Se la parola “avventura” segnala un movimento in avanti verso qualcosa che accadrà (ad-ventura), ed è proprio l’incertezza del suo esito a renderla così entusiasmante, va da sé che il suo contrario (dis-ad-ventura) non lascia molti dubbi sulla coltre di oscurità che si profila all'orizzonte. Non è forse casuale, allora, che Umberto Galimberti – filosofo, psicanalista e acuto districatore delle nostre contraddizioni – abbia scelto di intitolare proprio Le disavventure della verità il suo nuovo saggio, pubblicato nella collana “Idee” di Feltrinelli. Ma che verità?
Stabilire cosa sia “vero” in un’epoca come quella attuale è complesso. Tra propagande acchiappa-voti, una cultura sempre più commerciale, una scuola burocratica orientata alla tecnica, e un marketing aggressivo affezionato al consumismo, la capacità di problematizzare, distinguere, giudicare, è palesemente in crisi. La mente dorme, forse è solo disinteressata, mentre bulimici trangugiamo forchettate di informazioni che non abbiamo il tempo di digerire. Possiamo parlare, oggi, di verità se stiamo rinunciando, un giorno alla volta, alla virtù del differenziare? L’invito alla riflessione di Galimberti assume così il tono della necessità.
Tracciando una mappa evolutiva del concetto di verità dalle tradizioni greca ed ebraica al Medioevo, fino poi all’età moderna e ai giorni nostri, il filosofo, con il critico lume del suo disincanto, non ricorre all’anestesia, denunciando alcune derive dell’uomo contemporaneo, ovvero della sua società. Tra le molte questioni che Galimberti porta alla luce, due si impongono con maggiore urgenza: come la verità si declina in relazione ai concetti di persuasione e di tecnica.
La persuasione è uno strumento pericoloso, perché potente. La complessità della società odierna e l’amplificazione delle notizie nei media ci rendono vulnerabili alle narrazioni cui siamo senza tregua esposti. La persuasione agisce allora come un incantesimo: altera la realtà e allo stesso tempo vende, alle orecchie di chi ascolta, menzogne travestite da verità. L’approvazione che genera non riguarda tanto il contenuto – assimilato passivamente come polvere nell'aria – quanto l’oratore, che, con la sua padronanza, diventa oggetto di fascinazione. In questo senso, oggi, la verità, più che "essere", si costruisce.
I mezzi informatici di comunicazione, da cui nessuno si stacca quasi fossero protesi indispensabili del nostro corpo, sembrano facilitare la divulgazione delle nostre idee, mentre sotto sotto modificano a nostra insaputa il nostro modo di pensare, rendendolo da “problematico” a “binario” secondo lo schema informatico 0/1, che ci riduce a dire solo “sì” o “no”, al massimo “non so”. (p. 13)
Di questo meccanismo, forse siamo in parte consapevoli. Perché allora preferiamo convincerci che, in fondo, non va poi così male? Mettere in discussione non solo le notizie da cui siamo continuamente assediati, ma soprattutto l’idea del mondo e di noi stessi che ci siamo costruiti nel tempo, ha un costo elevato: «l’inquietudine del pensiero» (p. 24). Eppure, è proprio la flessibilità a favorire un'apertura e tolleranza verso l’altro, e dunque un avvicinamento più autentico alla verità. L'antidoto all’assuefazione collettiva auspicata dai nuovi sofisti rimane il pensiero critico: un atteggiamento di vigile dubbio nei confronti del mondo. In altre parole: la cultura. Ma nel suo significato originario di coltivare, non come accumulo di nozioni in vista di una performance, come fa comodo intenderla oggi. La mente – lo ricorda Plutarco (I-II d.C.) – non è un vaso da riempire, ma un tizzo di legno che attende una scintilla ad accenderlo.
Alla difficoltà di distinguere la verità dalla sua mistificazione, si aggiunge poi il dominio della tecnica sull’uomo, questione che Galimberti indaga almeno dal 1999 con Psiche e techne (Feltrinelli). Oggi l’uomo non si serve più della tecnica come di un mezzo in vista di un fine: è lui stesso a essere diventato un mezzo, subordinato al continuo perfezionamento tecnico. Ma a quali bisogni dell’essere umano questo risponde? La tecnica lo aiuta davvero a comprendere sé e il mondo? Rafforza il suo equilibrio interiore, la stabilità della mente? In altre parole: è inserita in un orizzonte di senso?
La risposta negativa a queste domande basterebbe in sé a rendere necessaria la revisione di un sistema che ci costringe ad affannarci, come criceti, nella ruota della produttività. Il vero punto, però, è che l’uomo, e quindi tutti noi, ha cessato da tempo di essere il soggetto di interesse. Da immagine e somiglianza di Dio, è ormai simulacro della tecnica stessa: funziona, calcola, produce, e ottimizza il suo tempo.
In effetti ci stiamo arrivando, affascinati dall’idea che si possa controllare tutto, vita e morte, salute e malattia, vulnerabilità e invulnerabilità. L’idea di poter anticipare gli eventi, sondare le preferenze, scomporre la vita emotiva nelle sue componenti elementari, onde poterle meglio conoscere e nel caso manipolare, è un puro piacere di potere, di cui la memoria informatica, nella visione dell’intelligenza artificiale, pare si sia innamorata e, nella sua euforia vertiginosa, non abbia timore di utilizzare anche l’uomo come materia prima (p. 121)
Se in questa deriva tecnica rischiamo di perdere il pensiero critico, la curiosità generatrice di sogni e di idee, e il senso di appartenenza a una comunità oltre l’interesse del singolo, allora oggi, più che mai, siamo preda di quelle “cieche speranze” che Prometeo donò agli uomini per distrarli dalla loro mortalità. Ma nonostante il perfezionamento tecnico, noi moriamo comunque. Il limite che segna la nostra appartenenza alla natura – la stessa natura che pretendiamo di dominare – resta.
Forse, per concludere, solo un'onesta riflessione sulla morte potrebbe invertire la rotta. Vale davvero la pena sciupare così questa sola e irripetibile possibilità di stare al mondo? Se la risposta è no, leggete Umberto Galimberti.
Giulia Tardio
