, ad oltre 24 anni dalla morte, continua ad essere una voce importante ed autorevole nel panorama composito e variopinto della Letteratura Italiana. E' stato sicuramente un autore difficilmente imbrigliabile alle redini di qualsiasi corrente particolare, tanto da rappresentare spesso, con le sue opere, punte di sperimentalismo sui generis rimaste lì come caso isolato nella propria specificità ma capaci di allargare notevolmente gli orizzonti letterari di un'Italia appena uscita dalle due guerre mondiali. Proprio a ridosso della sua esperienza da partigiano (1946) scrive il suo primo romanzo, Il sentiero dei nidi di ragno, in cui un'influenza neorealista affiora come sfondo naturale della narrazione della resistenza, in simbiosi con la verve fantastica di Calvino espressa dalla figura quasi dickensiana del bambino Pin. Quasi quarant'anni dopo questo esordio, passato inosservato e come partecipazione ad un concorso indetto dalla casa editrice Mondadori, Italo Calvino è uno scrittore affermato e competente, che ha sperimentato con la sua penna diversi stili e sfaccettature, essendosi divertito a creare i più bizzarri origami piegando in mille modi il tessuto narrativo. Bene, adesso, primo italiano nella storia, viene invitato dalla prestigiosa università di Harvard nel Massachusetts a tenere un ciclo di sei conferenze nel corso dell'anno accademico 1985 - 1986, le Charles Eliot Norton Poetry Lectures. Il povero Italo, però, non riuscì mai a tenerle, ultima necessitate cogente direbbe Seneca. Ciò che adesso abbiamo tra le mani è, come nel migliore dei topoi letterari, l'opera che, su richiesta, doveva spiegare, al pari della Volontà di potenza di Nietzsche, il sistema di pensiero calviniano; l'opera didascalico-programmatica frutto di un viaggio letterario e metaletterario durato una vita. Italo Calvino era, prima di tutto, un grande pensatore prima che un sofista artigiano della parola: basti pensare alla scarsa spontaneità di tutte le sue interviste rimaste (un giro su Youtube è consigliabilissimo al riguardo), aveva la necessità impellente di passare al vaglio ogni singola parola del suo discorso, ogni singola idea, fin quasi ad apparire nella scrittura continua un ché di lustrato ad eccedenza. Non potremo mai sapere, dunque, quante altre fini opere di labor limae avrebbero atteso i "Six memos for the next millennium", titolo inglese appunto di una serie di conferenze da tenere in area anglofona. Il titolo italiano viene dalla consuetudine di un caro amico dell'autore, Pietro Citati, di alludere al lavoro in fieri del collega come alle "Lezioni americane". Dei six memos, Calvino ne ha sviluppati 5 (Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità), programmando di redarre un sesto in terra statunitense, Consistency. Queste 5 lezioni sono così pervenute a noi lettori in una scrittura chiara e comprensibile, molto prossime a quella che sarebbe stata l'edizione finale. In esse l'autore afferma, data la notevole ed angosciante libertà concessagli dal "committente", di essersi attenuto allo sviluppo di quei valori proiettati verso il terzo millennio (che malauguratamente non vedrà mai), scelti e preferiti ai loro contrari secondo un criterio prima di tutto soggettivo, in un'ottica di presa di coscienza personale riguardo alle proprie scelte stilistiche. Così si profilano, i 5 argomenti delle Lezioni americane, importanti prima che in sé per sé per i contenuti espressi, per la grande passione che è possibile leggere tra le linee, in quest'autore. Con Calvino, non abbiamo più il redattore otiosus della latinità, ritirato dalla vita pubblica, né il cortigiano o l'ecclesiasta medioevo-rinascimentale, o ancora il romantico sentinella del mondo, il risorgimentale animato da eroici furori di bruniana memoria, il primo-novecentesco blanditore e blandito di masse e di duci; niente di tutto questo. La figura intellettuale di Italo Calvino è integerrima, dedita all'attività lettereraria ed alla sua recherche per pura passione, limpido desiderio di scrivere e perfezionarsi, senza nessun'altra contingenza esterna alla propria persona. Come afferma Guido Morselli «La cultura dell'individuo è sempre sul farsi o non è. L'uomo colto non è chi sa, ma chi apprende...colto e non puramente erudito è l'uomo che sente il dovere di alimentare il proprio spirito assiduamente, quotidianamente, qualsiasi siano le circostanze in cui si trova a vivere». Ed è in questa visuale di estremo dovere/piacere personale che prendono corpo le innumerevoli citazioni a suffragio delle splendide argomentazioni di questo testo. Senza troppe forzature, si potrebbe affermare che questa sia, come opera, il corrispondente teorico di Se una notte d'inverno un viaggiatore in quanto esplorazione oltre che di generi letterari diversi (sono presenti riprese da prosa, saggi e versi), di lingue e valori stilistici differenti senza che si profili una propria specifica compiutezza e meta raggiunta, di fronte ad un numero di speculazioni infinite nel tempo. Emblematico nella sua casualità, il fatto che si tratti di un'opera incompiuta anche nel suo aspetto formale. Il lettore è guidato efficacemente attraverso estratti ed excursus in lingue straniere, senza che però si perda l'unità strutturale dell'opera e che ogni episodio possa apparire fine a se stesso, ma raggiungendo un'armonia interna e complessiva frutto di una mente cosmica, nell'accezione greca ed italiana del termine. Infatti lo scrittore nato nel 1923 in Santiago de Las Vegas a Cuba, riesce a comprendere nel suo pensiero, polytropòn come Odisseo, una serie di riflessioni autonome ed allogene molteplici (come l'ultima lezione conservatasi) ed organizzate coerentemente tra di loro. L'immagine d'insieme, per qualsiasi utente, è quella di un viaggio passo passo nei meandri di una biblioteca borgesiana, infinita e periodica; un concetto di letteratura che vive uno stato di crescita perpetua e di cui l'unico principio ordinatore, capace di scandirne il ritmo nella sua evoluzione, è il semplice e sublime piacere della parola scritta.

Adriano Morea

Raccontare il mondo attraverso l'amore

Tesi sull'esistenza dell'amore
Torben Guldberg
Longanesi, 2009

L’incontro con una letteratura straniera è sempre un’occasione di scoperta: e questo vale particolarmente per la narrativa nordica. Non voglio scadere in eccessive generalizzazioni, ma una cifra caratteristica che ho rintracciato in tutte le mie letture nordeuropee è l’abilità originalissima di mescolare realismo e magia, ma anche la capacità di contaminare la narrazione di citazioni culturali (che possono di volta in volta rimandare alla filosofia, alle arti figurative, alla letteratura o alle scienze naturali) con tale, leggera naturalezza che il lettore non può non accettarle come parte integrale del corpo-romanzo.
Questo avviene anche in Tesi sull’esistenza dell’amore, esordio letterario dell’attore danese Torben Guldberg (classe 1975), in cui questa contaminazione resta palpabile e piacevolissima nonostante la frammentarietà obbligata dalla struttura a cornice.
L’Esistenza dell’amore è un romanzo d’esordio, ma mostra una personalità spiccata e matura, un amore per le storie preziose ed emblematiche e, presupposto immancabile, il piacere di raccontarle.
Cominciamo con un narratore atipico: ovvero un narratore immortale, che ha avuto una giovinezza ma è bloccato ormai da anni in una vecchiaia stanca e piena di misteriosi rimorsi. Inoltre, incontriamo il nostro narratore proprio nel momento in cui sceglie di non narrare più: “Per più di trecento anni avevo vagato di paese in paese raccontando storie d’amore. E adesso era come se non facessero più presa. (…) Invece di raccontare le storie, cominciai a cercarle e ad ascoltare.”
Ecco cos’è Tesi sull’esistenza dell’amore: una raccolta di cinque storie, una per ogni secolo a partire dal ‘500, che il nostro misterioso e immortale ex-cantastorie raccoglie, per sé e per noi.
Sono storie d’amore, ma se cercate favole cortesi e romantiche rimarrete di certo delusi. È proprio questo che spinge il nostro narratore: carpire nella cangiante mutevolezza dei secoli un segreto che cambia con loro, quello dell’amore. Amore che è una partitura musicale talmente straziante da commuovere gli eserciti, o il volto sempre diverso (o sempre uguale?) dei dipinti di un marinaio-pittore, amore che è luce da studiare, o la passione per la filosofia di chi crede di poter fare ciò che pensa, o merce che ti schianta nel momento stesso in cui capisci che ha un prezzo.
C’è moltissima musica, e moltissima filosofia in questo romanzo, ma tutto scorre fra le righe come un vortice troppo umano per farsi imbrigliare. Tesi sull’esistenza dell’amore è un ottimo romanzo: uno dei pochi che, alla fine di una lettura appassionata, ti lascia l’impressione vivissima di esserti arricchito come essere umano, di aver capito qualcosa in più su ciò che sei.
Dopo pagine di risposte, la domanda resta: “Cos’è che manca?”. Cos’è l’amore? Come è possibile trovarlo e capirlo nel mondo che circonda? La proposta del narratore è talmente semplice da lasciare spiazzati, e non ve la dico: vi invito a scoprirla, dopo quattrocento pagine da leggere tutte d’un fiato.

Laura Ingallinella

"Le Correzioni" pericolose

Le correzioni
Jonathan Franzen
Torino, Einaudi, 2002

“…per poco Denise non infilò la lingua in bocca alla graziosa vecchietta, per poco non le accarezzò i fianchi e le cosce, per poco non cedette e non promise di andare a St. Jude a Natale …. Solo allora si rese conto dell’entità della correzione che stava subendo.” Questi i sentimenti di una figlia adulta nei confronti della madre e questo lo spirito di un romanzo intelligente come "Le correzioni" che entra nel microcosmo di una famiglia americana del Midwest, i Lambert e ne celebra con ironia devastante ogni contraddizione.
Genitori come tanti che passano l’esistenza a salvare le apparenze, a perseguire con ostinazione quello che è giusto per i figli e figli che sembrano essere nati per rivendicare la propria diversità, l’identità che pretende di correggere la generazione dei padri per essere infine corretta a sua volta dal tempo che leviga piano ogni differenza. Così i tre figli Lambert si ritrovano ad accontentare il desiderio della madre di passare un ultimo Natale insieme prima della morte di Alfred il capofamiglia tornando nel luogo da dove erano partiti per il mondo. Prima della scena finale però Franzen ci fa entrare nella vita di ciascuno dei figli attraverso una panoramica che a seconda dei punti di vista può essere una parabola verso il fallimento o una semplice discesa verso un auto miglioramento. Chip viene licenziato per “comportamento sessuale scorretto” e non lavora in uno studio legale come credono i suoi; Gary convive con una latente depressione come la maggior parte degli Americani sani; Denise è travolta dagli imprevisti della sua sessualità che vanno esattamente nel senso opposto al desiderio della madre che metta su famiglia.
Franzen segue il flusso dei loro pensieri rincorrendo con una prosa rocambolesca ogni negazione dei loro propositi, ogni paura di essere un Lambert, ogni reazione a quella modernità che trasforma tutto in spazzatura, ogni insicurezza notturna. Il lettore vive un pericoloso processo di identificazione forse perché anche lui è un figlio e anche lui sa cosa vuol dire assistere a imbarazzanti scene matrimoniali da bambini. Parlare di una prosa cinica è scontato, Franzen è un dissacratore di quei valori occidentali che sono difesi con discorsi deliranti da quei pochi che rifiutano ancora di fare la conoscenza di stessi. Il declino però non è mai irreversibile come sembra e sarà deviato dalla malattia di Alfred colpito da Parkinson. Inizia un percorso individuale che ciascun figlio fa per accettare la sofferenza questa specie di pozione magica che finisce sempre per fare da collante a relazioni interrotte o finte. La stessa sofferenza però genera anche un complesso sistema di appoggi e chiusure a incastri che fanno delle vite degli altri una scommessa, uno strumento per il cambiamento. Come Enid che si appoggia alla sofferenza del marito per cercare di giustificare ogni sua pretesa nei confronti dei figli, si convince di dire frasi e compiere azioni solo per colpa del Parkinson e diventa così più indulgente verso se stessa. Sarà cosciente della finzione che assorbe la sua vita solo quando Alfred andrà in una clinica durante la sua fase terminale e poi morirà “non avrebbe saputo dire perché il materialismo di Gary, i fallimenti di Chip e la mancanza di figli di Denise, che in tutti quegli anni le erano costati innumerevoli ore notturne di giudizi logoranti e punitivi, la angustiassero molto meno adesso che Alfred era fuori di casa … e quando morì Enid sentiva che niente poteva più uccidere la sua speranza. Aveva settantacinque anni e intendeva cambiare alcune cose della sua vita”. Si chiude così la saga dei Lambert con la voglia di cambiamento del personaggio che era rimasto più di tutti uguale a se stesso durante il romanzo, il prologo di una correzione di ciò che sembrava incorreggibile, il senso di una vita nella trasgressione di una donna adulta, madre di famiglia come le tante sulle quali pesa un’intera società americana, che si redime dalle sue responsabilità solo con la morte del marito. Si gusta in anticipo una felicità condizionata che muta tutto in una costrizione mascherata da sorrisi inadeguati alle situazioni e rituali che danno sicurezza. Se è vero che quando c’è ironia però significa che si crede ancora in qualcosa capiamo dalla scrittura elettrizzata a tratti isterica di Franzen che i Lambert sono ancora vivi.
Se “Le correzioni” diventassero un film sarebbero probabilmente una di quelle situation comedy che ritraggono la quotidianità con un’ironia spesso insolente che non lascia tregua tra una risata e l’altra e che a spettacolo finito e televisore spento ti chiedi Cacchio sono davvero così anch’io?

Simenon mon amour

Il piccolo libraio di Archangelsk
Georges Simenon
Adelphi, 2007

Qualsiasi tipo di preposizione semplice (ad eccezion forse - ma solo per motivi meramente ortografico/logici - della comparativistica fra) andrebbe bene accostata al nome di Georges Simenon; litri di inchiostro sono stati sprecati per tessere le sue lodi, chilometri di pellicola utilizzata per imprimere sugli schermi cinematografici ciò che di immaginifico era già stato elegantemente riversato sulla carta stampata.
Georges Simenon non è un grande scrittore (la mia ossessione per la vibrante attualità della pagina scritta, sia essa contemporanea o risalente all’Antico Egitto, mi impedisce di parlarne usando l’imperfetto). Se fosse diventato semplicemente un bravo scrittore sarebbe andato perduto il più grande tra i suoi pregi da autore: una fucina infinita di creatività.
Simenon è stato soprattutto inventore, creatore di spazi e tempi paralleli a noi eppure notevolmente distaccati dalla decadenza moderna; ha letteralmente (mai avverbio fu più corretto, mi si perdoni la modestia...) generato dei demoni propositivi volti alla conservazione non solo di generi narrativi ben precisi, ma soprattutto dei mondi conseguenti alle sue scoperte, che per anni e anni si sono protratti mantenendo un candore quasi fastidioso nella sua perfezione.
Simenon fa parte di quella breve schiera di autori che riescono a collegare, in maniera istintiva e virtuale, l’universo del lettore a quello del paesaggio in cui vengono collocati personaggi e storie. Non è un caso che nella lettura di un romanzo quale “Il piccolo libraio di Archangelsk” non si possa fare a meno di odorare la campagna francese alla fine di ogni frase.
I termini noir, giallo e via di seguito discorrendo non rappresentano che distinzioni di comodo grazie alle quali però lungo un arco di molti anni Simenon ha trovato fortuna e, chissà, stimolo per la creazione di nuovi drammi egoisticamente sociali. La trama del romanzo è un pretesto che consente a noi lettori di entrare ancora una volta all’interno di un corpus di situazioni spaziali (ma soprattutto sensoriali e narrative) e di sancire ancora una volta la grandezza di Georges Simenon, divo dei nostri tempi; il signor Jonas, a cui nessuno tra gli abitanti di place du Vieux-Marché vuole dare del tu, è sintesi perfetta di un meccanismo contraddittorio che lega la trama alla lettura del romanzo. Ci si chiede come si possa provare dell’empatia verso un uomo che agisce esclusivamente recando danno a sé stesso, tornando in un paesino che maltollera, sposando una femme fatale italiana che lo tradisce pubblicamente, omettendo la verità a favore di bugie di comodo e assolutamente controproducenti. Eppure la nostra è una domanda superflua, da lettori della domenica.
Non importa; non è l’empatia che conta, ma la serenità. Senza la serenità, purtroppo, anche i gesti più estremi sono inutili. E i personaggi dei libri di Simenon, monsieur Jonas in testa, camminano lentamente cercando una verità reperibile esclusivamente nel silenzio e nella riflessione. Simenon ne “Il piccolo libraio di Archangelsk” canta di un uomo che ancora riesce ad arrossire pensando alla sua donna, nonostante stia per commettere qualcosa di assolutamente terribile nei confronti di sé stesso. Sta qua la magia, o per meglio dire la totale invisibilità di essa tesa a produrre note sotto forma di parole.


Giuseppe Paternò Raddusa

OltrePoesia: la ricchezza della poesia pavese



OltrePoesia. Antologia di poeti pavesi di qua e di là dal Po
Fabrizio Bernini – Massimo Bocchiola – Andrea De Alberti – Maurizio Gramegna – Annalisa Manstretta – Alfonso Maria Petrosino – Matteo Poletti – Flavio Santi

a cura di Gianfranca Lavezzi
Pavia, Monboso, 2007

pp. 101
10 €


È arrivato il momento per non considerare più l’Oltrepò solo come meta per allettanti percorsi enogastronomici e passeggiate in collina: è anche luogo dove ritirarsi a scrivere. Si ispirano alle sue colline gli otto poeti che Gianfranca Lavezzi, brillante Professoressa dell’ateneo pavese e studiosa di metrica e stilistica, ha raccolto nell’antologia OltrePoesia: un assaggio di alcuni sapori diversissimi, tutti ugualmente stuzzicanti.

L’eterogeneità di questi autori deriva in parte dalle loro diverse età, dalla differente provenienza di alcuni di loro, ma non ci importa più di tanto. Piuttosto, testimonia la ricchezza della lezione pavese: se di scuola non si può certo parlare, né di una “linea pavese”, si pensi a una serie di esperienze che qui si concentrano, e si diffondono.
Le sessantaquattro poesie – otto per ogni autore – sono introdotte da una breve autobiografia che la curatrice ha richiesto ai singoli scrittori: interessante e innovativa pratica, già permette al lettore di capire qualcosa sul carattere dei poeti stessi. Se qualcuno ha giocato con la proposta, altri hanno preferito ricorrere ai contributi che la critica ha scritto sulle loro opere. Tutti gli autori, già pubblicati in rivista o in opere autonome, sono stati considerati dalla critica, ma prima d’ora mai si erano trovati a parlare insieme. Invece, a partire da questo progetto, grazie al contributo del comune di Cigognola (sempre attento a iniziative culturali e letterarie), è stato possibile organizzare incontri con gli autori, letture pubbliche, ma anche scambi di vedute sulla personale visione della poesia, nel mondo contemporaneo.

Mi sembra, dunque, d’obbligo abbozzare (mi perdoneranno gli autori per la brevità) alcune suggestioni a partire dalla lettura delle loro poesie.
È una ventata d’aria pura la tavolozza a colori puri, senza sfumature, della poesia di Fabrizio Bernini (non per niente in apertura di antologia), in grado di attribuire alla natura un significato simbolico, senza trascurare rimandi montaliani, più o meno velati.
Si passa alla finissima penna di Massimo Bocchiola, al viaggio nel territorio pavese, di cui l’autore coglie quei dettagli essenziali (secondo quel citatissimo precetto di Warburg, diremmo “il buon Dio abita nei dettagli”) per ambientare i concittadini e sufficienti per introdurre chi, in Oltrepò, non c’è mai stato.
Andrea De Alberti sceglie piuttosto una doppia dimensione temporale: l’osservazione di oggi permette all’immaginazione di proiettarsi in un futuro in cui tutto appare cambiato, spesso stravolto. Al contrario, i ricordi del passato restano ammantati da una costante e personale visione.
Maurizio Gramegna è anche biologo, caratteristica che influenza la sua visione della natura, osservata al microscopio della memoria e del ricordo, in un bilanciato connubio col presente.
Simbolica e delicatissima è la poesia che Annalisa Manstetta regala a quest’antologia: da componimenti più intimistici e personali, in cui il paesaggio è specchio e simbolo dell’interiorità, a scorci di Oltrepò filtrati da una grande sensibilità.
O ancora, Alfonso Maria Petrosino, giovanissimo dottorando in Filologia Moderna, porta a Pavia dalla sua Salerno un’intelligente giocosità, che eleva i suoi versi da divertissement a poesia, per l’arguzia e la finezza, nonché per i fini rimandi letterari ed extraletterari.
Complessa e molto attenta ai rapporti interpersonali è la poesia di Matteo Poletti, dottorando pavese come Petrosino: è la dimensione interiore a prendere il sopravvento rispetto a qualunque notazione spaziale, secondaria se escludiamo una pungente descrizione di Pavia, «Mecca di chi il tempo lo ricama».
Chiude l’antologia la silloge variegata (sia per stile che per contenuti) di Flavio Santi, con ricordi di vita e di morte, ma anche d’amore, di incontri e di speranze. Le sue poesie così diverse testimoniano, ancora una volta, quanti argomenti si affrontino in queste pagine, ora con drammaticità, ora con leggerezza, ora con un sorriso o con un rimpianto, o ancora con una malinconia che si vela di nebbia, o si adombra di sotto ai pampini.

E, si badi, tutte queste tematiche non restano racchiuse nell’antologia, ma hanno la forza di sprigionarsi ben oltre la parola scritta, ben oltre la dimensione privata o la nicchia di studiosi e, ci auguriamo, ben oltre il Po.

GMG

"Essere o non essere" secondo Calvino

Il cavaliere inesistente
Italo Calvino
I ed. 1959, Mondadori

Se potessimo ipotizzare l’esistenza di una “biblioteca viva”, in cui i personaggi dei romanzi abbiano carne e ossa con cui presentarsi al Lettore, la sezione dei classici contemporanei sarebbe occupata da una folla di uomini spaccati a metà, dallo sguardo sfuggente, forse sospesi in bilico su un filo, o con uno squarcio al centro del petto: tutti accomunati, però, dal fatto di essere personaggi in crisi, di portare sul loro volto e comunque nelle loro storie la traccia di una certezza sul self che è venuta a mancare.
Tra questi personaggi troveremmo un cavaliere dall’armatura bianca, perfettamente pulita e lucente. Tra tanti piccolo-borghesi, intellettuali, proletari e partigiani, sembra si tratti di una svista, un volume scappato dalla sezione dei poemi cavallereschi. In un certo senso lo è: Agilulfo Emo Bertrandino di Guidiverni e degli Altri di Corbentraz e Sura, cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez, Il cavaliere inesistente, vive nello stesso multiforme universo dei paladini della Chanson de Roland (o meglio: del Furioso di Ariosto). Ma perché, allora, un cavaliere dovrebbe guadagnarsi a pieno diritto un posto tra i personaggi emblematici della contemporaneità?
La risposta è tutta nella vulcanica fantasia di Calvino. Una fantasia che ragiona per relazioni funzionali, e per emblemi che hanno tutto il fascino di allegorie postmoderne. Agilulfo è infatti uno degli Antenati calviniani (Il cavaliere inesistente completa, nel 1959, la trilogia araldica iniziata con Il visconte dimezzato nel 1952): scelto e costruito perché racconti qualcosa dell’uomo contemporaneo, delle sue nevrosi e dei suoi problemi esistenziali.
L’aggettivo non è casuale: Agilulfo, infatti… non esiste. L’armatura bianca, al suo interno, nasconde il vuoto, e il cavaliere si tiene in vita solo grazie a un continuo esercizio della volontà: “Aveva sempre bisogno di sentirsi di fronte le cose come un muro massiccio al quale contrapporre la tensione della sua volontà, e solo così riusciva a mantenere una sicura coscienza di sé. Se invece il mondo intorno sfumava nell’incerto, nell’ambiguo, anch’egli si sentiva annegare in questa morbida penombra, non riusciva più a far affiorare dal vuoto un pensiero distinto, uno scatto di decisione, un puntiglio. Stava male: erano quelli i momenti in cui si sentiva venir meno; alle volte solo a costo d’uno sforzo estremo riusciva a non dissolversi. Allora si metteva a contare: foglie, pietre, lance, pigne, qualsiasi cosa avesse davanti. O a metterle in fila, a ordinarle in quadrati o in piramidi. L’applicarsi a queste esatte occupazioni gli permetteva di vincere il malessere, d’assorbire la scontentezza, l’inquietudine e il marasma, e di riprendere la lucidità e compostezza abituali.”
La realtà tragica dell’uomo-che-non-è si consuma tutta nel tentativo di dimostrare di esistere: e non è forse una costante dell’indole umana, specie nel tempo in cui tutto si sfalda, le percezioni si fanno relative e illusorie? Compensa la tragedia di Agilulfo la sua nemesi, Gurdulù, “uno che c’è ma non sa di esserci”, portavoce di un tipo di esistenza animalesca, di fusione indifferenziata con il tutto. Per ironia della sorte Gurdulù è assegnato come scudiero ad Agilulfo.
Intorno a loro, in un intrecciarsi di avvenimenti che fa pensare davvero ad un Ariosto novecentesco, nel suo divertito raccontare “le donne, i cavallier, l’arme, gli amori”. A impugnare le redini del racconto è una suora, Teodora, che condannata a scrivere per penitenza si trasforma in una narratrice ironica, inaffidabile e misteriosa: una vera e propria guerra con la pagina scritta, che si trasforma in campo di battaglia, locus amoenus ma anche carta geografica medioevale, nel più originale stile calviniano.
Uno stile che ci garantisce tutto il gusto di una lettura che galoppa come un cavallo in corsa: perché “La novella è un cavallo: un mezzo di trasporto, con una sua andata, trotto o galoppo, secondo il percorso che deve compiere, ma le velocità di cui si parla è una velocità mentale.” (Lezioni Americane)
Una sola cosa è certa: Il cavaliere inesistente è uno di quei libri da rileggere più e più volte. Ogni volta si scoprirà un nuovo spunto di riflessione sui quei grandi temi che attraversano tutta la produzione di Calvino… l’uomo, il mondo, la scrittura.

Laura Ingallinella

"Sarà dura spiegarlo giù in centrale" di Gianni Sarti


Sarà dura spiegarlo giù in centrale
di Gianni Sarti
Lulu.com Edizioni, 2009

pp. 184

Attraverso le righe che seguiranno verrete portati per mano alla conoscenza di un nuovo libro, appena uscito e che spero farà tanta strada, di parola in parola tra le persone amanti della fantascienza e non.
Ma in realtà di cosa stiamo parlando? Di un'antologia di racconti di fantascienza. Sono sempre stata piuttosto scettica sia sulla forma scelta, che sul genere. Di solito evito accuratamente di leggere queste piccole storie, spesso troppo brevi per coinvolgere il lettore, con personaggi appena accennati che si muovono in luoghi non ben definiti; insomma, normalmente sono più la fantasia e lo stato d'animo del lettore che arricchiscono la storia e la rendono leggibile piuttosto che le parole dell'autore stesso. I racconti mi hanno sempre lasciato l'amaro in bocca come a pensare che lo scrittore avesse raccolto degli schizzi di pensieri incompleti, senza aver avuto la costanza e la forza di volontà di completarli e dargli finalmente una forma rispettabile e dignitosa di romanzo. Che dire poi della fantascienza, tutti noi almeno una volta abbiamo immaginato navi spaziali, razze aliene, avventure ai confini dell'Universo, ma quanti hanno saputo far diventare queste fantasie credibili, reali?
E' proprio quello che Gianni Sarti è riuscito a fare.
Nella sua antologia "Sarà dura spiegarlo giù in centrale" riesce anche solo con pochissime pagine a delineare un mondo tanto distante da noi nel tempo e pure così vicino grazie ai temi universali trattati mai banalmente e le problematiche che, in quanto intrinseche all'uomo, resteranno sempre quelle, purtroppo o per fortuna, per tutte le ere a venire. Ogni racconto per quanto piccolo è un gioiello di completezza vissuto da personaggi di cui si intuiscono subito i tratti caratteriali, le paure, le ansie, le speranze che li compongono ottenendo una caratterizzazione completa ed elegante che ci permette di immedesimarci nell'arco di pochissime righe. Alla fine di ogni storia non penserete mai "vabbè, ma poi che succederà?" sarete pienamente soddisfatti e l'unico pensiero sarà quello di andare avanti per perdervi nuovamente in un altro piccolo mondo.
Il genere è sì di fantascienza ma ci sono note horror, tanto terrificanti quanto ben elaborate e mai banali. Ritroviamo critiche alla società moderna armonizzate in contesti futuri ma comunque valide. Ci sono tratti di poesia strazianti che non rimangono in superficie pur essendo a volte anche semplici accenni ma comunque dotati di peso sulla sensibilità di chi legge. Alcuni monologhi assomigliano a quelli di Fahrenheit 451, senza scimmiottamenti però, restando piacevolmente originali.
Gianni Sarti scrive di quello che conosce, il mondo dell'informatica, la passione per il parapendio, non si addentra in campi di cui potrebbe essere solo un banale osservatore solo per fare colpo sui lettori ( ottenendo fra, l'altro secondo me, solo l'impressione di essere presuntuosi e superficiali, cosa che questi racconti non sono mai). Nonostante questo non ci sono mai noti tecniche troppo complicate, ognuno di noi può ritrovare pezzi di proprie conoscenze o reminescenze di un passato comune.
Si avverte in tutto il libro una forte sensibilità senza cadere nella sdolcinatezza da diabete fulminante e anche in momenti davvero toccanti il ritmo della scrittura è sempre frizzante, ben scandito con il respiro del lettore che si ferma o accelera in armonia con le vicende dei protagonisti.
Spero di essere riuscita nel mio intento iniziale e nei buoni propositi che mi ero imposta. Questa antologia mi ha emozionata, mi ha fatto divertire, riflettere, sorridere di tenerezza, cosa si può volere di più da un racconto di fantascienza?

Troverete il libro a cui si fa riferimento nel link che segue:
http://www.lulu.com/content/libro-a-copertina-morbida/sarà-dura-spiegarlo-giù-in-centrale/7248045

Bisogna avere fiducia!


Io sono Dio
di Giorgio Faletti
Baldini Castoldi Dalai (2009)
p. 523

Quando i risultati raggiunti in passato sono stati entusiasmanti, il compito di accontentare la critica diviene, per un artista, ogni volta più difficile. Giorgio Faletti, del resto, ha esordito nella letteratura thriller con “Io uccido” (2002) prima opera che ha lasciato a bocca aperta vendendo oltre 4 milioni di copie. Ma l’autore è avvezzo a certi colpi di scena: chi lo ha conosciuto nella veste di “paninaro” nel Drive in degli anni ’80, non può dimenticare l’emozione e l’incredulità di sentirlo cantare sul palco di Sanremo 1994 la commovente Signor tenente, brano che gli è valso il secondo posto, ad un passo dalla vittoria. Dunque attore, autore, cantante, scrittore.

Dopo l’esordio, nel 2004 ha pubblicato “Niente di vero tranne gli occhi”, nel 2006 “Fuori da un evidente destino”, nel 2008 la raccolta di racconti “Pochi inutili nascondigli” e, infine, “Io sono Dio”.

L’effetto sorpresa è quindi passato ed ora si fanno i conti con i lettori.
Il titolo è sicuramente affascinante. D’effetto. Il libro cattura lo sguardo dallo scaffale e viene voglia di comprarlo. L’uscita a maggio 2009 è, poi, strategica e lo ha di diritto consacrato libro dell’estate. La trama, però, non è proprio estiva.

Ambientato nella New York dei nostri giorni, rievocando un po’ il disastro dell’11 Settembre, affonda le sue radici nella guerra del Vietnam causa del disagio psicologico di un reduce che ricerca la sua vendetta giocando con l’esistenza di numerose, occasionali e indistinte vittime. Faletti ripropone un’ambientazione internazionale la quale porta con sé nomi di persone e di luoghi stranieri. Se ciò non ha creato alcuna difficoltà in precedenza, in questo specifico caso non agevola il lettore, costretto nelle prime 200 pagine ad orientarsi faticosamente tra i continui flashback e l’alternarsi di episodi di vita passati e presenti dei personaggi. Non nascondo di essermi spesso trovata a dover rileggere alcune pagine proprio per capire di chi e di cosa stessimo parlando. E questo non aiuta la suspence.

Ma il modo di scrivere di Faletti, la fluidità e la minuzia nelle descrizioni induce ad andare avanti, mettendo da parte una certa tentazione di abbandonare la lettura un po’ lenta e difficoltosa, quasi in un atto di fede dettato dal successo dei precedenti scritti. Atto di fede ben riposto perché l’autore non delude. Superate le prime 200 pagine, chiari i personaggi e lo scenario, ci si addentra con ritmo incalzante nelle indagini condotte dai protagonisti, una giovane detective newyorkese e un reporter in cerca di riscatto, le cui vite si incrociano dando modo al lettore di discostarsi, in certi momenti, dal dramma della distruzione per sognare di fronte alla forse scontata nascita di una storia d’amore.

Le pagine scorrono fluenti, si viene coinvolti dai problemi personali dei protagonisti, dalle loro storie e dalle investigazioni, condotti in un percorso in discesa fino alla fine del libro, dove il lieto fine regna sovrano strappando un sorriso al lettore che, magari, non si avvede della mancanza del più classico colpo di scena finale, a mio modesto parere, non sempre necessario.

Nel complesso non è assolutamente il flop che alcuni critici hanno descritto ma, allo stesso tempo, non è di certo il miglior libro di Faletti e può lasciarvi soddisfatti ma un po’ dubbiosi, soprattutto se letto dopo aver divorato un Grisham o un Brawn. Naturalmente, e questo è scontato, sempre che abbiate resistito alla tentazione di chiuderlo nelle prime 200 pagine!!!

Silvia Surano

Un canzoniere d'amore per il XXI secolo


Ballammo un’estate soltanto
di Renzo di Renzo
Amos Edizioni, Mestre 2009

pp. 105
con disegni di Isotta Dardilli
€ 12,00

Varie sono le reazioni alla velocità degli anni Duemila e allo sgretolamento totale delle linee poetiche. Renzo di Renzo, già autore di poesie, sceglie una via personale e innovativa, ovvero un canzoniere amoroso di poesie rarefatte.
Su fogli bianchissimi e pergamenacei non hanno esitazioni né i distici né le singole quartine che, spesso monofrasali, campeggiano con le loro lettere nere. Il poeta non teme neanche di frantumare i versi in brevi sintagmi, semplici per il lessico, ma accostati in modo del tutto personale, per dare risalto al valore semantico, senza dubbio potente:

Quante volte ti ho vista
salire su un treno in corsa
e senza biglietto.

Volevo essere allora
il controllore distratto,
che ti chiede il sorriso
e ti oblitera un braccio.

(p. 45)

Questa poesia, giocata sulla trasfigurazione di un evento abituale in qualcosa di superiore, offre una serie di riflessioni sui caratteri dominanti della raccolta. Innanzitutto, è frequente (quasi costante) la presenza della donna, dedicataria del canzoniere. La sua identità resta celata, perché, d’altra parte «Non hai volto né nome,/ né respiri o parole:/ sei soltanto quei gesti,/ e la mano che li muove» (p. 40).
Pertanto non contano i contorni, i lineamenti, ma ciò che rende l’amata riconoscibile nella folla. La donna si muove in una dimensione indefinita, per quanto quotidiana e realistica: polverizza l’importanza delle notazioni cronologiche e spaziali, le annulla in sé e nel proprio sentimento:

Dove? – lontano
Quando? – prima o poi
Per non doverci dire
in nessun luogo,
mai…

(p. 34)

E dunque la poesia si popola di immagini, di gesti, di movimenti, più che di aggettivi connotanti o di notazioni descrittive. L’amata, dall’identità inafferrabile, resta terrena, ancorata alle asperità del suolo e all’imperfezione connaturata all’uomo, per cui il suo nome «non l’hanno scritto i poeti,/ ma un dio figurante/ che sbaglia i miracoli» (p. 28). Non avrebbe senso, con quanto detto, citare il nome di questa donna, perché Renzo di Renzo sembra suggerire che la sua storia è plasmabile su altre storie, ma anche riducibile al nulla; un po’ come in questa breve ma efficace quartina:

Ho scritto i nostri nomi
nel posto in cui ci incontravamo:
“qui non vissero,
non morirono…”

(p. 30)

Si noti come domina l’uso del passato prossimo, combinato con l’imperfetto, per poi passare alla definitezza del passato remoto, negato da una doppia negazione e dal parallelismo, di sicuro impatto.
Un canzoniere privatissimo, dunque, fatto di immagini strappate alla memoria, ma disordinatamente, secondo l’itinerario del cuore, e non quello della ragione. Così le tre sezioni che compongono la raccolta – Balli di gruppo – Passo a due – Assolo – segnano il progressivo ripiegamento in se stesso, senza però escludere la donna. Aumenta, semplicemente, la coscienza di sé e del proprio sentimento. Ma anche dell’effimero che regge ogni vita, destinata a finire nell’oblio, senza quasi lasciare traccia né cambiare l’itinerario del mondo:

No, io non credo
che i nostri nomi rimarranno
incisi in un muro,
nella ferita di un ramo.

Piuttosto saremo noi a portare
di quel muro un segno,
saremo noi di quel ramo
a ricordare l’incavo.

(p. 74)

Non resta che domandarsi quanto il ballo sia metafora sentimentale e quanto invece rimandi all’esistenza stessa: per questo, spero di poter domandare all’autore stesso, prossimamente, per la nostra sezione “Il Salotto”. Senz’altri indugi, mi sembra di aver proposto sufficienti indizi per svelare il valore di questo canzoniere, in grado di lasciare con gli occhi lunghi oltre l’orizzonte, ad ascoltare la voce di chi vorremmo affianco.

GMG

Indignazione Philip Roth


Indignazione
di Philip Roth
Torino, Einaudi, 2009

Traduzione di N. Gobetti
pp. 136
€ 17.50

Philip Roth è uno degli autori che ha usato gli alter ego come stile di narrazione.
Autore americano tra i più seguiti con oltre 21 romanzi, si è incarnato in Philip Roth, in Alexander Portnoy, in Nathan Zuckerman e in Nathan Tarnopol e ancora in David Kepesh. Nel suo ultimo romanzo pubblicato in Italia, Indignazione, troviamo un Roth vorace e pietrificante che vive nella vita di Marcus Messner, giovane adolescente al secondo anno di università, mentre la guerra in Corea miete vittime. Marcus è un ebreo, scappa da casa per rifugiarsi in un college dell'Ohio a molti chilometri di distanza da Newark. Si ritrova in un luogo immerso nel verde e si concede del tempo per farsi una serie di domande.

La sessualità ha un ruolo cruciale nel romanzo, come sempre per Roth. E' una chiave che apre le porte della conoscenza del mondo. Marcus incontra Olivia, aspirante suicida, quasi per passione. Con lei si intrufola nei piaceri dei sensi e da lì nascono una serie di domande, alle quali Marcus non può dare una risposta, anche se ci prova. Si arrende alla fine al compromesso più grande, quello fondato sulla consapevolezza che "le scelte più accidentali, più banali, più comiche, producono gli esiti più sproporzionati".

Indignazione sottolinea lo stato d'animo di chi si sente inadeguato, e anche questa consapevolezza non salva chi vi ci approda. Roth spinge a credere di poter essere rivoluzionari ma alla fine lascia Marcus in Corea, maciullato, tranne i genitali ovviamente.
Indignazione è la memoria di un morto, ma questo Roth lo farà intendere quando il lettore è già da tanto nella storia, dedica pagine alla descrizione del mondo ultraterreno fatto di tutto tranne che del tempo e lascia che tu ti faccia questa domanda: "Marcus è morto o ha inserito nelle vene una enorme dose di morfina?"

Emma Gabriele

Tra favola, racconto, epos: "L' isola di Arturo" di Elsa Morante


L'isola di Arturo (1957)
di Elsa Morante
Einaudi

pp. 402
€ 13 (cartaceo - prezzo riaggiornato al 2022)
€ 6,99 (ebook)



Al centro de “L’isola di Arturo” sta la dimensione della favola, del racconto, dell’epos. Elsa Morante ha sempre reso l’affabulazione, il gusto dell’invenzione narrativa elementi chiave del suo scrivere. Tutto questo emerge da ogni singola parte di questo romanzo con il quale, non a caso, l’autrice intendeva rivaleggiare con grandissimi modelli del passato quali ”L’Orlando Furioso”, nel progetto di dar vita ad una costruzione romanzesca totale, definitiva e grandiosa. E sebbene in vesti diverse, si potrebbe azzardare che anche ne “L’isola di Arturo” non manchino “Le donne, i cavalieri, l’arme , gli amori…”. 
L’adolescenza di Arturo Gerace è raccontata nei toni di un’impresa avventurosa, di una conquista quotidiana di un posto fra gli eroi della Storia, di un’ardua lotta per l’affermazione del proprio valore. A creare questo clima di fascinosa avventura concorre soprattutto la figura del padre idealizzato Wilhelm che periodicamente torna a Procida per poi lasciarla misteriosamente diretto chi sa dove. 
Il figlio lo immagina come il più grande dei condottieri e fantastica sperando, un giorno, di poterlo aiutare a compiere le sue grandi imprese. È da qui che parte la crescita di Arturo, da un atteggiamento di devozione-emulazione nei confronti di un padre scostante, ma anche dal rapporto con la sua isola, terra prediletta, luogo incontaminato, rigoglioso, pieno di colori e sapori mediterranei. 

Elsa Morante scandisce nelle otto parti in cui si divide l’opera il percorso di maturazione del giovane protagonista, raccontandone la vita sin dalla nascita, ma concedendo spazio di gran lunga più ampio agli anni dell’adolescenza, oggetto privilegiato della sua “indagine”. 
Arturo cresce soprattutto tramite l’incontro con Nunziata, matrigna-coetanea, verso la quale il ragazzo nutre sentimenti contrastanti fino poi a scoprirsi di lei innamorato e, ancora, tramite la scoperta dell’omosessualità del padre e dei suoi torbidi viaggi al Penitenziario di Procida. 
L’amore per Nunziatella e la caduta del mito paterno (nonché l’iniziazione sessuale con una giovane isolana) sanciscono il passaggio dalla fanciullezza alla virilità, e questo non può che essere suggellato da un allontanamento finale dall’isola e un avvicinamento alla Storia, fino ad allora esclusa dal romanzo (la partenza per la guerra). 

Le tematiche che varrebbe la pena approfondire sarebbero tantissime: una fra tutte, il contrastato rapporto uomo-donna e la concezione di quest’ultima nel romanzo. Fin dalle prime pagine la Morante rivela un’esplicita misoginia: Wilhelm, Romeo, Arturo e tutti gli abitanti di Procida considerano le donne non sono inutili, ma quasi dannose. Questo si lega alla scelta di temi come quello dell’omosessualità o a determinati episodi-chiave come quello della morte per parto che accumuna la madre di Arturo e la cagnetta Immacolatella. 
Sarà Nunziata a suggellare il passaggio di Arturo dall’amore infantile per la madre a quello adolescenziale per la donna e lei diverrà la prima (ed unica) donna del romanzo alla quale Arturo non rivolge parole di disprezzo (non a caso, spesso alla sua figura si lega quella della Vergine Maria). 
Le componenti maschili e quelle femminili entrano comunque in continua dialettica, non solo nel soggetto del romanzo ma nella scrittura stessa dell’autrice che metteva su carta il suo “antico desiderio di essere un ragazzo” e che viveva in quegli anni una vera e propria “felicità” di raccontare, vestendo i panni del ragazzo Arturo (che, è bene puntualizzarlo, è voce narrante del romanzo). 

Questo era solo uno dei motivi per i quali l’autrice nutriva una reale predilezione per il romanzo, del quale curò meticolosamente tutte le tappe compositive dando precise disposizioni in merito alla veste che avrebbe dovuto assumere. Da qui le particolari caratteristiche tipografiche, lo sforzo di costruzione e soprattutto la fitta trama di intertestualità che lo compenetra. I capitoli I, VI, VII, VIII si aprono con delle citazioni poste in esergo tratte da autori dall’autrice prediletti quali Saba, Penna, Rimbaud e Mozart, che stanno a sottolineare alcune delle parti più significative del romanzo. Ma non finisce qui: l’autrice si garantisce un posto di rilievo all’interno della sua opera “preferita” dedicando il componimento di apertura a Remo Natales, che altro non è che un anagramma di Elsa Morante. Questa lirica si conclude così: “Fuori del limbo non v’è eliso”, frase simbolo della condizione di Arturo che vive quello stato di quasi precoscienza che è la fanciullezza in un microcosmo separato, atemporale e fuori dalla Storia come l’isola di Procida, territorio prediletto per indagare questa condizione (che alla Morante stava particolarmente a cuore, come si evince da altri romanzi come “Menzogna e Sortilegio” o il progetto incompiuto “Nerina” che assieme a “L’isola di Arturo avrebbe dovuto costituire il dittico “Due amori impossibili”). 

In anni di neorealismo in cui i giovani che popolavano le pagine della letteratura erano Agostino, Riccetto e i “ragazzi di vita” pasoliniani la Morante sceglie di raccontare l’adolescenza tramite la fiaba, il sogno, raccontandoci tante storie fuori dalla Storia e proponendoci un romanzo che poco ha a che fare con le coeve esperienza italiane, un ‘opera tradizionale, ottocentesca nel senso più completo del termine, ma allo stesso tempo novecentesca vista la presenza, sebbene velata, di autori come Pasolini e Freud. E il linguaggio rispecchia tutto questo facendosi affabulazione pura, gusto per le analogie e i parallelismi, traducendosi talvolta nel mito per la sua “universalità”.


Claudia Consoli


Nel 2009 anche i libri sentono la crisi: la piccola e media editoria in mostra a Belgioioso a “Parole nel tempo”



- cronaca delle due giornate del 26-27 settembre 2009 a Belgioioso -

Più libri e anche più espositori rispetto agli altri anni. Da quando è nata Critica Letteraria, passeggio tra le proposte editoriali e i sorrisi colmi di aspettative degli autori che a Belgioioso presentano le proprie opere, con particolare attenzione per le uscite dell’ultima annata. Così anche quest’anno. Ma sabato uno spettacolo scoraggiante mi ha accolta: la quasi totale desolazione. Le sale tirate a lucido con poche decine di piedi che le calpestassero; gli editori e i responsabili in attesa di qualcuno che si avvicinasse, che ascoltasse le proposte e anche solo chiacchierasse della comune passione letteraria; le presentazioni punteggiate delle solite presenze che, ogni volta, ritrovo a Belgioioso (addetti ai lavori, critici, insegnanti, qualche curioso affezionato).


“Sembra ormai quasi inutile, questo festival”, si vocifera nelle pause e al bancone del bar, ma non troppo forte, perché anche gli editori più disillusi conservano un fondo di speranza. Qualcuno sostiene che la formula sia ormai superata, perché Belgioioso, pur restando il paese fondatore di questa tipologia di mostra per la piccola e media editoria, ha figliato nel centro-nord d’Italia tante mostre simili, e non catalizza più l’attenzione. Bisogna forse adattarsi all’idea che la lettura interessa meno italiani di un tempo. A quanto pare, anche i sette euro di biglietto (cinque per il biglietto ridotto, concesso da quest’anno anche agli universitari) sembrano aver poi contribuito ad allontanare parte del pubblico.

Ora, la crisi c’è, e si misura purtroppo anche in questa occasione, che da molti anni veniva considerata un’ottima gita fuoriporta. E ancora dovrebbe esserlo. Perché, parliamoci chiaro, spesi quei sette euro, si può restare un’intera giornata a contatto di libri difficilmente reperibili altrove, si leggiucchiano i risvolti di copertina, ci si lascia consigliare e raccontare da chi conosce davvero i libri che vende. Gli autori incontrano i lettori, presentano le proprie opere con quella sottile ansia che tradisce anche i più sicuri di sé, dopo le introduzioni di esperti letterati. Scappano autografi, applausi e domande, dubbi, semplici strette di mano e presentazioni.


Come ogni anno, due mostre collaterali segnano il percorso per i corridoi del castello. Questa volta è toccato a una mostra fotografica intitolata “Un uomo contro”, con l’idea di rappresentare la vita di Romano Bilenchi attraverso le sue tappe fondamentali. E alla mostra “Stefano e i suoi amici”, organizzata da Gabriele Dadati e dalla redazione di «Ore piccola», sono stati esposti i quadri preferiti dello scomparso Stefano Fugazza, critico e storico dell’arte piacentino che è stato alla direzione della Galleria Ricci-Oddi per molti anni.
The last but not the least, c’è la splendida cornice del castello, il parco con la sua semplicità, il piacere di scegliere una panchina o l’erba per scartare dal cellophane i propri acquisti e assaporarli alla penombra delle piante secolari. E, piccolissima parentesi pratica, non occorre neanche scomodarsi a uscire per i pasti: l’ottimo ristorante interno e il bar soddisfano senza problemi le esigenze di tutti.

Dunque, non capisco la morìa di sabato e la sfumata presenza di domenica. Ne parlavo con l’amico Massimo Ciani, direttore della Sef (Società Editrice Fiorentina), e con il suo simpaticissimo autore, Fabrizio Altieri (che ha recentemente pubblicato La tela del ragno Calatrava): non sono state mie semplici impressioni, ma purtroppo i biglietti strappati all’ingresso sono visibilmente calati. Se questo ha offerto a noi di CriticaLetteraria l’occasione per parlare più distesamente con gli editori senza essere incalzati dal pubblico, purtroppo dall’altra parte degli espositori era palese l’attesa di ondate di lettori, come era accaduto agli scorsi appuntamenti.


Un momento duro, quindi. Ma devo ammettere che molti autori hanno saputo aggirare il problema delle sale semivuote in nome dell’amore per la scrittura; come Silvio Raffo, che ha incantato il pubblico per oltre un’ora con il suo saggio sulla Dickinson (La Sposa del Terrore): argomento non facile da veicolare in una presentazione, ma godibile e appassionante nella resa. O la professionalità con cui la Professoressa e stimata critica Clelia Martignoni e il ben noto critico Giancarlo Ferretti hanno illustrato gli scritti inediti di Volponi usciti per Manni nel 2009. O la spontaneità con cui lo scrittore lomellino Angelo Ricci ha risposto alle acute domande di Giuseppe Polimeni sul suo primo libro Notte di nebbia in pianura (leggi la nostra recensione e l’intervista). Questi sono esempi estratti a caso dalla folta schiera di presentazioni, a cui potrei aggiungere le letture poetiche coordinate dalla competenza di Gabriela Fantato, o la lettura delle nuove poesie di Jean Flaminien, accompagnato dalla sua traduttrice Marica Larocchi.


In molti si sono incuriositi al nostro progetto, specialmente per lo spazio che noi dedichiamo agli scrittori emergenti (ci piace chiamarli così, suona come un augurio). Così, tanti sono i libri a cui dedicheremo nei prossimi mesi una recensione, con annessa intervista agli autori, qualora ne fossero interessati, per la nostra sezione “Il Salotto”. Ma altrettante anche le scoperte librarie, quei libri rari (o inediti) di autori notissimi che non sono mai stati stampati o ristampati, come Le vie della città di Emilio Cecchi, riproposto per le edizioni Amos, grazie all’attentissimo lavoro del suo direttore Michele Toniolo. O Il viaggio in paradiso del Capitano Stormfield di Mark Twain e il primissimo romanzo di Kipling, La luce che si spense, ritrovati e proposti per le curate collane di Gaalad. Questi sono solo alcuni dei titoli che leggerete prossimamente sul nostro CriticaLetteraria, a cui si sommano decine di altri libri, in attesa sulle nostre scrivanie.

Gloria M. Ghioni

** Le fotografie, nell'ordine:
1) Castello di Belgioioso, sabato pomeriggio
2) Folco Portinari che presenta Figlia d'arte dell'amico e collega Guido Davico Bonino
3) Scatto della mostra fotografica su Bilenchi
4) Silvio Raffo interpreta una poesia di Emily Dickinson
4) Jean Flaminien e la sua traduttrice Marica Larocchi

Appunti su "Se una notte d'inverno un viaggiatore" (seconda parte)


Italo Calvino,
Se una notte d'inverno un viaggiatore
Mondadori, 1979

Per leggere la prima parte, clicca qui.

La cornice del Viaggiatore si articola su una serie di romanzi inconclusi, di cui Calvino ci presenta soltanto gli incipit interrompendoli in momenti di notevole suspense. Si tratta di dieci “embrioni di romanzo” appartenenti a generi diversi, così classificati dallo stesso autore sulla scorta della classificazione di Angelo Guglielmi nella sua recensione del ’79: “Un romanzo tutto sospetti e sensazioni confuse; uno tutto sensazioni corpose e sanguigne; uno introspettivo e simbolico; uno rivoluzionario esistenziale; uno cinico-brutale; uno di manie ossessive; uno logico e geometrico; uno erotico-perverso; uno tellurico-primordiale; uno apocalittico-allegorico” (dichiarazione avvenuta durante una conferenza tenuta all’Istituto italiano di Cultura a Buenos Aires nel 1984).
Ognuno di questi romanzi è, nelle intenzioni di Calvino, un “apocrifo”, un libro cioè che s’immagina sia stato scritto “da un autore che non sono io e che non esiste”. È un’idea che tenta anche lo scrittore in crisi Silas Flannery, alter ego di Calvino, ma l’impresa della creazione dei dieci apocrifi risulta fallimentare: per quanto sperimenti generi diversi, saggiando con ironica sapienza narrativa gli espedienti più in voga della narrativa di consumo, Calvino finisce con l’essere irrimediabilmente riconoscibile. Il marchio d’identità di Calvino, per questi romanzi interrotti, sta nell’essere tutti (nessuno escluso), dei metaromanzi, così come è scopertamente metaromanzesca la cornice che li lega: una tecnica, rintracciabile sin dal Cavaliere inesistente, che plasma la materia narrativa come se il romanzo fosse scritto proprio nel momento in cui è letto; tecnica che insiste sul particolare pittorico delle emozioni, che si stratificano come pennellate. L’io dei meta-romanzi interrotti racconta la sua storia come qualcosa di consapevolmente letterario, soffermandosi sul gioco di forze e colori: non di rado, suscita un emozione o un dato insieme di sensazioni descrivendo il modo in cui vorrebbe che queste si materializzassero sulla pagina.
Di fatto, queste si materializzano: la stazione di Se una notte d’inverno un viaggiatore (il primo frammento di romanzo) emerge a malapena dalle nebbie e tra queste rimane sospesa; le perverse percezioni, analitiche fino allo spasmo, del protagonista di Sul tappeto di foglie illuminate della luna si susseguono sulla pagina come “la sensazione d’ogni singola foglia di gingko”.

La gioia (impura perché contaminata dall’autocoscienza, ma sempre alla ricerca di una leggerezza ritenuta necessaria e possibile) della narrazione e della lettura, dunque, si fa un tutt’uno in questo romanzo, del quale la migliore definizione resta quella data dal suo autore, in quella conferenza del 1984: “È un romanzo sul piacere di leggere romanzi”.
Un piacere che non ci abbandona, ma si completa, quando il Lettore pronuncia la sua ultima battuta: “Ancora un momento. Sto per finire Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino”.

Laura Ingallinella

Invito alla lettura: la costanza dell'attesa



Persuasione
di Jane Austen
Milano, Mondadori, 2002

1^ edizione: 1816-17

Quando apparve Persuasione, così diverso dal quasi contemporaneo Emma, già agli occhi dei contemporanei fu chiaro un cambiamento nella produzione di Jane Austen. Non più l'affascinante donna borghese che corona la propria formazione in un matrimonio idilliaco con il ricco promesso, ma qualcosa di più profondo. E modernissimo.
Se la protagonista, Anne Elliot, s'inserisce nei canoni della figlia devota, borghese, ben educata, ha in sé anche qualcosa di più: la maturità data da un'età piuttosto avanzata per l'epoca, ma anche l'indipendenza di una donna non sposata ma completa. I sentimenti per l'affascinante ufficiale Frederick Wentworth non sono quindi dettati da un'insufficienza di equilibrio o da una necessità pratica, ma dalla totale dedizione con cui Anne ha sempre coltivato la sua passione, nonostante la lontananza di anni. Anni in cui Wentworth ha viaggiato e ha accumulato esperienza, ha migliorato ulteriormente la propria reputazione aumentando anche i risparmi. Anni in cui, invece, Anne ha iniziato a contare le rughe sul suo volto e a considerare la possibilità di restare sempre «soltanto Anne», chiusa nella sua cerchia di amici e famigliari, disponibile e attenta alle convenzioni sociali, ma non lontana da pensare alla possibilità di maritarsi.
Il ritorno di Wentworth scuote Anne dalla convinzione di aver raggiunto una sorta di statica pacificazione. Terribile e logorante è il corteggiamento di Wentworth nei confronti di un'amica di famiglia, Louise, davanti agli occhi sofferenti di Anne. Ma anche insopportabile per Wentworth sono le attenzioni che il cugino Elliot dedica ad Anne. Gelosia e rassegnazione sembrano combattere una lotta impari, fino al trionfo della gelosia che permette a Wentworth di tornare sugli antichi sentimenti per Anne e dichiararsi.
Una happy-end, quindi? In tal caso, Persuasione non sarebbe così distante dal resto della produzione di Jane Austen. Invece, il tema più innovativo e rivoluzionario è celato tra le righe, tra le rughe di Anne e la sua compostezza: è il passare del tempo. Persuasione, dunque, non solo riguardo l'amore, ma anche riguardo la propria posizione nel mondo, la sottile affermazione di sé, che Anne conduce indipendentemente da Wentworth.
Anche lo stile muta rispetto agli altri romanzi: niente a che fare con l'armoniosa prosa austeniana, né con la piacevole arguzia dei dialoghi salaci. Qui dominano periodi lunghi, contorti, non sempre limpidi (e per questo difficili da tradurre), come se la Austen si ripiegasse su di sé in maniera tanto personale da non preoccuparsi del lettore. Anche per queste caratteristiche così innovative, i cultori della Austen non possono non leggere la sua ultima opera.

GMG