Il tempo è un cerchio. "Sette volte bosco" di Caterina Manfrini

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Sette volte bosco
di Caterina Manfrini
Neri Pozza, 2025

pp. 202
€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (e-book)


Tra di loro non rimaneva niente, nemmeno la linea retta delle stagioni trascorse lontani. In quel momento erano insieme, il tempo era divenuto un cerchio, e con quell'abbraccio tornavano al principio (p. 103)

C'è una ragazza, ferita nell'anima, seduta in un vagone, che sta tornando a casa da un luogo sinistro, dove la fame, la paura e la morte la fanno da padrone. Il solo nome mette i brividi, Barackenlager Mitterndorf. Non un campo di concentramento, in senso stretto, ma un campo profughi, dove vivevano, in condizioni ben poco umane, coloro che, in tempo di guerra, erano stati costretti ad abbandonare le proprie case. Tra questi, la gente del Tirolo Meridionale, quella che adesso è terra italiana, ma allora non lo era. Proprio la dichiarazione di guerra dell'Italia all'Impero austro-ungarico, nel 1915, aveva reso quelle zone, dalla val Lagarina in su, terreno di battaglia. Trasformando di fatto i popoli che qui vivevano in "austriacanti", per lo meno così venivano definiti coloro che avevano accettato, più o meno volentieri, la dominazione asburgica. La ragazza sul treno non sa nulla di tutto ciò, non è una fervida sostenitrice dell'una o dell'altra parte. Sa solo di essere rimasta sola, i suoi genitori con i quali era partita per Mitterndorf sono rimasti sepolti là, il fratello Emiliano, partito per la guerra, non ha più dato notizie di sé. Dopo aver perso anche la dignità in quel campo profughi dove ci si contendeva anche una briciola di pane, la ragazza di suo possiede soltanto il nome, Adalina. Ma lì, su quel treno, nessuno conosce il suo nome per intero, qualcuno la chiama Ada.

Se davvero anche Emiliano era morto, allora pure la valle di Terragnolo, dove lei e il fratello erano nati e cresciuti, avrebbe dimenticato che, tra le mura domestiche, lei era sempre stata "Lina". Nascondeva quel secondo pezzetto di nome come una moneta d'oro, e da mesi si abbandonava alle misere ore di sonno con la speranza di sentirlo ancora pronunciare (p. 8).

Si apre così Sette volte bosco, il romanzo d'esordio di Caterina Manfrini, che nelle terre descritte nel libro, a Rovereto, ci è nata. Un romanzo crudo e poetico viene definito nella quarta di copertina e, in effetti, l'alternanza tra elementi così contrapposti, la durezza, la violenza, il dolore da un lato e il ricordo malinconico, la dolcezza, la poesia dall'altra costituiscono la cifra narrativa della storia. Che prosegue con il ritorno di Lina al suo màs, il maso, il casolare dal quale era stata portata via, dove c'è un mondo da far ripartire piano piano. Nel lungo viaggio in treno Lina pensa tremando al suo maso, in quali condizioni possa essere, se potrà avere ancora qualcosa da chiamare casa. Con sua grande sorpresa, al ritorno si rende conto di non essere sola nel casolare, un ragazzo giovanissimo, apparentemente un ex soldato che non parla o strascica qualche parola di tedesco, si è nascosto, ferito e impaurito. Il resto della storia lo scoprirete voi.

La natura, nel libro, ha un ruolo di primo piano, ma non soltanto come sfondo o meta ambita alla quale tornare, ma proprio come personaggio letterario. È la natura con la quale si confrontavano gli uomini e le donne del passato, un'entità alla quale non si poteva comandare, ma che era necessario assecondare per vivere e sopravvivere. Un sentimento di profondo rispetto legava allora le genti alla natura, che non era vista soltanto come salvifica e "green", come adesso, che la viviamo anelando al suo ritorno, dopo averla violentata e sacrificata. No, allora la natura era sovrana, poteva anche fare dispetti se non ci si accostava a lei con il dovuto riguardo. Nel romanzo, un ruolo di primo piano lo gioca il torrente Leno, che scorre accanto al maso e che di fatto, esclude quel casolare dal resto del paese (ed ecco che Lina e i suoi familiari erano considerati revers, strani, bizzarri). Il torrente è l'Anguàna, una divinità delle acque nella quale non bisogna specchiarsi più di tanto, a rischio che ti porti via con sé. Il bosco è pieno di Salvans o Salvanèi, piccoli esseri pronti a fare dispetti, chi per disgrazia incappava in uno scherzo di questi gnomi doveva infilarsi le scarpe, le sgàlmere, al contrario. Solo così sarebbe tornato a casa sano e salvo. Adalina è figlia della natura, conosce tutte le erbe e i loro effetti, tanto che sulla fòrnela ha sempre un pentolone per qualche pozione. Vive secondo i ritmi dettati dalla natura stessa, come, del resto, tutti gli altri abitanti di quelle terre, nella Val Terragnolo, ai piedi del Pasubio, terre di montagna, mai così semplici da vivere. Il titolo stesso deriva dalla massima che governava l'esistenza di queste popolazioni vivevano: siban beerte balt, siban beerte biiza, sette volte bosco, sette volte prato. A significare che la vita è un cerchio, tutto torna e tutto riparte.

Non ci si stupisca delle parole utilizzate in questa recensione, è il romanzo stesso a essere plurilinguistico: all'italiano del narratore, anzi della narratrice, si contrappone la lingua della protagonista, di Adalina, che non può essere l'italiano, ma è il dialetto. E le numerose espressioni dialettali che infarciscono il testo danno l'esatta percezione di come Adalina pensava e parlava. Una scelta espressiva che non interferisce con la comprensione, soprattutto per lettori contigui territorialmente, ma che, forse, può diventare un po' ostica per altri. D'altronde, siamo più abituati a confrontarci con il dialetto siciliano o il campano, nei testi letterari. A me personalmente la scelta è piaciuta e contribuisce a dare originalità e concretezza al racconto. A completare il plurilinguismo del testo c'è anche qualche parola in zimbàr, in cimbro (come il proverbio di cui sopra), la lingua antica dei genitori, del padre soprattutto che, per Adalina, è la lingua della memoria, del ricordo di un tempo perduto.

Tante sono le tematiche che si rincorrono nel romanzo che ha il pregio di far riemergere una storia, nemmeno troppo conosciuta, quella delle terre intorno al Pasubio, terre di guerra e confine di popoli che faticavano a capirsi, non soltanto dal punto di vista linguistico. C'è la tematica del ritorno dalla guerra e delle difficoltà che questi ragazzi trovavano al loro ritorno, quando si rendevano conto che il mondo che avevano lasciato non esisteva più. E d'altra parte loro stessi erano profondamente cambiati da ciò che erano stati costretti a vedere, a subire e a fare.

La montagna era sull'orlo di un'estate senza spari. Lui, finalmente, era tornato da lei: questa volta senza fucile, senza baionetta. Le si presentava con il cappello tra le mani, orfano e con mezzo piede in meno, e le chiedeva di accoglierlo. Era tutta lì, la verità. Rimase in attesa di stelle cadenti. in quel momento, gli sembrò, non avrebbero potuto spaventarlo più di tanto (p. 154).

C'è il tema della terra, come madre, sostentatrice, ma anche come ultimo ed eterno rifugio di giovani ragazzi che mai più rivedranno le loro madri, le loro mogli, le loro ragazze, di qualunque patria siano. Una terra violentata, costretta ad accogliere anche quei resti di guerra, le bombe, pronte a seminare ancora morte. Una terra che però accoglie anche chi se n'è andato, per forza, chi è tornato e chi la sceglie come nuova vita, una terra che conosce il passato e alla quale affidare il futuro. C'è il tema dell'amicizia, messa a dura prova dagli eventi bellici, il tema dell'amore, complicato, mai scontato. E, soprattutto, Manfrini ha il merito, di affondare il dito in una piaga rimasta aperta per parecchio tempo, quella della convivenza tra genti di confine, i taliani da una parte e gli austriacanti dall'altra. Persone di lingua, cultura, tradizioni diverse, che la Storia ha costretto a guardarsi, a toccarsi.

Nonostante sconti qualche piccolo difetto d'esordio, qualche filo narrativo che forse avrebbe meritato maggior tessitura, il romanzo convince sia dal punto di vista tematico e narrativo che da quello stilistico e linguistico.

Sabrina Miglio