«Già, le donne, per impaniare l'uomo, sono capaci di mille diavolerie. Ma con me è diverso, non sono un tordo, non m'invischio. Il figlio te l'ho dato per farti vedere chi ero, non per farmi acchiappare e infilzare in uno spiedo, come vorresti tu».«Che spiedo, Casimiro? Io il figlio te lo faccio e te lo regalo per dimostrarti i tuoi meriti. Per il resto, serva sono e serva resto. Certo, la convenienza ce l'ho anch'io. A una donna, il figlio in seno le riscalda l'anima, le scaccia la malinconia, le spiega perché è nata e la conforta della morte, che non conta più se la vita s'è raddoppiata».«Buon per te e per me se le cose stanno così, senza pretese da parte tua. Lo sapevo che eri brava e saggia. Per questo t'ho scelta fra cento e ti voglio bene, Concetta». (p. 53)
A volte bisogna lasciar parlare una porzione generosa dei testi che andiamo a proporvi. Perché in uno scambio di battute come questo c'è tutto: l'aggressiva convinzione di essere nel giusto affermando la superiorità maschile, la delicata arrendevolezza di una donna che non riesce ad alzare il capo e a opporsi alle decisioni di chi ama. Una dinamica di potere che si gioca ogni giorno tra le mura domestiche di Casimiro Badalamenti (nome parlante dal sapore antifrastico) e di Concetta. Lei per anni è stata la sua amante segreta, poi la sua convivente e un giorno diventa la madre dei suoi figli.
A divorare i due protagonisti, una passione che porta Casimiro a una gelosia patologica nei confronti di Concetta; e Concetta a una sottomissione costante, per cui le sue giornate passano in un'attesa paziente e annoiata. Poi ci sono le notti, quelle in cui Casimiro le recrimina chissà quali onte e poi le dimostra che sarà sempre sua possedendola e affondando il viso nelle carni bianchissime di Concetta.
Ma La vigna di uve nere non è solo una storia d'amore disfunzionale; al contrario, nel romanzo d'esordio di Livia De Stefani, uscito per la prima volta nel 1953, c'è la critica ben più ampia a un sistema intero di relazioni: a quelle familiari e sentimentali in primis, ma anche a quelle che regolano i rapporti tra gli uomini in Sicilia. A Cinisi, paesino palermitano, Casimiro coltiva la sua vigna di uve nere e vuole che tutti lo rispettino e lo temano. E lo stesso avviene a casa, dove non manca mai di imporsi.
Concetta, che «gli è schiava anche nell'anima» (p. 121), non riesce a sottrarsi alla seduzione di Casimiro, e desidera dei figli da lui. Si presta così a un gioco di potere pericolosissimo: restando incinta potrà offrire a Casimiro una conferma della sua virilità, lui che solo in questo campo – ovvero nella capacità di dare la vita – tentenna e dubita di sé stesso.
Dei sei nati (due dei quali, morti subito dopo la nascita), neanche uno viene cresciuto in casa, perché Casimiro e Concetta non erano ancora uniti dal sacro vincolo del matrimonio. Si perdoni il corsivo, volto a sottolineare la profonda contraddittorietà tra l'adesione alla fede cristiana agli occhi di tutti e, viceversa, il comportamento egoistico e amorale tra le mura domestiche.
Insomma, per non alimentare pettegolezzi, i quattro figli vengono affidati ad altrettante famiglie che hanno qualche debito nei confronti di Casimiro. Un esempio? Il primogenito Nicola viene lasciato a Gaspare, un uomo che, per essere stato testimone di un omicidio e per aver denunciato gli assassini, avrebbe certamente subito la vendetta spietata della mafia. Accettando di crescere Nicola, invece, Gaspare avrebbe goduto della protezione di Casimiro, che arriva a dichiarare: «È in mio potere di evitare ai deboli le vendette, quando lo meritano» (p. 70).
Sì, perché Casimiro si arricchisce, coltiva la vigna d'uve nere con sempre maggiore successo e diventa un uomo temuto e rispettato esattamente come voleva. Allora, quando agli occhi di tutti Concetta smette di essere la sua amante e viene vista «come vecchia e devota serva di un padrone ricco» (p. 76), lui può sposarla e riprendersi almeno tre dei quattro figli affidati (uno è stato regolarmente adottato e ci sono limiti che è meglio non valicare). Il tutto, senza chiedere ai bambini cosa desiderino e senza ascoltare le preghiere delle famiglie affidatarie, ormai affezionate ai piccoli.
Ma – contrariamente a quanto Casimiro si sarebbe aspettato – è proprio nel primogenito che si nasconde il suo più acerrimo nemico, colui che sogna continuamente di scappare e tornare da chi lo ha cresciuto:
Nicola ardeva di odio e di gelosia per quell'uomo tanto più forte di lui. Padre si diceva, era suo padre. Stridula e vuota, la parola gli sobbalzava nel sangue come un secchio spinto ad affondarsi nella resistente superficie d'acqua di un pozzo. Un padrone era. Un padrone da servire, senza amore e per un incerto guadagno. (p. 98)E per assicurarsi che Nicola non fugga, Casimiro lo incatena in camera sua ogni notte e ogni volta che si allontana dalla proprietà. Le figlie Rosaria e Gentilina, invece, restano ammaliate dalla figura del padre e sembrano volerlo compiacere. Concetta, che non è mai stata in grado di difendere sé stessa, resta a guardare, impotente e incapace di prendere le parti dei figli; intanto, soffre.
Muove da qui la seconda parte della vicenda, in un crescendo di tensione: il fato si ribella contro le pretese di Casimiro di manipolare tutto e tutti a suo piacimento. E dunque noi lettori aspettiamo con trepidazione di conoscere quale dramma si abbatterà sulla famiglia, chi sarà la vittima e quale il sacrificio.
Livia De Stefani non lascia spazio alla redenzione né al pentimento: Casimiro è un uomo che porta avanti le sue convinzioni con una fierezza malsana e un orgoglio nefasto per lui e per chi ha intorno. Non chiede, ordina; non desidera, pretende; non discute, impone. E, dunque, non stupisce che ci sia chi lo detesta e chi invece cede alla paura e si lascia sottomettere.
Romanzo ammirato fin dalla sua uscita, La vigna di uve nere si distingue per una «densità del linguaggio (per lo più elaborato e anche prezioso)» che «invece di appesantire mette in rilevo» (Eugenio Montale). La «scrittura elegante e precisa», colta anche dal «New York Times», colpisce noi lettori di oggi e non manca di ricordare un omaggio alla prosa primo-novecentesca, pur aderendo a un realismo che colpisce e sa quando scegliere una lingua mimetica e addirittura brutale.
GMGhioni
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