Il presente prende per mano il passato, in "Stiamo bene così" di Nina LaCour




Stiamo bene così
di Nina LaCour
Il Castoro, 2023

Traduzione di Simona Brogli

pp. 222
€ 16,50 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)

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Quando, anni fa, avevo letto Ferma così di Nina LaCour, mi ero ripromessa di seguire questa autrice, di cui mi aveva colpita la delicatezza, la capacità di descrivere il lutto, la confusione, la solitudine, ma anche la forza che si annida nell’adolescenza, di comporre un romanzo che non fosse disperato, ovvero senza speranza, ma che trasmettesse pur in una storia che partiva da una tragedia l’energia positiva di un processo di ricostruzione identitaria. Tutto questo ritrovo nel più recente We Are Okay, nella traduzione italiana Stiamo bene così, che mostra un processo di maturazione autoriale in grado di non tradire le già ottime premesse.

La narrazione si avvia alle soglie delle vacanze di Natale. Lo studentato newyorkese in cui Marin risiede da tre mesi, nello specifico da due settimane dopo la morte di suo nonno, si sta svuotando. Anche la sua compagna di stanza, Hannah, sta per tornare a casa dalla famiglia, ma Marin non ha più una casa, né una famiglia, da cui tornare. Ha ottenuto quindi la possibilità di rimanere nell’edificio, svuotato di tutti i suoi abitanti, per il tempo che la separa dall’inizio delle lezioni del nuovo anno. Per la ragazza i giorni che la aspettano sono una grande prova, poiché la costringeranno a confrontarsi con il vuoto che si porta dentro e che non ha voglia di guardare, per paura che la trascini a fondo o, peggio, indietro, nel passato. Ne è prova la sua stanza spoglia, la scrivania sgombra, la bacheca ancora completamente libera, che suggerisce la sua volontà di non lasciare tracce di sé, di non ancorarsi a qualcosa che, come tutto, potrebbe anche essere perso. Solo che, adesso, una scadenza imminente le forza la mano: di lì a poco, infatti, arriverà Mabel.

Se la parola sola corrispondesse davvero al suo significato, mi dico, suonerebbe molto meno graziosa. Meglio affrontare questa cosa ora, però, in modo che non mi colga di sorpresa più tardi, in modo da non ritrovarmi paralizzata e incapace di tornare in me. Inspiro. Espiro. Tengo gli occhi aperti su questi nuovi alberi. So dove sono, so cosa significa essere qui. So che domani arriverà Mabel, che io la voglia qui o no. So che sono sempre sola, anche quando sono circondata dalle persone, quindi lascio entrare il vuoto. (p. 13)

In California, prima, prima di tutto quello che non si può dire e nemmeno pensare, Mabel e Marin erano amiche inseparabili, e per un po’ erano state anche qualcosa di più. La fuga di Marin, però, non annunciata e irreversibile, potrebbe aver reciso il legame che le univa: per mesi Mabel ha scritto e ha chiamato, senza ricevere risposta. Poi, a un certo punto, ha smesso e la vita è andata avanti con una nuova forma di quotidianità. Marin ha cercato di costruire la scenografia di una presunta serenità, ma la facciata è crepata e sottile, pronta a disgregarsi negli attacchi di panico, nella perdita di controllo sul pensiero, o sul respiro. Tutto ciò che appartiene al passato deve essere nascosto sotto il tappeto, o sopra l’armadio, come l’unica foto della madre, mancata quando lei era bambina; persino la letteratura deve essere respinta, come tutto ciò che è duttile, sfumato, passibile di interpretazioni, e quindi complicato. Il presente ha bisogno di realtà, ma di una realtà pragmatica, che da un lato non offra soluzioni consolatorie, dall’altro non porti a voli pindarici, non assecondi il divagare della mente, pericoloso in quanto non controllabile.

“Non essere una persona che cerca il dolore. Ce n’è già abbastanza nella vita”. […] Pensai che fosse più probabile il contrario. Io dovevo averlo chiuso fuori, il dolore. Lo avevo trovato nei libri. Avevo pianto sulle storie di fantasia invece che sulla realtà. La realtà era sconfinata, disadorna. Non aveva un linguaggio poetico, né farfalle gialle, né inondazioni epiche. Non c'erano una città intrappolata sott'acqua o generazioni di uomini con lo stesso nome destinati a ripetere gli stessi errori. La realtà era abbastanza vasta da annegarcisi. (pp. 87-88)

All’inizio del romanzo, appare evidente che l’enunciato del titolo non è veritiero, o quantomeno non lo è ancora, ed è tutto da vedere se possa diventarlo: la protagonista non sta affatto bene, e l’incontro con Mabel invece che rassicurarla la terrorizza, nell’incombere dei non detti e delle questioni in sospeso. Per Mabel, nonostante il tempo passato e gli inspiegabili rifiuti, la situazione è semplice: Marin deve lasciare New York e tornare a San Francisco con lei, dove i suoi genitori, che la considerano già come una seconda figlia, sono pronti ad accoglierla. Ma Marin non può andare, perché a San Francisco è ancora troppo viva la memoria del nonno, della loro vita insieme, del modo in cui tutto è finito, in cui la sua morte e ciò che ne è seguito ha travolto qualsiasi illusione, qualsiasi innocenza. Il filo della trama si dipana poco alla volta attraverso i capitoli, nell’alternarsi dei piani temporali, che riportano all’estate precedente, e al cuore del trauma di Marin.

Quando penso a tutti noi allora, capisco che eravamo in pericolo. Non per via del bere o del sesso o dell'ora tarda, ma perché eravamo così innocenti e non lo sapevamo nemmeno. Non c'è modo di riavere ciò che avevamo. La fiducia. La risata facile. La sensazione di aver lasciato casa solo per un po’. O di avere una casa cui tornare. Eravamo così innocenti da credere che le nostre vite fossero come pensavamo, che se avessimo messo insieme tutti i fatti che ci riguardavano, quel puzzle avrebbe formato un'immagine che aveva senso — che somigliava a noi quando ci guardavamo allo specchio, ai nostri soggiorni e alle nostre cucine e alle persone che ci avevano cresciuto — invece di rivelare tutte le cose che non sapevamo. (pp. 123-124)

Stiamo bene così è un romanzo sul lutto, sul modo in cui ci trasforma; è anche un romanzo sulla solitudine profonda, dolorosa, che rischia di spezzarci se ci rifiutiamo di riaprirci al mondo. Ma è anche un romanzo sull’amicizia e le seconde occasioni; sulle diverse forme che può assumere l’affetto e su ciò che si è disposti a fare, anche a scapito di se stessi, per proteggere chi si ama. È un romanzo sulla malattia mentale, che ci dice che a volte la volontà e le relazioni non sono sufficienti a salvare, ma è anche un romanzo contrario a ogni forma di pensiero deterministico, che mostra come sia possibile, dopo ogni caduta, ricominciare – nel giusto tempo, e con i giusti modi.

Nei pochi giorni che trascorre nel dormitorio, prima in attesa di Mabel e poi durante l’incontro troppo a lungo rimandato, Marin capisce che deve avere cura di sé stessa, trattarsi con la dovuta delicatezza, accettare la propria anima fragile. Deve riavvicinarsi alla letteratura, che ricorda che la vita è fatta di sfumature e di interpretazioni che non necessariamente devono essere nette, che ci produce dolore ma ci insegna anche come lenirlo. Non è un caso che, tra i molti riferimenti artistici e culturali che segnano la narrazione, perfettamente integrati nel vissuto delle protagoniste, un importante valore simbolico assuma il quadro di Frida Kahlo, Le due Frida, in cui il presente e il passato si tengono per mano, e un altro filo, un filo rosso – che è sangue, passione, legame viscerale – collega i cuori delle due giovani donne, quella ferita e quella apparentemente intatta, identiche eppure radicalmente diverse. Marin deve trovare il modo per accogliere la verità di ciò che è stato e non può essere cambiato, per provare a comprendere, per dare la mano alla ragazzina che era e che forse non è scomparsa del tutto. Deve capire come tornare a stare bene nella nuova realtà che le è data, che ha saputo costruirsi. Appunto, tornare a stare bene così.

Carolina Pernigo