di Gerardo Spirito
Effequ, settembre 2025
pp. 273
€ 18 (cartaceo)
€ 6,99 (e-book)
Giona indicò col mento le stampe ammassate nel carretto e disse: Avete una stampa che raffigura Dio? Il viso del calderaio si indurì: Dio? Sì, Dio. Non esistono stampe che raffigurano Dio. E perché? Perché Dio non può essere raffigurato. Siete sicuro di questo? Il calderaio girò il volto e sputò per terra: Sì, sono sicuro. Giona rimase immobile. Il calderaio si segnò una croce su labbra e petto e soggiunse: Dovresti ritornare a casa dai tuoi genitori, o dovresti andare in chiesa e confessarti e chiedere perdono. Riuscireste a riconoscerlo? Chi? Dio. Ancora? Intendo, se passasse ora per questa strada, davanti a noi, sapreste che si tratta di Dio? Il calderaio arricciò le labbra: Ragazzino, torna a casa dai tuoi genitori. Riuscireste a riconoscerlo? Il calderaio scosse la testa, una ruga gli incideva la fronte: Non insistere, torna a casa. lo lo riconoscerei. Chi? Dio, il suo volto. Tu sei matto, va via, ho smesso di parlare con te. (pp. 50-51)
Gerardo Spirito, già autore de Il libro nero della fame (2022) e Madreselva (2025) per la casa editrice Moscabianca Edizioni, nonché fondatore della rivista Calvario, doppia quest'anno le sue pubblicazioni con un nuovo titolo. Ovvio riferimento a Pastorale americana di Philip Roth, col quale condivide anche la serie, nel primo caso chiamata American Trilogy per l'autore americano, in questo potremmo dire Trilogia Mediterranea.
Il nuovo testo – che non è un romanzo né una raccolta di racconti, ma un fabulario (come dichiarato nel sottotitolo) – è dunque un'opera ibrida che raccoglie miti, leggende, storie orali, genealogie, erbari, favole della povera gente. Conserva, in accordo alle pubblicazioni precedenti, una predilezione per le persone comuni, poveri, contadini, pastori, carbonai, mendichi, preti spretati, vedove e bambini cenciosi, e ambientazioni vaghe, senza localizzazioni esatte, ma che rimandano senza dubbio ai paesaggi del Sud.
Un Sud antico, volgare (nel senso di volgo, non di turpe), misero, abitato da gente semplice, tendenzialmente caritatevole e accogliente (a parte qualche eccezione) che vive di baratto, giornate alla buona e speranza nei miracoli.
Dormono e all'alba riprendono il cammino. Intorno una nebbia cinericcia. Il cielo basso. L'aria umida. Attraversano un querceto secolare. Le foglie oscillano, frusciano, bisbigliano, sembra che cantino. Escono dal querceto e la nebbia si dirada e le nuvole si allargano e il sole appare furioso e abbacinante. Raggiungono un villaggio senza nome edificato tra le sponde di un fiume senza nome. Le case sono di legno e di pietra. Le strade di terra battuta. Ovunque, empori porcili e pagliai. È giorno di mercato. La gente del villaggio è felice e amichevole. Offre loro carne di maiale e tinche e barbe canine. Li invita a giocare una partita a dadi o assistere a una sfida alla morra. Una folla di cani e di bambini scalzi segue il carro fino alla piazza a forma di rombo. Al centro della piazza, un albero della cuccagna. Giuseppe si guarda intorno, poi bisbiglia a Giovanni: Non c'è nemmeno una chiesa. Giovanni annuisce. Abbeverano i muli. Poi si mettono a riparare e vendere e barattare ferraglie fino al tramonto. (pp. 20-21)
I protagonisti del testo sono questuanti, pellegrini, calderai, donne devote, ragazzi che cercano la fede, uomini che sperano in segni miracolosi divini: i calderai della prima parte, Giovanni e Giuseppe - padre e figlio - vagano di villaggio in villaggio, ognuno con le sue peculiarità e carattere, sia in termini ambientali che antropologici, incontrando diverse persone con cui praticare il baratto, di merci e di storie.
Il secondo racconto, Storia del giudizio, invece vede protagonista un ragazzo sveglio, Giona, che si mette in testa di cercare Dio, un suo segno, una sua manifestazione tangibile del mondo. Leggiamo della sua curiosità, ma anche della sua disillusione, quando capisce che forse Dio è solo una favola come le altre, «una superstizione popolare» (p. 59)
All'estremo opposto, quasi specularmente, troviamo il questuante, che invece di acquisire la fede, o di confermarla, forse la perde durante il suo cammino.
E poi il mio racconto preferito, La nascita di Aimone: Spirito costruisce una variazione sul tema dell'Immacolata Concezione rendendo protagonista una vecchia vergine che, a quanto pare, sta per partorire un bambino nel paese della steppa, il paese di S. (protagonista esso stesso della sezione seguente, il Breviario).
La parte seconda che racconta i fatti di 'onna Tebe, forse santa forse ciarlatana, sottolinea la conoscenza e la predilezione dell'autore per le erbe, una conoscenza del mondo vegetale notevole, in termini di nomi, colori, usi, impieghi nella medicina popolare. In generale, questa ricchezza descrittiva si applica a tutto il testo, nel racconto delle fisionomie, degli abiti, del cibo e delle bevande, dei paesaggi.
Cosa molto interessante, che mi piace sempre tanto, nella parte successiva gli stessi fatti – i presunti miracoli della vecchia santa – vengono raccontati da un diverso punto di vista, quello dei miracolati, un cieco che vuole riacquistare la vista e una famiglia che spera nella guarigione del loro bambino afflitto da febbre.
Lo stile paratattico rende il testo svelto, incisivo, asciutto. Per contro, come dicevo prima, la ricchezza descrittiva, la pietà con cui sono descritti i personaggi e la poeticità scelta per le ambientazioni, equilibrano il testo.
C'è il sacro e c'è il mito che si mescolano; c'è Dio e la speranza di trovarlo; ci sono i miracoli e le bestemmie; c'è l'italiano aspro e il dialetto stretto (vagamente napoletano, forse sannita, sporco e strascicato); ci sono i santi, ma del popolo, non quelli con le corone dorate nelle chiese.
Insomma ci sono tutti gli elementi prediletti dell'autore – la plebe, la natura, il divino e il terreno.
Deborah D'Addetta
